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Puntata 3

Alea iacta est Siciliam et Calabriam aedificamus pontem. Nel 250 a.c la grande impresa dei Romani, il primo e finora unico ponte (galleggiante) sullo Stretto

 |  Speciale Ponte sullo Stretto

Non fu un miraggio il clamoroso attraversamento dello Stretto su un “ponte a tempo” a pelo d’acqua 2275 anni fa, al termine della vittoriosa prima guerra punica. Fu una lezione del mood dei Romani, grandi maestri dell’ingegneria e dell’architettura, la rappresentazione di una sfida e di una impresa  che sembravano impossibili e che dopo 2275 anni resta ancora come l’unico guado che ha unito le due sponde. E per questo, l’epica storia del passaggio tra le sponde siciliane calabresi nell’anno 250 avanti Cristo vale un racconto. Che non può non iniziare dall’alba del 264 a.C. quando iniziò la prima delle tre guerre puniche combattute tra l’antica Cartagine e la Repubblica Romana, che sarebbe durata fino al 241 a.C..

La scintilla fu accesa dai mercenari Mamertini della Campania. Erano feroci guerrieri adoratori di Mamers, il dio Osco della guerra, il Marte dei Latini, assoldati anni prima dal tiranno di Siracusa Agatocle per contrastare l’avanzata dei Cartaginesi in terra siciliana. Alla sua morte, però, i Mamertini si impadronirono a tradimento dei suoi possedimenti e della città di Messina sterminando senza pietà e spargendo il terrore in tutta la regione orientale dell'isola, saccheggiando, distruggendo e sottoponendo a tributo i sopravvissuti. Nel tempo furono alleati di Roma e nemici dei Cartaginesi, poi alleati dei Cartaginesi e nemici di Roma finché non vennero sottomessi al duro protettorato dei Punici tornando filo-romani e supplicando il Senato di inviare le Legioni in loro aiuto e per contrastare l’avanzata dei Cartaginesi sull’isola e il controllo dalla via di navigazione dello Stretto.

I Romani avevano tutto l’interesse a sottometterli sia per mettere fine alla storia dei Mamertini, sia per avere il controllo dell’isola che significava controllare parte del Mediterraneo e la gestione dello strategico Stretto che li avrebbe resi padroni della via di comunicazione tra il Tirreno e lo Ionio.

Cartagine controllava allora vasti territori dell’Africa, parte della Spagna, la Sardegna e parte della Sicilia. L’ultimo Foedus, il Patto siglato tra Roma e Cartagine risaliva al 279 a.C. ai tempi della loro alleanza contro Pirro re dell’Epiro, l’antica regione del sud-est dell'Europa fino alla Grecia nord-nord-occidentale. A guerra conclusa il territorio conquistato venne diviso garantendo a Cartagine il controllo di una parte delle terre con anche la Sicilia ma fino alla via dello Stretto ed escludendo il loro ingresso nella penisola nelle mani di Roma. Come resoconta Livio, però, i Punici già nel 272 a.C. inviarono una loro flotta di guerra contro Taranto, violando il patto. E così, 264 a.C., dopo un lungo e aspro dibattito, i Senatori decisero di approfittare di quella scintilla siciliana per far esplodere il grande incendio mediterraneo avviando la prima guerra contro Cartagine con lo sbarco dalle navi dei legionari al comando di Appio Claudio che occuparono Messina. I Cartaginesi, però, la strinsero d’assedio ma sbarcarono nuove Legioni di rinforzo e l’esercito punico fu sconfitto, come anche nelle furiose battaglie navali successive, tra le più grandi e cruenti dell’antichità.

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L’ASSEDIO E LA BATTAGLIA DI PALERMO DEL 251 a.C. 
I ROMANI CONTRO I CARTAGINESI E I LORO ELEFANTI DA GUERRA

Quando correva l’anno 251 a.C., l’esercito dei Punici puntava alla conquista di Palermo dove erano asserragliate le legioni di Lucio Cecilio Metello. I Romani non potevano rischiare un’altra sconfitta dopo essere stati pesantemente battuti nella battaglia di Tunisi del maggio del 255 a.C., travolti dalle impressionanti cariche degli enormi elefanti da guerra che sbaragliarono le difese romane, e perdipiù nella ritirata verso Roma la loro flotta fece naufragio colpita da una violenta tempesta con impressionanti perdite umane e di imbarcazioni. Anche se l'anno successivo riuscirono a riconquistare Palermo, Cartagine controllava incontrastata il mare con oltre duecento navi e aveva inviato sull’isola l’esperto generale Amilcare Barca con un esercito ben organizzato e stanziato nei pressi di Capo Lilibeo lungo la costa trapanese che era già in mano cartaginese. Come scrive Polibio nelle Storie, avevano trasferito sull’isola anche una prima linea forte di 140 temibili pachidermi addestrati alla guerra.

Amilcare diede l’ordine di attaccare Palermo, e guidò il suo esercito fino ai confini della città. Schierò a vista dalle mura i suoi elefanti, la sua più potente e strategica arma bellica, i “carri armati” del mondo antico fino ad allora imbattibili e inarrestabili. Erano stati trasferiti sull’isola a bordo di possenti navi e grandi zattere.

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Il loro trasporto per la campagna militare richiese un’organizzazione complessa per l’epoca, con navi appositamente modificate o costruite per accogliere animali di enormi dimensioni e quindi molto più robuste e anche più lente nella navigazione, con i ponti rinforzati per sostenerne il peso e le robuste rampe per imbarcarli. Una volta a bordo, riuscivano a tenerli il più possibile tranquilli grazie ai loro addestratori, e non facevano mancare il cibo per ridurre al minimo i rischi di agitazione e di movimenti bruschi che avrebbero potuto compromettere l’equilibrio e l’assetto dell’imbarcazione. Erano elefanti anche addestrati a obbedire ai loro mahout, i conduttori, che durante il trasporto erano sempre accanto a loro per tenerli il più possibile tranquilli e gestire eventuali problemi. Anche le rotte marittime dall’Africa erano state attentamente pianificate, e navigavano lungo costa con soste frequenti, dimostrando capacità logistiche e strategiche.

Le stesse capacità che avrebbe messo in mostra anche Annibale Barca, figlio di Amilcare, quando, nel settembre del 218 a.C., nella Seconda Guerra Punica, fu protagonista di una delle più grandi e spericolate imprese di guerra andando alla conquista di Roma valicando i passi dei Pirenei e poi delle Alpi innevati e ghiacciati con 37 elefanti addestrati alla battaglia, 26 mila soldati e 10 mila cavalli. Annibale evitò il mare e preferì far affrontare ai pachidermi la fatica estrema e mai sopportata dei gelidi valichi montani.

Giunto in Italia, quando superò anche l’Appennino e si aprì davanti a sé la pianura dell’Italia centrale era la primavera del 217 a.C. e aveva al seguito ancora 21 spaventosi e spaventati elefanti superstiti. Ma, dopo aver sconfitto gelo e neve, malattie insidiose e popolazioni ostili, restò quasi intrappolato per quattro giorni e tre notti da incubo nell’acqua e nel fango di una delle più terribili piene dell’Arno e del Tevere. Perse molte delle sue truppe africane, degli alleati iberici e della fanteria dei Galli e lui stesso rischiò la vita quando, spossato, cadde da cavallo. Lo ripescarono mezzo morto e lo legarono all’unico elefante rimasto vivo. Ma una violenta infezione lo rese quasi sordo e cieco per sempre da un occhio. Nell’occhio superstite rimase però incancellabile quell’Odissea nell’Etruria.

Come finì l'epica traversata lo sappiamo dai libri di storia. Usciti dal pantano, Annibale ritrovò il sole e le terre coltivate dagli Etruschi. Fece riposare le sue truppe, lasciò libertà di saccheggio e i suoi medici cercarono di bloccargli la terribile infezione. Poi mosse le sue truppe verso sud e un altro elemento naturale, la nebbia, quella volta gli fu alleata. Sul lago Trasimeno, infatti, riuscì a sconfiggere i Romani e sognò la conquista dell’Imperium che però si rivelò impossibile.

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Ma tornando in Sicilia, nei giorni dell’assedio di Palermo gli strateghi Cartaginesi e lo stesso generale Amilcare erano certi che per la resa dei Romani sarebbe bastata la sola vista dello schieramento dei loro possenti pachidermi maschi, scelti per la loro imponenza e aggressività e con sul dorso le torrette ognuna delle quali trasportava 4 soldati armati di archi e lance lunghe oltre al conduttore. Grandi corazze coprivano le loro orecchie e le proboscidi per ripararli da colpi e piogge di frecce e per intimorire gli avversari fiaccandone la resistenza, e mossero sicuri di batterli conquistando la città.

Cecilio Metello, però, fu abile nell’evitare lo scontro diretto e attese i Cartaginesi al riparo delle possenti mura della città. Amilcare pensò che i soldati fossero troppo spaventati per combattere, e diede l’ordine ai conduttori di far avanzare gli elefanti e caricare e alle sue truppe di seguirli. Ma solo allora le porte di Palermo si aprirono e uscirono correndo verso un largo e lungo fossato laterale soldati e soprattutto arcieri, mentre il grosso dell’esercito rimase ancora all’interno delle mura. I Cartaginesi, come raccontano Polibio e Plinio, andarono all’attacco con gli elefanti sulla prima linea, proprio come Cecilio Metello aveva previsto. Ma, appena iniziata la carica, dal vasto fossato dove si erano nascosti, i soldati di Roma iniziarono a scagliare migliaia di giavellotti e frecce che colpirono dal basso le pance e le zampe dei grandi animali senza protezione, mentre dalle mura le baliste lanciavano enormi dardi. I molti elefanti feriti e frastornati crearono il caos più totale, anche tornando indietro e correndo e colpendo in ogni direzione in cerca di vie di fuga. Calpestarono migliaia di cartaginesi, gettando nel panico le truppe.

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Solo a quel punto, i legionari romani ricevettero l’ordine di uscire dalle mura per l’attacco finale, e fu una disfatta per i Cartaginesi costretti alla ritirata lasciando sul campo migliaia di morti e prigionieri e tanti elefanti uccisi o feriti o catturati.
Fu una vittoria epocale che segnava anche l’egemonia marittima sul Mediterraneo e, per celebrarla al meglio, la famiglia di Cecilio Metello fece coniare l’elefante sulle monete come loro simbolo, e li fece raffigurare sulle insegne.

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COME FAR ATTRAVERSARE LO STRETTO AGLI ELEFANTI?

Il trionfatore Cecilio Metello doveva però risolvere il più velocemente possibile un grosso problema: far passare sull’altra sponda il suo “bottino di guerra”, i pachidermi catturati dovevano sfilare a Roma nelle celebrazioni in pompa del Trionfo. Era quello il massimo onore e l’ovazione che il Senato e il popolo dovevano tributati a lui e ai suoi generali e legionari, e già immaginava gli elefanti al centro di una delle più colossali cerimonie solenni organizzata come ricompensa per la grande vittoria.

Che fare? Era un problema tecnico-logistico non da poco per i Romani, non abituati al trasporto di animali così ingombranti e pesanti. Non potevano certo aspettare la costruzione di robuste navi da carico o la modifica delle loro grandi naves onerariae non adatte all’imbarco di enormi e possenti animali con zanne imponenti che mai sarebbero entrati sul ponte o sotto coperta. Non potevano essere legati perché avrebbero ostacolato le manovre, innescato beccheggi e rischiosissime oscillazioni aggiunte a quelle prodotte dalle correnti marine navigando in un braccio di mare aperto come quello dello Stretto.

IL TABÙ DEL “PONTE”

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La costruzione di un ponte nell’antichità romana aveva poi un problema in più. Richiedeva, oltre la tecnica e la perizia, anche la soluzione di tabù religiosi e culturali. I ponti, infatti, erano considerati - come nelle varie sceneggiature culturali del tempo – delle “opere sacre”. Dovevano attraversare l’acqua considerata un “tempio” la cui sorgente era posta in cielo, e per questo era divinizzata come elemento della Natura inviolabile. Lanciare da una sponda all’altra un ponte avrebbe potuto scatenare l’ira funesta di déi vendicativi contro il sacrilegio e la profanazione che rompeva regole ancestrali annidate nel profondo dell’animo umano, e interrompeva l’armonia e l’ordine e l’equilibrio prefissato delle cose.

Però i ponti bisognava costruirli, e i Romani ne costruirono molti in tutto l’Imperium, superando il tabù e ristabilendo l’equilibro naturale interrotto con artifici e sacrifici anche umani. Inizialmente, come racconta Ovidio, nei “Fasti”, nei tempi arcaici dei Latini sacrificavano ogni anno nel Tevere una vittima umana per ogni gens, in onore di Saturno.  Anche gli Egizi lo facevano nel Nilo per propiziare le “lacrime di Iside”, metafora di benefiche inondazioni, celebrando terrificanti “matrimoni sacrificali” di fanciulle in vesti nuziali che il sacerdote barbaramente annegava nel fiume.  A quella barbarie all’origine di Roma, narra Ovidio, posero fine Ercole e i colonizzatori greci, che fecero sostituire i corpi umani con dei fantocci di giunco. Ai tempi della prima Roma Etrusca, ogni anno, tra il 14 e il 17 maggio, sotto il ponte Sublicio le Vestali nei rituali delle feste dei Lemuria lanciavano nel Tevere 27 fantocci chiamati Scirpea o Quiriti di paglia, con piedi e mani legati per propiziare la benevolenza del dio Tiberis.

Ma anche il passaggio di uno Stretto, in altre civiltà, richiedeva riti propiziatori. Come accadde per l’attraversamento degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli al tempo dei Persiani.

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Oggi è lo Stretto del Bosforo è il braccio di mare che dal Mar di Marmara porta al Mar Nero, lungo 30 km e largo da un massimo di 3 km alle bocche a un minimo di 1 km a Kandïllï e Orta, profondo in media 30-40 metri, tranquillamente percorso dalle compagnie di navigazione. Nel 514 a.C., il re Persiano Dario il Grande, racconta lo storico greco Erodoto, nelle sue guerre di conquista lo fece attraversare dalla sua immensa armata su un ingegnoso ponte di barche realizzato quasi sicuramente nel punto più ravvicinato largo 1 km per trasferire il suo esercito in Tracia, e quando raggiunse il delta del Danubio ordinò un altro ponte di barche per l’attraversamento e proseguire la campagna di conquista. E così fece anche suo figlio Serse, diventato re, durante le guerre contro le città-stato greche nel 480 a.C. ordinando la costruzione di un ponte-passerella sull’Ellesponto, oggi lo Stretto dei Dardanelli, per una lunghezza di 1,2 km. Ma nel caso di Serve i rischi soprannaturali prevalsero per mancate o ridotte celebrazioni e offerte agli déi. Durante una tempesta le funi non ressero e il ponte fu spazzato via dalle correnti. Erodoto racconta che Serse fece giustiziare gli ingegneri progettisti dell’opera, e ordinò persino che l’Ellesponto ricevesse 300 simboliche frustate e che 2 ceppi marchiati fossero gettati nel mare come macchia perenne di disonore. Scelsero nuovi ingegneri per un nuovo ponte mobile e questi, terrorizzati dalla sorte dei colleghi, presero ogni precauzione affinché potesse reggere. Serse attraversò il mare ma fu sconfitto e la sua grandiosa spedizione militare si concluse con una grandiosa vittoria dei Greci. Eschilo, nella tragedia “I Persiani”, non a caso fa esporre dal defunto re Dario il motivo per cui suo figlio Serse venne sconfitto dai Greci dopo aver attraversato lo Stretto: “Pensò di trattenere con legami lo scorrere del sacro Ellesponto, la divina corrente del Bosforo, quasi fosse uno schiavo, e tentò di trasformare lo Stretto, e chiudendolo in ceppi forgiati col martello creò un’ampia strada per un ampio esercito. Pur essendo mortale gli dèi tutti, e in particolare Poseidone, credette di dominare, con mente non retta”.  

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IL TABÙ DEL PONTE RISOLTO DA CECILIO METELLO PONTIFEX MAXIMUS

Per costruire robusti ponti con il favore degli dèi, dai tempi di Numa Pompilio a Roma delegavano la più antica e alta carica sacerdotale, quella del Pontifex Maximus, il titolare dei rituali religiosi in grado di placare le divinità violate e di conservare la Pax Deorum. L’Ars Pontificia era guidata dal più alto grado sacerdotale del Pontifex Maximus, ed era composta inizialmente da 5 e poi da 16 Pontifex, che peraltro erano anche i migliori architetti e costruttori di ponti e i soli autorizzati a edificarli. Il Pontefice “facitore di ponti” - etimo di pons, ponte, e di facere, fare - sovrintendeva alla loro progettazione, costruzione e manutenzione accompagnate da preghiere, rituali propiziatori, offerte agli déi, lavaggi e purificazioni. Ancora oggi il Papa, con ben altri significati, è il Pontefice “sommo costruttore di ponti”, Lucio Cecilio Metello, nel 247 a.C., sarebbe diventato “Pontifex Maximus”, assumendo l’altissima e ambitissima carica a Roma, guidando il potentissimo collegio dei “Pontefici” dell’Imperium come primo sorvegliante di tutti i culti religiosi nonché “Facitore di ponti”. Però, proprio durante la sua carica, esplose un incendio che distrusse il Tempio di Vesta e minacciava di ardere anche il sacro Palladio, il simulacro ligneo “difensore” portato a Roma da Enea, e altri oggetti sacri dai quali dipendeva il destino di Roma. Cecilio Metello, senza esitare, si lanciò tra le fiamme e quando riapparve aveva con sé il Palladio emblema della prima Roma, ma il fuoco e la violenza del calore lo accecarono per sempre, e il Senato a riconoscenza dell’atto eroico gli garantì il privilegio di essere trasportato in lettiga in Curia.

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I Romani avevano però ereditato dagli Etruschi le conoscenze dell’arco e della volta, perfezionando notevolmente la tecnica edificatoria con ponti con archi sempre più perfezionati e con aperture sempre più ampie e fino a un massimo di 35 metri, alcuni tuttora utilizzati.

Ne ritroviamo diversi raffigurati anche sui rilievi della Colonna Traiana a Roma con due ponti di barche legate tra loro utilizzati per l’attraversamento del Danubio delle legioni. Erano perlopiù ponti militari per attraversamenti fluviali con lunghezze gestibili, utilizzati nelle campagne di conquista e in tempo di pace come ponti urbani e stradali di barche o addirittura navi su grandi fiumi, con materiali e tipologie realizzative diverse.

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Molti ne costruì il geniale architetto militare e civile Apollodoro di Damasco che sotto Traiano nell'età imperiale fu incaricato anche del grandioso ponte sul Danubio in pietra e in legno tra il 104 e il 105 d.C.. O come Gaio Giulio Lacer altro architetto al tempo di Traiano che realizzò il ponte di Alcántara sul Tago lungo 194 metri e alto 54 con due archi centrali e quattro laterali in blocchi di pietra locale. Con una manodopera civile e militare di grande mestiere realizzarono attraversamenti in ogni terra conquistata. Gli studi di Vittorio Galliazzo in “Elementi di ingegneria romana” indicano 1.270 ponti realizzati dai Romani, co molti ponti galleggianti di legno con zattere, botti, otri, ma soprattutto barche o navi. In età imperiale lanciavano ponti “per navi successive“ su imbarcazioni distanziate e collegate le une alle altre da pontoni e tiranti, e mantenute in linea con robuste corde o gomene con le estremità ancorate ad argani sulle rive con blocchi di pietra o calcestruzzo, soprattutto se permanenti.

IL CLAMOROSO ATTRAVERSAMENTO DELLO STRETTO

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Nella torrida estate del 250 a.C, l’anno dopo la vittoriosa battaglia di Palermo, sulle sponde messinesi Cecilio Metello ammirava la grandiosa opera. L’ipotesi di progettare uno stabile ponte di legno non poteva che essere liquidata dagli architetti e dagli ingegneri come pura follia, una impresa del tutto improponibile. Anche se i Romani hanno dato ampie dimostrazioni di poter realizzare tipologie di ponti, strutture e edifici possenti e straordinari che hanno persino resistito alla prova del tempo, l’idea di un vero ponte della lunghezza ben oltre i 3 km da Messana (Messina) fino a Regium Julium (Reggio Calabria) sorretto da una selva di incredibili palificazioni che dovevano affondare a profondità proibitive da 80 a 120 metri non venne nemmeno presa in considerazione.

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Cecilio Metello e i suoi strateghi scelsero di affrontare l’impresa della realizzazione di un pur complicatissimo ponte galleggiante mobile. Quanto poteva essere lungo? Plinio, nei suoi testi, calcolava la lunghezza dello Stretto in 15.000 passi, e la larghezza tra le due sponde in 1.500 passi, meno della minima larghezza di circa 3 km all’estremità settentrionale tra Torre Cavallo in Calabria e Capo Peloro in Sicilia misurata oggi. Prudentemente scelsero la soluzione del “Tempus Pontis”, un ponte a tempo, e ordinarono al genio militare formato da ingegneri, architetti, geometri, falegnami e fabbri di realizzarlo con la tecnica costruttiva del ponte galleggiante. La lunghezza obbligava comunque alla realizzazione di un’opera mai vista prima, anche se ponti mobili che poggiavano su varie tipologie di imbarcazioni erano già stati realizzati dai tempi degli Assiri, dei Persiani e dei Greci e anche dai Romani ma sempre per collegare due rive fluviali poco distanti, e solo i Persiani nello Stretto dei Dardanelli lanciarono due attraversamenti ma con lunghezze pari a un terzo rispetto a quella dello Stretto, intorno ai mille metri.

I Romani iniziarono quindi a realizzare una lunga passerella con centinaia di botti vuote legate a coppia a formare moduli ben stretti tra loro per evitare urti e rotture provocate dalla spinta delle correnti marine. Erano tenute il più possibile in linea grazie ad una serie di imbarcazioni intervallate lungo il percorso, e l’impalcato era sovrastato e irrobustito da traverse di legno. Sul piano di calpestio stesero strati di terra e, ai due lati, costruirono due alti e robusti parapetti di legno che rafforzavano la tenuta della struttura.

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E davanti al mare dove oggi si affaccia Messina, Lucio Cecilio Metello poté finalmente ammirare soddisfatto la soluzione per trasportare soldati, carri e cavalli e soprattutto gli elefanti sull’altra sponda. Erano riusciti a costruire il primo e finora unico attraversamento a piedi dello Stretto.

Ma quanti erano gli elefanti catturati ai Cartaginesi? L’enciclopedico Plinio, nella sua Naturalis Historia annota: "Nell'anno 502 [dalla fondazione di Roma] furono catturati ai Cartaginesi con la vittoria del pontefice L. Metello in Sicilia. Erano 142, o 120 secondo altri, e furono trasportati su zattere che aveva fissato su file unite di botti (più propriamente dolii)". Sesto Giulio Frontino, l’ingegnere militare e Governatore della Britannia al quale dobbiamo il racconto della gestione dell’acqua nella Roma antica attraverso il più importante trattato sugli acquedotti - il “De aquæ ductu urbis Romæ” - essendo stato anche il più celebre Curator Aquarum dell’antichità, nella sua opera sulle tecniche militari “Stratagemata” così descrive il clamoroso passaggio dello Stretto: "Cecilio Metello, poiché non aveva navi con cui trasportare gli elefanti, legò delle botti e sopra di esse posizionò delle tavole e così fece attraversare loro lo Stretto di Sicilia". E anche il geografo e storico greco Strabone, ricorda che Cecilio Metello fece: “…radunare un gran numero di botti vuote che fece disporre in linea sul mare legate a due a due. Sulle botti formò un passaggio di tavole coperte da terra fissate a parapetti di legno ai lati”.

Scegliendo giornate senza eccessiva ventilazione - il vento nello Stretto è potenziato dalla sua conformazione morfologica a forma di “imbuto” che lo rende una delle aree più ventose del Mediterraneo - e senza eccessive correnti marine, riuscirono a far transitare con costanti controlli della struttura galleggiante i carri e le migliaia di soldati, i cavalli e i pesantissimi elefanti. Quasi sicuramente il lunghissimo pontile fluttuava verticalmente e orizzontalmente, ma resistette sul pelo del mare e tutti transitarono indenni verso la sponda della penisola.

Il ponte galleggiante, su ordine di Cecilio Metello, venne poi abbandonato alle correnti del mare governate dal dio Ponto e ai forti venti dello Stretto che lo spazzarono via in un amen, e il mare continuò a separare la Sicilia dal resto dell’Italia, con l’attraversamento garantito da agili quadriremi e triremi e varie imbarcazioni.

Nella prossima quarta puntata i tentativi di Carlo Magno e dei re Normanni, l’attraversamento miracoloso sulle acque di San Francesco da Paola e tutto quel che accadde nello Stretto nei secoli dei Borbone

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.