È possibile prevedere i terremoti? Dall’Università di Parma nuovi indizi grazie al Gps
Secondo la classificazione sismica dei comuni italiani della Protezione civile, elaborata da Cresme-Isi, il 44% del territorio nazionale (133mila kmq) è in area ad elevato rischio (zona sismica 1 e zona sismica 2). Allargando il quadro d’osservazione troviamo che 48 milioni di italiani vivono in 11 milioni di edifici e 17 milioni di abitazioni nelle aree di pericolosità sismica 1,2,3. Nelle prima zona sono possibili “fortissimi terremoti”, nella zona 2 “Forti terremoti”, ma anche nella zona 3 possono verificarsi seppur raramente, forti terremoti.
La comunità scientifica di riferimento non ha ancora trovato un modo affidabile per prevedere i terremoti, ma una nuova strada di ricerca è stata appena aperta da due studi appena pubblicati con primo autore Giampiero Iaffaldano, docente di Geofisica della Terra solida dell’Unità di Scienze della Terra al Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma.
Gli studi sono incentrati su due dei terremoti più significativi d’inizio millennio: quello dell’Aquila del 2009 (magnitudo 6.3) e quello del Sichuan del 2008 (magnitudo 7.9).
La loro novità sta principalmente nel dimostrare che esistono segnali associati ai terremoti rilevabili da GPS (lo stesso sistema che viene utilizzato su mappe e navigatori degli smartphone) molto prima e molto lontano, e che quindi potrebbero essere potenzialmente sfruttati per mitigare il rischio sismico.
«Penso che l’interesse scientifico di questa scoperta – spiega Iaffaldano – è che apre una nuova prospettiva, mai considerata prima, sulla mitigazione di rischio sismico. Per dirla in soldoni, solitamente si cercano segnali precursori nei mesi o giorni precedenti i grandi terremoti, e nelle immediate vicinanze di faglie notoriamente attive. Questi studi dimostrano che il ciclo sismico (il lento accumulo di energia seguito dal terremoto) è in grado di modificare il moto di intere placche tettoniche, che viene misurato negli anni attraverso reti di stazioni GPS dislocate a centinaia o addirittura migliaia di chilometri di distanza da quello che sarà in seguito l’epicentro. Questo implica che ci sono segnali potenzialmente precursori anche anni prima e a grandi distanze dai grandi terremoti. La prospettiva di sfruttare questi segnali nelle valutazioni di rischio sismico è qualcosa di assolutamente nuovo».
Com’è noto, la superficie terrestre è divisa in un mosaico di placche tettoniche che si muovono in direzioni diverse a velocità comprese fra pochi millimetri e centimetri l’anno. I moti tra placche in contatto fra loro generano un lento accumulo di energia, che viene poi rilasciata improvvisamente attraverso i terremoti. Il terremoto dell’Aquila, ad esempio, ha rilasciato energia accumulata nel tempo lungo parte degli Appennini a causa del moto fra la placca Adria (che comprende l’Italia centrale e settentrionale) e la zona Tirrenica.
È consolidato nella comunità scientifica che i moti tra placche alimentano la genesi dei terremoti. La comunità ha però sempre assunto che non fosse vero il contrario, ossia che i terremoti e la loro lenta fase preparatoria di accumulo di energia (che, insieme, prendono il nome di ciclo sismico) non avessero effetto sui moti delle placche. Studi molto recenti, inclusi i due appena pubblicati, dimostrano che invece i terremoti hanno un effetto tangibile e misurabile sui moti delle intere placche. Questi effetti sono evidenti da misure GPS anche diversi anni prima che accada il terremoto. L’articolo sul terremoto dell’Aquila dimostra che c’è un rallentamento del 20% del moto della placca Adria nei 6 anni che precedono il terremoto del 2009.