Nucleare, il Cnr boccia su tutta la linea il piano del governo
Tempi, luoghi, tecnologie, costi: non c’è aspetto del piano del governo sul ritorno del nucleare in Italia che non venga bocciato dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). L’occasione per una disamina scientifica lo schema del disegno di legge trasmesso a gennaio a Palazzo Chigi è l’audizione in commissione Ambiente della Camera del dirigente di ricerca del Cnr Nicola Armaroli. Il testo messo a punto dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica «in materia di nucleare sostenibile», a giudizio dell’esperto, non sta in piedi da qualunque lato lo si guardi.
Ad esempio: il governo vuole definitivamente archiviare i risultati dei due referendum del 1987 e del 2011 sostenendo che i tempi sono cambiati, le tecnologie migliorate, i risultati all’estero incoraggianti? Spiega Armaroli: «Il grande boom della capacità nucleare mondiale è stato tra gli anni 50 e gli anni 80, dopodiché si è stabilizzato tutto. La produzione mondiale elettrica è stata coperta dal nucleare nel 1996 per il 17,2%, il massimo raggiunto, e nel 2024 siamo a poco più della metà, 9,2%. Quindi non è in corso e non c'è mai stato un rinascimento nucleare anche se spesso se ne parla». E quelli che citano i vantaggi che ne sta traendo la Cina? Pechino, spiega, copre meno del 5% della domanda elettrica con l’atomo: «In 32 anni ha installato 57 GW di nucleare, ma solo nel 2024 ha installato 357 GW di fotovoltaico ed eolico». E l’esempio della Francia? «Ha una flotta di reattori molto vecchia che si avvicina ai 40 anni di età media, 57 reattori tutti in funzione ma zero attualmente in costruzione», sottolinea Armaroli ricordando che quella nucleare «è una tecnologia di baseload per il 65% che fa sì che la Francia abbia una esigenza vitale di esportare elettricità: questo lo dico perché c’è un grande equivoco per cui sembra che l’Italia e la Germania abbiano bisogno di importare energia dalla Francia, invece è il contrario, perché le centrali nucleari non si possono accendere o spegnere su base giornaliera, quindi la Francia di notte esporta a basso prezzo per una propria esigenza fisica e strutturale». Inoltre, «Edf è stata nazionalizzata nel 2022 per problemi economici e due settima fa la Corte dei conti francese ha bocciato il nuovo piano nucleare per via dei costi, teniamone conto in Italia dove abbiamo seri problemi di costo».
Sfatato il mito del boom del nucleare, si passa alle tecnologie previste dal piano messo a punto da Pichetto Fratin che, ricorda il ricercatore Cnr, «ha parlato di piccoli reattori modulari e di fusione, però allo stesso tempo il ministro ha dichiarato che l’Italia non punterà a grandi centrali; quindi le tecnologie su cui l’Italia punta oggi, i piccoli reattori e a fusione, non esistono». Né esiste nel nostro Paese il combustibile da cui partire, la materia prima per alimentare i reattori: l’uranio. Può essere importato dall’estero, certamente. Ma se si vuole puntare sul nucleare per un discorso di indipendenza energetica, qui si rischia ancor più grosso che con altri combustibili. L’uranio, ricorda infatti il dirigente di ricerca, per il 43% del totale è situato in un unico Stato, il Kazakistan, e dunque «non c’è nessuna fonte di energia così concentrata al mondo». Tra l’altro, il costo dell’uranio «dal 2021 al 2025 è cresciuto sul mercato del 137%» e, sempre a proposito della ricercata indipendenza energetica, «c’è un dominio russo e cinese totale quasi assoluto sulla tecnologia, come ci ricorda l’Agenzia internazionale per l’energia, e proprio per questo motivo non è stata mai inflitta di fatto alcuna sanzione al colosso russo Rosatom, che è il grande dominatore della filiera nucleare mondiale».
Ma tutto ciò è secondario. Perché, «per l’Italia il primo problema è la localizzazione». Al di là del fatto che nessuno vuole l’indispensabile Deposito unico delle scorie già esistenti e del fatto che regioni governate tanto dal centrosinistra come la Sardegna quanto dallo stesso centrodestra come il Veneto hanno votato contro un eventuale futuro coinvolgimento, il problema è la conformazione stessa del nostro Paese, altamente a rischio idrogeologico e sismico. Nel disegno di legge del governo, osserva Armaroli, «c’è scritto che vogliamo fare tra 8 e 16 GW di nucleare»: «Usiamo un valore intermedio a 12 GW, parliamo di Small modular reactors che hanno una taglia di potenza media da 100 MW, questo vuol dire che in Italia dovremo installare 120 reattori. Chiedo a voi che conoscete i territori – dice il ricercatore Cnr rivolgendosi ai parlamentari presenti all’audizione – se è proponibile un’operazione da 120 reattori, con l’installazione di un Smr in ogni provincia».
Il dirigente di ricerca del Cnr condivide l’affermazione per cui le rinnovabili da sole non bastano, ma aggiunge che «è vera oggi ma perderà sostanza con lo sviluppo di nuove tecnologie come accumuli e reti intelligenti»: «La nuova capacità rinnovabile annuale vale decine di volte quella nucleare, in breve ci sarà un enorme gap crescente tra nucleare e rinnovabili, come potrà competere con la nuova capacità? Il rischio è di trovarsi in mano un oggetto superato e molto costoso. Si dice che vogliamo abbassare le bollette, ma siccome le tecnologie che vogliamo fare in Italia non ci sono e non se ne conosce il costo, è allora una promessa. Si dice di usare il nucleare per il calore industriale, ma combinare rischio nucleare con rischio chimico è un rompicapo, e manca un quadro regolatorio». Si dice poi che il nucleare è compatibile con le rinnovabili, ma «dobbiamo vedere», aggiunge Armaroli, perché «con oltre 200 GW di rinnovabili, nel 2040 avremo eccessi di produzione a basso costo per 7-8 mesi l’anno e avremo due opzioni: tenere spenti i reattori nucleari per mesi, che è economicamente insostenibile, perché il reattore deve andare più tempo possibile, o spegnere le rinnovabili e alzare i costi dell’energia, che è un grande paradosso». Poi c’è un altro problema critico «che è la scarsa attrattività agli investimenti», ma soprattutto manca la risorsa chiave, il tempo: «Nel 2040 l’Italia deve aver finito la decarbonizzazione del sistema elettrico e non apprestarsi o cominciare a farne un grande pezzo. Scarseggiano quindi siti, soldi, tempo. E le tecnologie indicate dal governo non ci sono». La conclusione è netta: «Si deve essere chiari, stiamo operando una scommessa-promessa che tra 15-20 anni avremo bollette più basse con tecnologie che oggi però non esistono, non sappiamo se e quali saranno né quanto costeranno, intanto tecnologie di decarbonizzazione consolidate di altro tipo crescono velocemente».
Tanto netta è la conclusione, così come tutto il resto della disamina, che il parlamentare di Forza Italia Luca Squeri è partito a testa bassa: «Ho avuto l’impressione di sentire un politico fazioso e con una visione unilaterale più che un rappresentante della scienza, vista l’analisi faziosa e negativa che non so quanto faccia bene a chi dovrebbe rappresentare». Un attacco che ha spinto il Pd a esprimere solidarietà al ricercatore: «Sostengo pienamente la sua posizione, che è quella della scienza – dice la responsabile Conversione ecologica del Pd Annalisa Corrado – i numeri non mentono, ed è nostro dovere raccontare la realtà, non frottole propagandistiche che, tra l’altro, non hanno nessunissimo effetto sui problemi veri delle persone, a partire dai costi esorbitanti sulle bollette di persone e imprese. Caterina Caselli cantava ‘la verità ti fa male, lo so’: lo sa bene anche questa destra, che reagisce attaccando ogni volta che le si sbatte in faccia la realtà. Può negarlo quanto vuole, ma questo è il suo vero volto».