Il governo promette una riforma sui distributori di carburante in chiave green ma poi rinvia tutto a data da destinarsi
Doveva essere la riforma che avrebbe rivoluzionato la rete dei distributori di carburante, la legge messa a punto dal ministero delle Imprese e del made in Italy che avrebbe contribuito ad accelerare la transizione ecologica mediante la trasformazione degli impianti di erogazione di benzina e gasolio in stazioni dedicate alla mobilità green e alla produzione di energia da fonti rinnovabili. Doveva, certo. Peccato che poi il Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto dare il via libera al provvedimento ha rinviato tutto a data da destinarsi. Il motivo? «Servono ulteriori approfondimenti», è la spiegazione filtrata da Palazzo Chigi. Vero è che la bozza del disegno di legge circolata alla vigilia dell’appuntamento (in Pdf in fondo all’articolo) era stata pesantemente criticata dalle forze di opposizione (scontato), da associazioni dei consumatori (già meno scontato) e dai benzinai (i più agguerriti) che fino al pomeriggio di ieri hanno minacciato la serrata di tutti gli impianti e manifestazioni contro quella che hanno definito «la più incauta e peggior riforma da quando in questo paese sono cominciati i rifornimento ai veicoli». Morale della favola? Tutto rimandato, per ora non se ne fa niente.
Quando il governo riprenderà in mano la riforma, bisognerà vedere cosa rimarrà di un testo che al momento prevede misure per la «trasformazione di impianti di distribuzione carburanti in stazioni dedicate alla mobilità green e produzione di carburanti alternativi e energie rinnovabili», compreso un incentivo fino a 60 mila euro per i gestori che avvierebbero le operazioni di dismissione e riconversione degli impianti. Si legge infatti al comma 1 dell’articolo 6 del testo arrivato al Consiglio dei ministri e poi accantonato: «Al fine di accelerare la transizione dei trasporti stradali verso la decarbonizzazione, ai titolari di impianti stradali di distribuzione carburanti di benzina e gasolio per uso autotrazione aperti al pubblico, che convertono i propri impianti, entro il 31 dicembre 2027, in stazioni dedicate alla ricarica di veicoli elettrici con potenza pari o superiore a 90 kilowatt per singola infrastruttura, è riconosciuto un contributo finalizzato alla dismissione dell’impianto e alla correlata apertura della stazione di ricarica. Il contributo di cui al primo periodo è riconosciuto nella misura massima del 50 per cento delle spese sostenute, fino a un importo massimo di 60.000 euro per le spese per gli interventi di dismissione di cui al comma 2 e per l’installazione delle infrastrutture di ricarica e delle relative opere di connessione alla rete elettrica, ivi compresi le cabine elettriche di immissione e prelievo e gli impianti di accumulo asserviti ai dispositivi di ricarica e i relativi cavidotti e/o elettrodotti». All’articolo successivo è poi aggiunto che ai gestori che optano per la riconversione «è riconosciuto, in sede di rilascio del titolo edilizio per nuova costruzione o ristrutturazione di un edificio esistente, anche a uso commerciale, un bonus volumetrico del 10 per cento». L’articolo 8 prevede poi la «semplificazioni per l’istallazione di infrastrutture di ricarica di veicoli elettrici finalizzata alla trasformazione» e il 9 «disposizioni per l’informativa ai consumatori sulla distribuzione di biocarburanti in purezza, biometano per autotrazione e altri carburanti alternativi».
Nel testo (articolo 2) si legge soprattutto che per aprire nuovi impianti, dal primo gennaio 2025 è necessario prevedere la distribuzione di «almeno un altro vettore energetico alternativo ai combustibili fossili», come i biocombustibili o le colonnine elettriche, in mancanza del quale non saranno rilasciate autorizzazioni.
Ma al ministero delle Imprese e del made in Italy hanno pensato di inserire nel disegno di legge anche norme riguardanti il rapporto tra gestori di impianti e compagnie petrolifere, penalizzanti per i benzinai, e altre che fanno sparire l’indicazione della differenza di prezzo tra il «self-service» e il «servito», penalizzanti per i consumatori. Alla fine ne è uscito fuori un composto indigeribile per troppi e i ministri presenti al Cdm hanno deciso di non dare il via libera alla riforma.
Del resto, la nota fatta circolare dalle associazioni dei gestori Faib Confesercenti, Fegica e Anisa Confcommercio non ha lasciato spazio a dubbi, quanto a possibili margini di manovra per eventuali correzioni a quel testo. Se da un lato l’associazione delle aziende del settore petrolifero Unem ha avuto parole di consenso sottolineando il «passo importante per la razionalizzazione della rete», le tre sigle dei gestori hanno parlato di riforma «maturata nelle ‘segrete stanze’ del Ministero di Urso alle quali è ammesso un ristretto cenacolo di petrolieri», e di una proposta che «è una vera e propria violenza alla realtà: si distrugge l’ultimo anello della catena (i gestori) per premiare le compagnie petrolifere che nel corso degli ultimi 3-5 anni hanno chiuso bilanci con utili mostruosi, anche a scapito dei margini dei Gestori e sulle spalle dei clienti». Altrettanto duro il commento arrivato sul versante politico, col capogruppo del Pd in commissione Attività produttive della Camera, Vinicio Peluffo, che definisce il testo messo a punto dal ministero delle Imprese e del made in Italy «un disastro che sembra costruito apposta contro gli operatori e i consumatori, arrivando alla follia dell’eliminazione della differenza tra il prezzo del carburante servito e quello self che avrà effetti diretti e negativi sui bilanci degli italiani». Per il parlamentare Pd, «il ministro Urso tradisce tutti gli impegni presi in questo anno e mezzo in cui le associazioni sono state letteralmente prese in giro e viene meno agli impegni presi con il Parlamento con il voto delle risoluzioni. Nessuna attenzione poi per le bonifiche e nessuno strumento credibile di razionalizzazione e nessun accompagnamento alla transizione energetica. Peggio ancora sul versante dei rapporti di lavoro nel settore con il via libera ai contratti d’appalto che aprono la strada a precarizzazione e ulteriore illegalità».