Mar Rosso, ancora in fiamme la petroliera Sounion: una sfida epocale per evitare il disastro ambientale
La petroliera Sounion, da venti giorni alla deriva nel Mar Rosso dopo un attacco da parte dei ribelli Houthi, resta ancora in fiamme come riportano gli osservatori marittimi del Joint maritime information center, gestito da una coalizione navale internazionale, aggiungendo, inoltre, che i voli di sorveglianza giornalieri hanno segnalato la presenza di diversi incendi sul ponte di coperta della super petroliera senza però nessun inquinamento da greggio a ora visibile.
Il quantitativo di petrolio a bordo della Sounion – sono 150mila le tonnellate di greggio – risulta essere quattro volte più grande di quello fuoriuscito dalla Exxon Valdez del 1989, nella Baia di Anchorage (Alaska); se si dovesse verificare (e le possibilità sono elevatissime!) un cedimento strutturale ovvero un'esplosione di una delle cisterne del carico, si verificherebbero fuoriuscite di greggio tanto da poter causare danni irreparabili nella porzione di Mar Rosso, in cui si trova attualmente l’unità senza governo né autonoma propulsione.
Le stesse preoccupazioni sono emerse dal posizionamento sui media francesi – non ripresi dai media nazionali – da Julien Jreissati, direttore del programma Medio Oriente e Nord Africa di Greenpeace, il quale informa che "una volta rilasciata, una fuoriuscita di petrolio di questa portata potrebbe essere quasi impossibile da contenere, diffondendo la contaminazione su vaste aree di acqua marina e coste".
Gli appelli lanciati agli organi internazionali su greenreport, a più riprese, purtroppo, finora non hanno portato ad assumere una posizione netta e chiara, come l’urgenza e la gravità del caso in esame richiederebbe. Fermo restando gli aspetti privatistici che gravano sul mondo delle assicurazioni navali (Protection and Indennity, P&I Clubs) come sul proprietario e armatore della petroliera nonché sul proprietario del carico (aspetti che meriterebbero di essere approfonditi in una sede opportuna), rimangono irrisolti gli aspetti tecnici operativi di un’operazione di allibo in alto mare – in condizioni di assoluta incertezza e precarietà della nave allibante – mai verificatasi nella storia dei trasporti marittimi di ogni tempo.
Insisto nel ribadire che una sfida epocale di questo genere, che non esito a definire simile a quella della Costa Concordia (anche se su scenari operativi ben diversi), non può e ripeto non può essere affrontata se non con un progetto di dimensioni internazionale, mettendo a sistema tutto il know-how e l’expertise in settore del “marine pollution combating” mondiale, che la storia dei trasporti marittimi hanno maturato a partire dal disastro della Torrey Canyon (1967, coste della Cornovaglia) in poi.
Il tempo stringe e l’emergenza si avvicina paurosamente; una volta tanto, non sarebbe sbagliato se l’Occidente reagisse come un solo organismo e mettendo in campo le migliori tecniche di cui dispone, potesse scongiurare la catastrofe ambientale che si è annunciata con congruo anticipo.