Mar Rosso, per evitare un disastro ambientale dalla petroliera Sounion il privato non basta
La tragica situazione della petroliera Sounion, in fiamme e alla deriva nel Mar Rosso con un carico pari a 150mila tonnellate di greggio e uno sversamento in corso, rimane tale: la sola novità, purtroppo, è che la società incaricata del recupero ha chiaramente detto di fermarsi, perché non ci sono le condizioni per poter proseguire in sicurezza.
Potremmo fermarci anche noi e guardare dalla nostra distanza di sicurezza come evolverà la faccenda, pensando che tanto non ci riguarda. Gli organismi internazionali, allo stato attuale, hanno girato le spalle al problema di grave rischio di inquinamento marino, lasciando al settore privato la responsabilità dell’intervento che – si può intuire – costerà parecchio.
Sul piano del diritto marittimo internazionale nulla da eccepire, seguono la procedura standard stabilita da accordi internazionali di natura privatistica tra assicuratori e armatori; tuttavia, il caso in esame è meritevole di qualche speciale considerazione, in ragione del fatto che mai lo shipping mondiale si è trovato di fronte ad un caso tanto eccezionale quanto di potenziale (auguriamoci che resti confinato soltanto nel potenziale!) pericolo per l’ambiente marino.
Basti richiamare il fatto che il greggio contenuto nelle cisterne della petroliera battente bandiera greca risulta essere tre volte tanto quello fuoriuscito dalla Exxon Valdez che, nel 1989, inquinò una larga parte del Golfo di Anchorage (Alaska) e che ebbe una risonanza mondiale, tanto da indurre gli Stati Uniti d’America ad emanare l’Opa (Oil pollution act) che rappresenta una linea di demarcazione netta nella prevenzione degli incidenti provocati dalle navi petroliere e che condizionò (e ancora condiziona) la politica dell’International maritime organization (Imo) nella conduzione della prevenzione da inquinamenti da navi.
Sarebbe dunque necessario che quello della Sounion diventasse un caso di scuola, da risolvere attraverso la fusione della componente privatistica con quella pubblicistica internazionale, quindi con Imo, richiedendo supporto tecnico all’Emsa (European maritime safety agency), che potrebbe mettere a disposizione mezzi, know-how, esperienze e capacità professionali presenti negli Stati dell’Unione europea.
Le ragioni della necessaria collaborazione pubblico-privato nel caso Sounion sono almeno cinque:
1) Unità priva di governo abbandonata dall’equipaggio in acque internazionali, in interrotta combustione, che provoca l’indebolimento delle strutture dell’asse nave;
2) Danneggiamento delle linee del carico e delle relative pompe immerse, che non consentirebbero l’allibo dell’unità in mare aperto (anche nel caso in cui l’incendio venisse estinto del tutto);
3) Individuazione di un “Port refuge” di adeguata grandezza nell’area di Bad El Manted, che non può che essere concordata con le autorità dei Paesi presenti nell’area in esame (Yemen, Gibuti, Somalia, Eritrea, Arabia Saudita);
4) Predisposizione delle risorse e dei mezzi navali in grado di intervenire ad horas qualora l’inquinamento da fuoriuscita di greggio dovesse assumere proporzioni rilevanti (all’attualità fonti aperte confermano che la perdita di greggio appare modesta);
5) Necessità di creare un centro di coordinamento e controllo in mare che vigili sulle operazioni in mare e riferisca, in tempo reale, alle autorità internazionali sull’evoluzione degli eventi.
Con molta franchezza, io per primo, riconosco che non ci sono i presupposti giuridici per richiedere un simile intervento, così come però deve essere riconosciuto che il caso Sounion costituisce un’eccezionalità in ogni senso, perché mai prima d’ora la collettività internazionale si è dovuta confrontare prima con un fenomeno di questa portata e in un teatro geografico in cui ci sono pochi mezzi per poter pensare di richiedere a quei Paesi costieri d’intervenire con le proprie risorse – semplicemente perché non ce ne sono.
Il momento è grave e se ciascuno si fa scudo delle proprie competenze e fa spallucce dicendo che non gli compete, allora stiamo andando dritto verso una catastrofe ambientale, peraltro annunciata con largo anticipo.