Rallenta l’economia circolare, i risparmi sono cresciuti il 33% in meno rispetto a quelli del 2023
Anziché accelerare, in Italia pratiche e misure di economia circolare hanno rallentato nel 2024. E questo ha fatto risparmiare alle nostre imprese soltanto 800 milioni di euro in più rispetto al 2023, quando l’aumento dei risparmi aveva invece toccato quota 1.200 milioni. Questa perdita del 33% su base annua ha fatto sì che il risparmio totale si fermasse a soli 16,4 miliardi l’anno, una cifra ben lontana dai 119 miliardi “teorici” a cui dovremmo aspirare. Dunque stiamo sfruttando solo il 14% del potenziale fornito dall’economia circolare, con un divario ormai difficilmente colmabile da qui al 2030. Tutto ciò emerge dal Circular Economy Report 2024, redatto dall’Energy&Strategy della School of Management del Politecnico di Milano e presentato oggi insieme ai partner della ricerca, che riporta anche un’indagine su oltre 550 imprese italiane: benché il campione sia più ampio e rappresentativo (8 macro settori - arredi, costruzioni, elettronica, impiantistica industriale, tessile, alimentare, autoveicoli, imballaggi - invece di 7), e dunque non permetta raffronti diretti con gli anni precedenti, la situazione sembra in leggero peggioramento.
Le aziende che hanno adottato almeno una pratica di economia circolare, infatti, si fermano al 42% (46% nelle grandi aziende), il 36% è ancora scettico e non ha in piano di farlo neanche in futuro, mentre il 22% ne avrebbe intenzione: se si scende di dimensioni, poi, le percentuali si avvicinano, fino ad arrivare alle Pmi dove gli scettici (il 39% e in crescita) superano gli adottatori (37%). Il 31% delle imprese circolari ha sede in Lombardia e la presenza è in genere più massiccia nel Nord Italia. La strada per dichiararsi completamente circolare, comunque, è ancora lunga: in una scala da 1 a 5, il valore medio di adozione che le aziende si danno è di 2,24 e solo il 3% del campione (in larga parte nel mondo degli imballaggi) si attribuisce il massimo. Cresce, anche se solo del 5%, la taglia media degli investimenti, che restano però concentrati sotto i 50.000 euro (quasi il 50%) e con tempi di ritorno che, per il 41% delle imprese, sono inferiori ai 12 mesi.
«È purtroppo evidente come le pratiche di economia circolare non siano entrate nel core business delle imprese - commenta Vittorio Chiesa, direttore di Energy&Strategy - e si sia invece, prendendo a riferimento la totalità del campione, in una fase ancora esplorativa delle possibili soluzioni. Al contrario, il sistema finanziario sta indirizzando sempre più i capitali verso investimenti che favoriscono questo innovativo modello economico: i green bond emessi dalle principali banche italiane hanno raggiunto quasi 8 miliardi di euro, il 74% in più rispetto all’anno precedente. E sta crescendo anche la consulenza in ambito sostenibilità (+25%)».
«È successo un po’ come nel risparmio energetico - spiega Davide Chiaroni, vicedirettore di E&S -: finché si trattava di fare interventi semplici e poco dispendiosi, in questo caso recuperare e valorizzare gli scarti, è andato tutto bene, ma adesso che occorre investire nella riorganizzazione dei processi industriali e delle filiere, la questione cambia». Infatti, tra le pratiche di economia circolare più diffuse spicca ancora il riciclo (60%), seguito dal progettare senza scarti (43%) e dal design orientato a una facile riparazione (48%). Tra le pratiche meno applicate si trovano invece la riparazione (8%), la “servitizzazione” (il passaggio dalla vendita di un prodotto alla fornitura di servizi, 22%) e la riconsegna dei prodotti (28%).
Ma non è tutto nero, spiegano gli autori del report, ci sono anche numerose storie di successo, produzioni che seguono modelli di business circolari. «Noi ne abbiamo isolate 100 - aggiunge Chiaroni - concentrate tra Lombardia, Piemonte e Toscana. I settori più rappresentati sono il manifatturiero, l’automotive, il tessile e l’abbigliamento. Per quasi metà si tratta di imprese di piccole dimensioni, ma in un quinto dei casi hanno oltre 250 dipendenti e un fatturato tra 100 milioni e il miliardo, cioè sono tra quelle che costituiscono l’ossatura dei comparti industriali italiani ed è quindi importante che si approccino all’economia circolare. Purtroppo le medie imprese, che sono le più numerose, arrivano appena al 22%. Cosa fanno di speciale queste aziende virtuose? Partono dal riciclo, ma non si fermano lì - come troppo spesso si semplifica parlando di economia circolare - e lo integrano con pratiche di riprogettazione del prodotto, che diventano quindi la vera chiave per abilitare un riciclo di successo».
Tra l’altro, non c’è solo il sistema finanziario a rivestire un ruolo fondamentale nella transizione verso un’economia circolare. Anche il settore della consulenza in ambito sostenibilità sta registrando un’espansione significativa: a fine anno si prevede che questo mercato raggiunga un valore di 800 milioni di euro, cioè il 13% del totale della consulenza in Italia, con un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. Nonostante i progressi, invece, la crescita nei settori degli enti di certificazione, degli studi legali e della formazione appare più lenta e moderata e la loro presenza sul territorio risulta disomogenea: mentre il Nord Italia concentra un numero significativo di queste risorse, il Sud rimane in gran parte privo di un supporto strutturato.
Ad esempio, tra i primi 50 studi legali italiani per fatturato, quelli che offrono servizi dedicati alla sostenibilità e all’economia circolare sono il 54% e si trovano in Lombardia e Lazio, regioni caratterizzate da un ecosistema imprenditoriale attivo e da iniziative orientate all’innovazione sostenibile. Al contrario, nel Sud Italia questi servizi risultano praticamente assenti. Analogamente gli enti di certificazione svolgono un ruolo fondamentale nel sostenere la transizione verso l’economia circolare, offrendo servizi di verifica conformi a norme come Iso, Emas ed Easi: gli enti abilitati a certificare in ambiti legati alla circolarità rappresentano solo il 10% del totale e sono quasi completamente assenti al Sud.
«La mancanza di un’integrazione efficace tra i diversi attori, combinata con l’assenza di standard consolidati, rappresenta una sfida cruciale - commenta Chiaroni -: la frammentazione rende difficile per le imprese accedere a un’assistenza coordinata e strutturata, limitando la loro capacità di implementare strategie circolari in modo completo».
L’evoluzione della normativa, viene sottolineato dall’indagine, va verso un maggior “peso” della circolarità nel reporting di sostenibilità e una maggiore concretezza degli strumenti di misura. Nel 2024 sono infatti maturate una serie di normative e standard internazionali che rappresentano una spinta decisiva verso la piena integrazione dei principi di sostenibilità nelle attività economiche. Sebbene il panorama italiano evidenzi alcune carenze strutturali, il rafforzamento della rendicontazione e l’allineamento alle pratiche internazionali potranno contribuire a colmare queste lacune, spingendo il mercato verso un futuro più circolare, responsabile e competitivo.
Ad esempio, la Direttiva Csrd (Corporate sustainability reporting directive) ha introdotto, su mandato della Commissione europea, standard unici per la rendicontazione di sostenibilità, gli European sustainability reporting standard (Esrs). Parallelamente, la tassonomia dell’Ue, un sistema di classificazione per identificare attività economiche sostenibili, si è integrata con i nuovi criteri tecnici di valutazione entrati in vigore a gennaio 2024, che includono esplicitamente la transizione verso un’economia circolare.
Nel contesto internazionale, l’Iso ha pubblicato una serie di nuovi standard che forniscono un linguaggio comune e una guida dettagliata per l’attuazione dei principi di economia circolare. A livello nazionale, l’aggiornamento della normativa tecnica Uni/Ts 11820:2024 rappresenta un ulteriore passo in avanti, consentendo di valutare il livello di circolarità di un’organizzazione attraverso indicatori chiave che generano un punteggio finale compreso tra 0% e 100%. Tre le modalità di valutazione: autovalutazione, valutazione da parte dei clienti e verifica indipendente da parte di enti accreditati.
Allargando lo sguardo, vi sono anche altre normative che nel 2024 hanno dato ulteriore stimolo all’adozione dell’economia circolare, come quelle sull’ecodesign, sul diritto alla riparazione e sulla responsabilità estesa del produttore, che stanno ridefinendo le filiere produttive e promuovendo pratiche sostenibili lungo l’intero ciclo di vita dei prodotti. Né va dimenticata la regolamentazione delle materie prime critiche: iniziative come il Critical raw materials act dell'Ue e il decreto Materie prime critiche italiano (del giugno 2024) cercano di rafforzare la trasparenza e la sostenibilità delle filiere, favorendo l’autonomia europea nell’approvvigionamento e nell’utilizzo di materiali strategici.
Uno degli obiettivi del Circular Economy Report 2024, inoltre, è stata la raccolta e la sistematizzazione delle principali storie di successo dell’economia circolare nel nostro Paese, a partire da database esistenti ma anche monitorando le notizie di stampa. Sono state considerate solo le imprese che forniscono già al mercato prodotti secondo modelli di business circolari, indipendentemente dalla loro dimensione. Ne è emerso uno spaccato estremamente interessante di come la circular economy sia declinata in Italia.
Dal punto di vista geografico, c’è una chiara prevalenza del Nord Italia, con in testa Lombardia (32% delle aziende esaminate), Piemonte (15%) e Toscana (12%). l settori più rappresentati sono il manifatturiero e l’automotive (26% del totale), che abbracciano una vasta gamma di strategie circolari, poi il tessile e abbigliamento (24%), la chimica e farmaceutica (17%). Fanalini di cosa il food & beverage (7%) e l’elettronica di consumo (6%), nonostante iniziative interessanti legate all’estensione della vita dei prodotti.
La maggior parte di queste imprese (44%) è di piccole dimensioni (il 14% addirittura micro), con meno di 50 dipendenti e 10 milioni di euro di fatturato. Tuttavia, un caso su 5 (19%) riguarda imprese con oltre 250 dipendenti e un fatturato compreso tra i 100 milioni e il miliardo di euro, cioè quelle che costituiscono spesso l’ossatura dei comparti industriali italiani ed è quindi importante che si approccino all’economia circolare. Tra le grandissime aziende, invece, è difficile trovare storie di successo, perché i prodotti circolari, laddove presenti, spesso sono ancora a livello di test o sono destinati specifiche nicchie di mercato. In termini relativi, colpisce la scarsa presenza (22%) di medie imprese, quelle tra 50 e 250 dipendenti e qualche centinaio di milioni di euro di fatturato, che rappresentano la parte preponderante del nostro tessuto industriale.
La maggioranza delle storie di successo (59%) riguarda imprese fondate prima del 2000 e nel 18% dei casi l’adozione dell’economia circolare è vecchia di quasi 20 anni: si tratta quindi, in qualche modo, di pionieri. Vi sono però anche aziende giovani costituite tra 2015 ed il 2020, quindi nel periodo pre-covid, che sono proprio nate con l’intento di operare secondo i principi dell’economia circolare: questo cluster riflette l’emergere di una nuova generazione imprenditoriale orientata alla sostenibilità e capace di rispondere alle sfide ambientali con modelli di business innovativi. Il 35% dei casi si colloca nell’ultimo quinquennio (2020-2024) e rappresenta un’accelerazione che dà un segnale positivo.
Qual è il segreto del successo di queste imprese virtuose? Non certo il ricorso ai finanziamenti pubblici (che ha interessato solo il 27% del campione e che, peraltro, non sono consistenti), ma l’adozione di soluzioni circolari allo stesso tempo sostenibili ed economicamente pronte per il mercato. In 76 casi su 100, si è partiti dal riciclo per integrarlo con pratiche di riprogettazione del prodotto, che diventano la vera chiave per abilitare un riciclo di successo. Altrettanto utilizzate sono le pratiche di riuso (34 casi), conversione (23) e riparazione (22), ad indicare come i cicli dell’economia circolare siano la strada per immaginare nuovi modelli di business.