
Clean industrial deal e ReArmEu? Senza fondi e decisioni comuni è aria fritta

La primavera avanza a grandi passi anche a Bruxelles ma pochi ci badano, per stare dietro a tutto gli annunci che si susseguono in questi giorni. Ultimo della serie è il piano “ReArmEu”, che incute qualche timore solo a sentirlo, annunciato ieri dalla presidente von der Leyen. E poi c’é naturalmente il pacchetto per una politica industriale “clean” presentato qualche giorno fa dai commissari competenti, finalizzato a realizzare il Green deal sostenendo le imprese, in particolare le energivore e quelle specializzate in “clean tech”, con incentivi ad hoc e abbassando le bollette.
Perché ne parlo insieme? Perché è molto evidente che si tratta di piani che implicano spesa pubblica e investimenti pubblici e privati ingentissimi, che imporranno delle scelte difficili. È interessante notare che si parla della stessa cifra, 800 miliardi di euro, sia per il programma RearmEu, che per assicurare una maggiore competitività del sistema economico e produttivo europeo, come prospettato nel Rapporto Draghi.
Urusla von der Leyen ha presentato il piano ReArmEu proponendo tre cose, alcune molto preoccupanti, anche per chi come me è super convinta e da molto tempo della necessità impellente di una difesa comune europea, che è cosa ben diversa del semplice riarmo di 27 eserciti nazionali:
- La sospensione del Patto di stabilità per le spese per la difesa fatte a livello nazionale: se questo si traducesse in un aumento medio dell’1,5%, si creerebbe uno spazio fiscale di 650 miliardi di euro per comprare armi.
- Un programma di prestiti per spese per la difesa da finanziare con fondi da trovare sui mercati finanziari e garantiti dalla Ue del valore di 150 miliardi di euro, sembra, ma non è chiarissimo, per acquisti comuni e coordinati.
- L’apertura all’uso dei Fondi di coesione per spese militari
Tutto questo senza condizioni chiare, o così sembra per ora, e obblighi stringenti di fare progetti comuni o sistemi che possano agire insieme, tranne per la parte prestiti. E per di più senza una valutazione di impatto di queste proposte né una analisi precisa, che a questo punto diventa urgente, su quanto “riarmo” sarebbe davvero necessario per mettere insieme una difesa integrata invece che comprare o produrre armi a livello nazionale a tutta velocità, con l’effetto di sprecare enormi risorse e magari competendo con altri produttori europei.
Infatti, è molto importante considerare che le spese per gli armamenti hanno raggiunto una cifra assolutamente record in questi ultimi anni e che contrariamente a quello che si continua a ripetere, i paesi della Ue non spendono poco, ma spendono male. Prima di bloccare enormi risorse che speriamo non saranno mai utilizzate, occorre fare un’attenta valutazione di quello che serve davvero, invece di lasciarsi trascinare ognuno dalla sua industria per gli armamenti.
Anche perché tutta questa disponibilità ad agire subito per ottenere ingenti risorse da reperire sul mercato con garanzia Made in Ue e addirittura toccando politiche pensate per ridurre le diseguaglianze fra le regioni come i fondi di coesione, non si ritrova invece nel caso del Clean industrial deal, che prospetta sì un fondo di 100 miliardi di euro, ma che non prevede nessuno strumento finanziario comune in grado di aumentare in modo sostanziale il minuscolo bilancio europeo, che rappresenta solo l’1% del Pil europeo, per facilitare investimenti pubblici e privati nella doppia transizione verde e digitale.
I 100 miliardi annunciati per sostenere la decarbonizzazione e l'elettrificazione industriale, sono per lo più risorse già esistenti: il Fondo per l'innovazione (circa 20 miliardi di euro), i contributi volontari degli Stati membri (30 miliardi di euro), le entrate supplementari derivanti da parti dell'Ets (33 miliardi di euro) e la revisione di InvestEu (2,5 miliardi di euro).
Ma ripartiamo dall’inizio: il Clean industrial deal e il Piano d'azione per l'energia a prezzi accessibili sono stati pubblicati mercoledì 26 febbraio insieme al cosiddetto Omnibus1 ed erano molto attesi dall’industria, sia quella che vuole smantellare il Green deal illudendosi che restando fossile si possa essere più competitivi, sia da quella parte del mondo produttivo che ha già investito nella transizione.
Il Clean industrial deal rimane in linea con la visione del Green deal e sottolinea come il raggiungimento dei nostri obiettivi climatici possa favorire la competitività. La Commissione propone di agire su sei fattori “abilitanti” di una maggiore competitività tra i quali: riduzione dei prezzi dell’energia, aumento della domanda per prodotti green made in Europe, economia circolare, la revisione degli appalti pubblici, il nuovo quadro degli aiuti di Stato, l'eliminazione graduale dei combustibili fossili. Un aspetto senz’altro positivo è che la priorità va principalmente agli investimenti in tecnologie pulite già esistenti, in particolare rinnovabili ed efficienza energetica, piuttosto che in quelle che rallenterebbero di fatto la transizione perché non disponibili per un tempo ancora lungo (ad esempio nucleare “pulito” (?), Ccus o idrogeno a basse emissioni di carbonio), pur se sono ancora menzionate.
Ma questa non è la posizione di numerosi governi e forze politiche. E infatti la battaglia sarà proprio su cosa sarà considerato strategico per il futuro, e quali industrie dovranno essere più aiutate nella loro transizione, e a spese di chi. Complice un bel po’ di propaganda, si citano volutamente insieme soluzioni già esistenti, rinnovabili, pompe di calore, reti, e tecnologie per l’efficienza energetica, e altre di là da venire (se mai arriveranno a scala commerciale) e molto costose come Ccs, idrogeno pulito o nucleare.
Inoltre, la proposta della Commissione non tocca il tema del disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità: ritiene che sia responsabilità per lo più degli stati membri agire sui prezzi, in particolare con la leva fiscale, e apre la strada ad una riforma degli aiuti di stato che potrebbe rappresentare una ulteriore spinta alla nazionalizzazione delle politiche industriali, oltre a rafforzare lo squilibrio fra gli stati che possono sostenere le loro imprese e chi invece non ha lo spazio di bilancio per farlo.
Inoltre, l'inquinamento e la perdita di biodiversità sono completamente assenti e la circolarità rimane un settore a parte, scollegato dalla decarbonizzazione. Soprattutto, manca completamente un quadro di governance partecipativa per questo “piano aziendale di trasformazione” che aiuterebbe a garantire una transizione socialmente giusta ed equa.
Il dialogo che la presidente ha promesso all’inizio del suo mandato ha avuto luogo per adesso solo con le imprese energivore e coi settori più dipendenti dai fossili come la chimica. La presidente è corsa a parlare con 450 ceo riuniti ad Anversa lo stesso giorno della presentazione del piano, ma in 5 anni non ha mai – dicasi mai – ricevuto le Ong ambientaliste. Lo stesso sta succedendo per il piano dell’automotive e l’acciaio, dato che solo le imprese sono state consultate.
Ma l’aspetto di gran lunga più preoccupante è che insieme al Clean industrial deal e alla fedeltà ai target di neutralità climatica ripetuta come un mantra, la Commissione ha anche presentato il cosiddetto Omnibus 1, una proposta di semplificazione e, alla fine, smantellamento della direttiva sulla rendicontazione ambientale e della direttiva sulla cosiddetta “due diligence”, già approvate e parzialmente in vigore, sulle quali ora è partita una rischiosa marcia indietro. Termini di molto allungati ed esenzioni larghissime, che riducono radicalmente la portata di disposizioni che forse si potevano semplificare, ma senza riaprire la norma vera e propria: perché la proposta della Commissione passerà ora al Parlamento europeo e al Consiglio dei ministri che, essendo i co-legislatori, possono farne quello che vogliono.
Date le nuove maggioranze, non c’è alcun dubbio che esse verranno ulteriormente svuotate di contenuto. E poiché la Commissione ha già promesso un Omnibus 2 e 3, è chiaro che questo rischio si pone anche per altre importanti norme già approvate, a partire da quelle sull’efficienza energetica.
Ma il tema di gran lunga più urgente è quello di capire come la Commissione pensa di realizzare questi obiettivi e insieme RearmEu senza prendersi la responsabilità di proporre un piano di finanziamenti europei e di un aumento del bilancio, insieme a riforme della governance che permettano di spingere per una maggiore coesione e possano realizzare concretamente le magniloquenti parole sulla necessità di una vera autonomia europea che sono state proclamate in questi giorni.
