Lisbona e la Rivoluzione dei Garofani, 50 anni dopo
Il Portogallo è entrato nella mia prospettiva di vita quando, partecipando alla Festa nazionale dell’Unità, che ogni anno radunava milioni di militanti della sinistra italiana, si incontrava lo stand dedicato agli esuli di quel paese che appariva lontano e discosto, più atlantico che europeo. Qualche anno dopo, da giovane cronista, divenni amico di un esule portoghese che lavorava in quella redazione da umile addetto alla distribuzione del quotidiano nelle edicole (sarebbe poi diventato Segretario de Estado). Quando nel 1974 scoppiò la Rivoluzione dei Garofani anche lui, come tanti fuoriusciti, prese la via di Lisbona e io lo raggiunsi poco dopo, prendendo una nave a Genova sino a Barcellona, proseguendo con l’autostop sino a Madrid e salendo su un treno notturno per la capitale portoghese, accolto da un marinaio alla frontiera. L’atmosfera che si respirava stava tra l’effervescenza e la sorpresa, la felicità e l’inquietudine tipica delle neonate democrazie.
Il Portogallo era un paese chiuso, distaccato dal resto dell’Europa dalla barriera franchista. Il suo paesaggio urbano e rurale era quasi intatto per volere del suo eterno dittatore António de Oliveira Salazar, «un aritmetico, francamente nemico della dignità dell’uomo e della libertà di stato», scriveva Pessoa. Il suo cammino, da semplice contadino a professore, da esperto di finanza e stratega dello stato autoritario e intransigente, non era certamente ipotizzabile nel momento in cui nacque il 28 aprile 1889 nel modesto villaggio di Vimieiro, allora con 580 abitanti, dotato di telegrafo, nel comune di Santa Comba Dão Dão, figlio di António de Oliveira e di Maria do Resgate Salazar, cognome di origine spagnola con cui preferì essere identificato fin da giovane per la scarsa originalità del cognome paterno, assai comune nella zona.
Da lì spiccò il volo verso Lisbona detenendo il potere dal 1932 al 1968, da Hitler ai Rolling Stones. E lo decedette solo per una banale caduta dalla sedia del callista. Ma nessuno volle confessargli che era stato sostituito da Marcelo Caetano e così per due anni andò in scena la farsa politica più clamorosa nella storia d’Europa. «E’ il prodotto di una fusione di estraneità: l'anima campestramente sordida dei contadini di Santa Comba Dão ampliata in piccole dimensioni dall'eco del seminario, dal disumanesimo libresco di Coimbra, dalla rigida e pesante specializzazione del suo destino prescelto di professore di finanza»: così Fernando Pessoa scriveva su António Salazar nel momento della sua ascesa politica.
Dalla finestra di una ditta di tessuti nella Baixa pombalina Bernardo Soares alias Fernando Pessoa sognava «viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili». Rua dos Dourados diventa il labirinto in cui il Portogallo si dibatte, dalla grandezza della conquista alla decadenza coloniale: «E il senso di libertà che nasce dai viaggi? Posso averlo andando da Lisbona a Benfica e forse con un’intensità maggiore di chi va da Lisbona alla Cina, perché se la libertà non è in me non la troverò da nessun parte» scrive Pessoa nel Libro dell’inquietudine. Come ebbe a scrivere il compianto António Tabucchi, «Non c' è provvedimento salazarista che Pessoa non abbia irriso in poesia.
Così sullo Stato Nuovo, preso di mira in una lunga composizione del 29 luglio del 1935 che termina con questa quartina: ‘Che la fede sia sempre viva / perché la speranza non è vana / La fame corporativa / è disfattismo. Allegria, / oggi il pranzo si fa domani!’». La radio nazionale è chiamata «Radiofonia di non so che melodia / di chi esegue un assolo / davanti ad un microfono morto». E il nome di Salazar viene scomposto in sal (cioè sale) e azar, in portoghese "iella": «Questo signor Salazar / è composto di sale e azar. / Se piove / l'acqua scioglie il sale / e in aria, ovviamente, / non resta che la iella». (marzo 1935). E ancora: «Poverino / il nostro tirannino! / non beve vino / neanche solo solino // Beve la Verità / e la Libertà / ed è tanto assetato / che queste ormai scarseggiano / sul mercato» (marzo 1935). E infine: «Ritorna in seminario, smammare / hai il vento contrario / vatti a ri-po-sa-re. // I conti li hai già fatti / come sai farli tu / Spero di rivederti a casa di Belzebù» (marzo 1935)”.
Così, una generazione di ragazzi che non voleva più morire nell’umidore africano in una stupida guerra coloniale che provocò migliaia di morti, diede origine al Movimento delle Forze Armate che portò alla famosa Rivoluzione dei Garofani del 25 aprile 1974. Per tanti giovani come me che accarezzavano il vento di libertà, che si respirava in quei giorni in Portogallo, significava aprire la porta dei sogni. Tutto appariva come il disvelarsi di un mondo rimasto chiuso per quasi mezzo secolo: gli esuli che tornavano da decenni di esilio in luoghi e lontani, così diversi dal Portogallo; giovani studenti, fuggiti all’estero per non incappare nella ferma obbligatoria, che giravano liberamente tra i locali del Bairro Alto; film sino a quei giorni oscurati dalla censura che venivano proiettati nella sale e nei giardini; oppositori politici che scrivevano libri sulla loro esperienza in prigione; visite ai luoghi della tortura; persone che ti aprivano le case e altre che ti accompagnavano in macchina dove desideravi. Nelle strade l’odore dei lustrascarpe e del caffè era sopraffatto da quello dei giornali del mattino e del pomeriggio, appena sfornati dalle tipografie e venduti dagli strilloni: le notizie correvano più della temporalità effimera di quei fogli di carta. C’era attesa e interesse per quello che accadeva, ora per ora. Mi feci degli amici con i quali passavo le serate. C’era allegria in quelle piccole trattorie che aprivano per noi stanze particolari dove poter chiacchierare per ore e ore.
Diciamo la verità: il mondo ci sembrava a portata di mano, come il futuro sembrava pronto per essere modellato a nostro piacimento. Poi, come sempre, le cose si spensero, cambiarono, la normalità ebbe un effetto di pacificazione e i sogni morirono alle foci del Tago. Ma la rivoluzione del 25 aprile 1974 è rimasta, per me come per altri, l’unica rivoluzione tangibile, vista, vissuta, nel mio caso da spettatore esterno. L’amicizia è rimasta la traccia comune di quei giorni per tanta gente che adesso non pratica più la politica e non ha più sogni da chiedere. Molti di noi se ne sono già andati, altri non hanno più battaglie da combattere e osservano le trasformazioni che l’esistenza offre. Di quei giorni dei garofani mi resta anche un’ombra inquietante stesa sulla vita di tante persone: António Salazar. Non c’era più da qualche anno, ma è come se attraversasse le strade o comparisse dietro un angolo, stesse su un palco del Teatro San Carlo o salisse sull’Elevador de Santa Justa a osservare la gente sottostante credendo di averla ancora in pugno.
Sono trascorsi quasi cinquant’anni e io ho continuato a frequentare il Portogallo, a mantenere relazioni e affetti, a girare film in quella terra meravigliosa, a leggere libri su Salazar, a studiare i documenti della dittatura. La sua ombra si è esternata in una idea di un libro che ho scritto in maniera abbastanza scorrevole perché è come se il dittatore abitasse anche nella mia testa, seppur non ne avessi patito l’orrore della repressione.
Brandelli di storie, filmati, documenti, testimonianze mi si sono ricomposte come un mosaico nella scrittura. Persino le camminate notturne in Rua Augusta e sul lungo fiume di Praça do Comércio, le serate al Bairro Alto o all’Alcantara mi si sono palesate come se le rivivessi. Queste pagine sono mie, ma è come se fossero di altri che mi hanno raccontato il lungo tunnel della dittatura su cui, credo, di aver detto cose importante, trascurate, forse già dimenticate. Non a caso è stato uno scrittore italiano come me, il compianto amico Antonio Tabucchi, a svelare al mondo, con il suo stile ironico e sognatore, cosa è stata la dittatura e la censura. Il suo “dottor Pereira”, anziano giornalista che dirige la rubrica culturale del principale quotidiano della città, è il simbolo di una sofferenza interiore che ha marcato tutta l’anima portoghese.