El Seves fiùmm de Milan esonda per la 120esima volta dal 1975
Anche oggi è allerta arancione nell’area metropolitana milanese e in Lombardia, e nelle stanze di chi governa dovrebbe risuonare il monito di Leonardo, il genio di Vinci che fu anche Architecto et Ingegnero Generale nella Milano governata da un mecenate potente e visionario come Ludovico Maria Sforza detto il Moro: “Se ti addiviene di trattare delle acque consulta prima l’esperienza e poi la ragione”. Noi spesso né l’una né l’altra.
E ci risiamo. Da due giorni ormai Milano e l’hinterland e parte della Lombardia sono in balìa del Lambro e del Seveso con allagamenti e danni, problemi lungo le linee ferroviarie, chiusura dei caselli autostradali tra la Brianza e Brescia. Il Lambro, il primo ad esondare, ha allagato soprattutto la Brianza con Gessate sotto acqua Bellinzago Lombardo, e il quartiere milanese di Ponte Lambro, con scene di soccorsi della protezione civile con gommoni, famiglie evacuate, salvataggi di sommozzatori dei vigili del fuoco, e il sindaco Sala che ricordava come anche sul Lambro ancora mancano le vasche di laminazione.
Nel pomeriggio è toccato al Seveso esondare a Milano e siamo alla 120esima volta dal 1975! Alle 17,30, riempita fino al limite l’unica vasca di laminazione del Seveso al Parco Nord al confine con Bresso, l’assessore alla Sicurezza Marco Granelli ha lanciato l’alert. Il fiume si è ripreso la zona Prato Centenaro tra viale Suzzani e via Mont, e la vasca lo ha almeno contenuto per una decina di ore evitando una esondazione peggiore tra Niguarda, Isola, Maggiolina e Pratocentenaro.
Se il rischio alluvioni a Milano è plateale, il motivo non è la carenza di fondi o di progetti e di capacità tecnica ma di cantieri aperti per realizzare quel sistema di vasche di laminazione dove far scaricare la furia delle piene di un corso d’acqua che non aspetta i tempi interminabili delle opere di regimazione e controllo. El Seves fiùmm de Milan allaga dal basso perché è costretto a scorrere intubato sotto la città per circa 10 km in sezioni insufficienti per le sue portate di piena, stimate a suo tempo molto al ribasso.
La verità che fa male è che ad oggi, solo la vasca del Parco Nord di Milano al confine con Bresso è stata realizzata, con lavori partiti il 20 luglio 2020. Le altre, che devono contenerlo lungo la pianura a nord di Milano, segnano ritardi cronici. Una delle due vasche di Senago sarà pronta tra qualche mese, quella di Lentate forse tra un anno, come quelle delle zone golenali di Cantù, e della vasca di Paderno-Varedo c’è il solo progetto e non è stato ancora assegnato l’appalto.
Un ritardo medio di oltre 4 anni sul cronoprogramma dei lavori controfirmati dall’allora Struttura di Missione “italiasicura” di Palazzo Chigi nel 2016 con Regione e Comune di Milano, nonostante fondi stanziati da allora, e la certezza che solo un sistema di vasche di laminazione può ridurre o portare in alcuni casi a zero i rischi di esondazioni.
Ma tant’è, il ritardo nelle opere oggi segnala uno dei casi nazionali di autolesionismo nella regione più industrializzata, perfettamente in grado di realizzare qualsiasi opera infrastrutturale. Ma la sicurezza del Seveso è imbrigliata nei conflitti aperti e non gestiti tra Milano e i comuni dell’hinterland, tra i comuni sull’asta del fiume e la Regione, tra un comitatismo locale Nimby e tutte le istituzioni.
In balìa di contenziosi infiniti, quasi sempre incomprensibili viste le tante modifiche ai progetti inziali, le opere accessorie concordate e le varianti che hanno migliorato gli interventi a partire dagli inserimenti ambientali. Pendono ancora ricorsi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche finiti in Cassazione per la verifica di legittimità. In questo assurdo stallo con scontri di carte bollate escono sconfitti tutti, visto l’oggetto del contendere che non è una cementificazione distruttiva del territorio ma la realizzazione di laghi artificiali per la protezione dei cittadini e dei beni pubblici e privati, dove far sfogare le alluvioni di un fiume considerato e utilizzato come una fogna a cielo aperto, deviato, strozzato e intubato.
El fiùmm de Milan scorre infatti per 52 km nelle province di Como, Monza e Brianza e Milano. Attraversava fino alla prima metà del Novecento zone di campagna, partendo dalle sue sorgenti sul Monte Sasso, a Cavallasca, a quota 490 metri, a meno di 5 km in linea d’aria da Como.
Da lì attraversa scenari suggestivi, e nulla faceva immaginare la sua successiva funzione di collettore di fogne industriali e civili, e poi la sua scomparsa per una decina di chilometri sotto via Ornato a Milano, infilato in una galleria del tutto insufficiente a farlo passare in caso di piena. E la sua nuova “foce”, alla confluenza nel Naviglio della Martesana, è anch’essa innaturale e intubata sotto il manto stradale di via Melchiorre Gioia.
Il Seveso ha poi buone ragioni di “lesa naturalità” visto anche che negli anni Ottanta fu dichiarato, dopo una campagna di analisi biochimiche della Regione, un “fiume morto”. Da allora, lo stato ecologico segnalato dall’ARPA lo certifica a malapena sufficiente fino a Vertemate, scarso fino a Lentate, cattivo dopo Lentate e sotto Milano.
Lo deviano dai tempi dei Romani che, con una delle loro imprese colossali, portarono parte del fiume che scorreva lungo il perimetro orientale del castrum di Mediolanum, verso il torrente Nirone che transitava poco più a ovest per formare il primo anello d’acqua difensivo. Al tratto occidentale artificiale del Nirone diedero il nome di Piccolo Sevese, e alla restante parte dell’anello quello di Grande Sevese. Quei due rami convergevano nel Canale Vetra, e sono i canali più antichi di Milano. Oggi attraversa aree urbane e industriali sempre più ristretto e sagomato, con tratti tra case e fabbriche che gli stanno addosso al punto che spesso l’alveo coincide con le mura.
L’intombatura a Milano iniziò con l’espansione di fine Ottocento, ed è proseguita dal 1930 e, dopo il Piano Regolatore Generale del 1953, si è estesa a Niguarda e lungo via Ornato fino al confine comunale con Bresso, con la sua nuova foce. Se in caso di piena un tempo divagava tra campagne, oggi può arrivare ingrossato dalla Brianza e fuoriuscire tranquillamente nella zona nord, a Niguarda, Ca’ Granda, Comasina, viale Sarca, viale Zara e il nuovo quartiere dell’Isola, la Venezia dei milanesi. Con le sue acque è straripato negli ultimi 140 anni in media 2,6 volte l’anno dentro Milano. E sono stati eventi, ancorché a volte contenuti, capaci di paralizzare parte della metropoli, con l’aumento delle sue portate per la confluenza degli scoli fognari di Paderno Dugnano, Cusano Milanino, Cormano, Bresso e Cinisello Balsamo. Cosicché, sotto i nubifragi ormai diventa un “bacino colatore”.
Il 2014 fu un annus horribilis, con 9 esondazioni di fila, e la sola ultima di luglio lasciò danni per 50 milioni di euro. Nell’anno della Expo Universale, da una quarantina di anni il fiume attendeva l’avvio delle opere del “Progetto Seveso”, penosamente bloccate da veti istituzionali, proteste locali e per mancanza di fondi.
Si fondava sul contenimento delle acque di piena in aree di laminazione a monte delle città, sostenuto da Milano e dalla Regione, ma contestato dagli altri comuni dell’hinterland come Senago che esponeva sul municipio lo striscione “No Vasche”, e da comitati di cittadini contro le casse di espansione che sarebbero state riempite con la sua acqua fetida. Anche l’assenza di reti fognarie e depuratori lungo l’asta fluviale alimentava il comitatismo Nimby dei “No”.
Il Progetto Seveso allora era valutato in 3 anni di lavori e 145 milioni d’investimento, meno dei danni complessivi delle alluvioni dell’intero 2014. Quando da Palazzo Chigi, Italiasicura iniziò ad occuparsene, il progetto non solo non era finanziato ma nemmeno rientrava tra i 1.700 milioni stanziati per le opere previste per l’Expo Universale, il grande successo italiano dal 1 maggio al 31 ottobre 2015.
Quei fondi arrivarono però dall’unità di missione del Governo, con altri 20 milioni dal Comune di Milano impegnati dall’allora sindaco Giuliano Pisapia e dalla sua vice Ada Lucia De Cesaris che, con determinazione, sbloccarono anche il piano per realizzare i depuratori. E con l’allora assessore regionale Viviana Beccalossi e il suo dirigente Dario Fossati, quelle risorse iniziarono a diventare progetti esecutivi che la Regione affidò all’Autorità Interregionale del Po.
Si trattava, e si tratta, di realizzare un sistema integrato di laminazione lungo l’asta del Seveso, con manutenzione dell’alveo e finalmente reti fognarie e depuratori. Era basato sulla creazione di 4 vasche di raccolta delle acque tra Lentate sul Seveso, Senago, Paderno-Varedo e Milano, in grado di frenare oltre 4 milioni di metri cubi d’acqua di piena, accompagnate dalla rinaturalizzazione ricreando golene tra Vertemate, Cantù, Carimate e Lentate.
Fu aperto, all’epoca, anche un dialogo con chi contestava le opere, accogliendo le loro richieste di far precedere i lavori dai cantieri per la depurazione in diversi comuni, con un investimento aggiuntivo di 90 milioni di euro. In un anno, fu eliminata la vergogna di acque reflue non depurate, il motivo principale della non accettazione del sistema di difesa idraulica che prevedeva accumuli importanti di acque di piena.
A quel punto, il Progetto Seveso diventò persino un modello integrato esportabile altrove poiché affrontava sia il superamento del rischio idraulico che dell’inquinamento. Iniziarono quindi le progettazioni e le verifiche per le vasche di laminazione tra Milano Parco Nord, Senago, Lentate, Varedo e Vertemate, Cantù, Minoprio e Carimate, per il potenziamento dello scolmatore nord-ovest e il ripristino della funzionalità del sottoattraversamento del fiume nel sottosuolo di Milano, con la manutenzione straordinaria del Cavo Redefossi. Nel piano furono inserite anche opere per la riqualificazione ambientale delle sponde attraverso il “Contratto di fiume”. Chiusa italiasicura, le opere sono andate molto a rilento, tra riprogettazioni, polemiche e conflitti tra istituzioni che francamente fanno vergognare.
Non accade solo a Milano e in Lombardia perché sciatteria e menefreghismo istituzionale, rimozione dei rischi notevolmente aumentati in questa fase climatica e comitatismo dei No anche sulle opere più utili e vitali, dilagano in un Paese dove manca quella coesione politica in grado di riavviare una struttura tecnica centralizzata che possa far ripartire la più grande opera pubblica di cui l’Italia ha bisogno.