L’economia italiana è davvero circolare? Un po’ di chiarezza oltre il caos degli indicatori sulla circolarità
Come si misura la “circolarità“? A questa domanda prova a rispondere un denso report di Assoambiente, presentato ad Ecomondo nei giorni scorsi.
Di circolarità, uso efficiente delle risorse e riciclo dei materiali si parla ormai da anni. Il tema occupa l’agenda delle decisioni politiche (soprattutto europee) ed è ormai stabilmente entrata nel dibattito pubblico.
Da anni esistono diversi indicatori che misurano, da varie angolazioni, i risultati delle politiche. Numeri che vengono usati nella comunicazione, non sempre facili da capire. Il report di Assoambiente da un lato punta a “spiegare” il significato dei vari indicatori, dall’altro prova ad analizzare i risultati raggiunti per capire l’Italia come è messa.
Vediamo questi indicatori: sono diversi, ognuno “illumina” un aspetto del problema, la cosa migliore sarebbe leggerli tutti insieme e avere cosi una visione completa.
Per anni l’indicatore più usato è stato il tasso di raccolta differenziata dei rifiuti urbani (la classifica che ne seguiva erano i famosi “comuni ricicloni”). Un indice che misura la quantità di materiali raccolti in forma separata, a prescindere da dove vanno a finire. La legge italiana indicava un target nazionale del 65% al 2012, valore che abbiamo raggiunto nel 2022, dieci anni dopo. In altri Paesi europei e nella direttiva questo obiettivo non viene spesso né considerato né valutato, quindi è difficile fare confronti e classifiche a scala europea (ma solo fra le varie regioni italiane). Risultato comunque raggiunto, compito fatto (la sensazione è che non siano molti i Paesi europei capaci di esibire questo stesso numero).
Un indice più ambientalmente concreto invece è la percentuale di riciclo dei rifiuti urbani, ovvero la quantità di materiali effettivamente avviati alle operazioni di recupero nei ciclo industriali o agricoli, al netto quindi di scarti e materiali indesiderati. La “vecchia direttiva” prevedeva un obiettivo nazionale del 50% al 2020, ma consentiva diversi metodi di calcolo. La cosa interessante è che il rapporto Ispra sui rifiuti urbani nel 2021 certifica che, nel 2020, l’Italia aveva raggiunto l’obiettivo con il Metodo di calcolo numero 2 (54,4%) ma non con la Metodologia 4 (48,4%). Ma questo ci basta per poter dire “risultato raggiunto” anche per questo indice, evitando così (si spera) una procedura di infrazione. Più complicati i calcoli dal 2020 in avanti, in vista nel nuovo target europeo del 55% al 2025 (di fatto fra un anno). I metodi di calcolo non solo più quelli usati per il 2020, la nuova direttiva indica criteri precisi, specificati meglio dalla Decisione di esecuzione della Commissione del 2019. Metodo di calcolo molto rigido e “avaro”, che di fatto considera solo i flussi di raccolta differenziata (senza contare gli inerti raccolti nel circuito urbano), e i metalli recuperati dalle ceneri di incenerimento. Non è chiaro se si può usare nel calcolo i flussi a riciclo provenienti dai Tmb o i Tm (forse sì i materiali secchi, non la Fos usata per copertura delle discariche), proibito conteggiate le ceneri di incenerimento avviate a riciclo (aggregati, fondi stradali). Il riciclo chimico non è considerato, cosi come non è conteggiato l’avvio di digestato a biochar. Solo per fare qualche esempio. La Commissione ha tenuto quindi una inspiegabile e irragionevole posizione di chiusura, spiegabile solo con la ormai consueta impostazione ideologica. Una logica di buon senso consiglierebbe di conteggiare tutti i materiali che vanno a riciclo effettivo.
Sulla base dei nuovi criteri di calcolo l’Italia è al 49,2% di riciclo al 2022, arrivare al 55% al 2025 quindi sembra fattibile. Ma sarebbe veramente assurdo arrivare al 54,9% solo perché la Commissione è stata di manica stretta. Un ripensamento sulla Decisione di esecuzione del 2019 quindi è augurabile, ed è stato chiaramente chiesto da Assoambiente al Governo, presente a Ecomondo per la diffusione del report con la dirigente del dipartimento sostenibilità, Laura D’aprile. Se non per il 2025 almeno per il 2030 (60%).
L’Italia vanta un primato assoluto nel terzo indicatore considerato, il riciclo di tutti i rifiuti (urbani e speciali sommati insieme). Siamo primi in classifica in Europa, con circa l’85% di riciclo, grazie soprattutto all’ottima performance nei rifiuti speciali. Da anni Eurostat pubblica questo indice e siamo sempre in testa, con la seconda in classifica ben distanziata. Altra medaglia per l’Italia.
In modo apparentemente inspiegabile l’Italia è solo quarta in Europa per “indice di circolarità”, un indicatore un po’ complesso da capire, che misura quanta parte del complessivo flusso di materia usato dal sistema paese proviene dal riciclo dei rifiuti (urbani e speciali). Siamo (nel 2022) al 18,7%, che si colloca al quarto posto nella classifica dell’indice di circolarità europeo, dietro ai Paesi Bassi (27.5%), al Belgio (22.2%) e alla Francia (19.3%) ma ampiamente sopra alla media europea (11,4%). Ma la domanda viene spontanea: come è possibile che con l’85% di riciclo totale, l’Italia abbia “solo” il 18,7% di indice di circolarità?
La risposta (un po’ complicata) sta nei bellissimi diagrammi di Sunkey che Eurostat pubblica. Il totale di materiale riciclato (124 milioni di tonnellate) viene diviso per il totale delle materie prime e seconde usate dall’economia (oltre 800 milioni di tonnellate), flusso che considera i combustibili fossili (che non possono per natura essere riciclati, ma solo bruciati), e i materiali (soprattutto inerti) “accumulati” in beni, manufatti, opere, edifici, prodotti. In Italia un valore molto alto (310 milioni di tonnellate in un anno). Sarebbe interessante studiare meglio questo dato, in altri Paesi molto più basso.
Insomma se anche riciclassimo il 100% dei rifiuti, non supereremmo il 25% come indice di circolarità. Basta saperlo e capire il senso di questo indicatore.
Infine l’indicatore più complesso ma anche il più interessante: l’indice di produttività delle risorse. Misura quanta ricchezza (Pil) produce un Paese per ogni chilogrammo di materiale usato (materia prima o seconda che sia). Correla quindi il flusso di materia con la ricchezza, misurando l’efficienza nell’uso della materia, la sua intensità. L’obiettivo è quello di aumentare il Pil riducendo l’uso delle risorse, in una logica di efficienza e dematerializzazione. L’indice misura questo aspetto.
L’Italia è seconda nella classifica Ue: usa meno materiali per abitante rispetto alla media europea (9,1 tonnellate ad abitante, dietro la Spagna con 8.8) e produce molta ricchezza per ogni chilogrammo di materia usata con 4.3 pps per kg, dietro soltanto ai Paesi Bassi con 5.8, e una media europea di 2,7 (pps sono euro corretti col potere d’acquisto di quel Paese). Insomma Italia leader di riciclo, ma anche di circolarità e di efficienza nell’uso delle risorse.
Ma la quantità di materia che usiamo (e in buona parte importiamo) è ancora gigantesca, comparata alla sola “economia del riciclo”. Su questa montagna di risorse ancora estratte in buona parte dalla natura, forse sta iniziando a intervenire la nuova strategia circolare europea, che punta il focus “a monte” (nella progettazione e costruzione dei beni) e non solo “a valle” (raccolta, riciclo, riuso). Era l’ora, ma ci vorrà tempo.