Altro che 2027, sulle concessioni il Governo Meloni cede alla Bolkestein: balneari in rivolta. Ma chi tutela le spiagge libere?
Mentre ieri al Tg1 il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, si sottoponeva a una “intervista” sul caso Boccia tanto umiliante da far riconsiderare il reality Temptation Island alla stregua di un programma d’alta cultura, il Consiglio dei ministri approvava un decreto legge (in allegato in fondo all’articolo, ndr) con particolare riferimento alle concessioni balneari.
«La collaborazione tra Roma e Bruxelles – dichiara il Governo – ha consentito di trovare un punto di equilibrio tra la necessità di aprire il mercato delle concessioni e l’opportunità di tutelare le legittime aspettative degli attuali concessionari», con Bruxelles che conferma si tratti di «una soluzione globale, aperta e non discriminatoria che copre tutte le concessioni da attuare entro i prossimi tre anni».
A prima vista sembra l’ennesimo, secco rinvio della mai applicata direttiva Bolkestein, che dal 2006 impone di aprire alla concorrenza le concessioni balneari, il cui mancato rispetto ha portato nel 2020 all’apertura di una procedura d’infrazione contro l’Italia. Una prova di forza del Governo Meloni contro l’Ue, da potersi rivendere all’elettorato. In realtà è il contrario, come mostra l’amara risposta dei balneari a questo zuccherino avvelenato arrivato per mano di un esecutivo amico. Tanto da ipotizzare in risposta azioni sindacali, dopo lo sciopero-flop di quest’agosto.
Le associazioni di categoria Sib-Confcommercio e Fiba-Confesercenti dichiarano che il decreto «non ci soddisfa, perché prevede la messa a gara delle aziende. Erano altre le aspettative generate dalle dichiarazioni degli esponenti dell’attuale governo, sull’esclusione del settore dall’applicazione della direttiva Bolkestein».
In primo luogo, infatti, il decreto riconosce che le oltre 12mila concessioni demaniali per stabilimenti balneari dovranno essere messe a gara, per una durata da 5 a 20 anni. Estende la durata di quelle in essere fino al settembre 2027 (con possibili ulteriori slittamenti fino a marzo 2028), ma dà facoltà ai singoli Comuni di anticiparle; del resto l’iter è già concluso o in corso da Castiglione della Pescaia al Veneto all’Emilia-Romagna. Molti seguiranno questa linea.
«Già quest’anno – sottolinea nel merito la testata di settore Mondo balneare – l’Autorità garante della concorrenza ha diffidato e denunciato al Tar tutti gli enti locali che hanno usufruito della “proroga tecnica” al 31 dicembre 2024, prevista dalla legge Draghi, e potrà fare lo stesso con chi disporrà ulteriori estensioni, avviando altri contenziosi che sia i Comuni che i balneari vogliono evitare, poiché tutti sono stati finora fallimentari. Anche se concordata con l’Ue, la proroga al 2027 appare dunque non scontata e dovrà passare al vaglio del Quirinale».
Ma le stangate per i balneari non finiscono qui. Gli indennizzi previsti per i gestori uscenti sono al ribasso anche rispetto a quanto disposto a suo tempo dal Governo Draghi, mentre c’è ancora grande confusione su due aspetti fondamentali. In primo luogo i nuovi canoni concessori, ad oggi irrisori (Nomisma stima che la gestione spiagge frutti 15 mld di euro l’anno, a fronte di canoni per 115 mln di euro): i criteri per individuarli sono da definirsi con un decreto da adottarsi entro marzo 2025, ma se non arriverà in tempo nelle more è già disposto un primo incremento del 10%. In secondo luogo, le spiagge libere.
Ad oggi ad esempio in Sicilia i Piani di utilizzo delle aree demaniali marittime (Pudm) devono prevedere il 50% delle aree destinato alla fruizione gratuita, mentre il Governo punta a una soglia minima nazionale del 15%; in ogni caso le percentuali valgono poco senza avere un dato assoluto solido cui poter far riferimento.
Nei mesi scorsi i tecnici del Governo hanno tentato di portare a 11mila i chilometri di costa del Paese – dagli 8mila reali, che scendono ad appena 3.418 chilometri di costa bassa e sabbiosa, anche perché dal 1970 abbiamo perso 40 milioni di mq di spiagge per erosione e consumo di suolo – contando non solo le coste rocciose, le falesie, ma anche i moli dei porti industriali, i pennelli frangiflutti, etc.
Un approccio naturalmente cassato in sede europea, anche perché spalmava i dati su scala nazionale aggirando l’importante questione di fondo degli squilibri rispetto alla diffusione degli stabilimenti balneari nel nostro Paese, ossia la presenza di regioni dove il litorale è occupato al 70% (come Liguria, Emilia-Romagna e Campania) e ancor di più in specifici Comuni, mentre in altre regioni l’occupazione è molto più ridotta.
La vera urgenza, adesso, è dunque predisporre in tempi brevi dei Piani spiagge comunali – del resto è ai Comuni che il Governo ha di fatto lasciato in mano il cerino, come già spiegava sulle nostre pagine Sebastiano Venneri di Legambiente – che sappiano tenere insieme la frubilità delle spiagge libere e la possibilità di ricavare canoni concessori adeguati dagli stabilimenti balneari. È il momento di ricordarci che le spiagge sono beni naturali pubblici per definizione, un patrimonio straordinario dello Stato: grazie all’Ue è finita la possibilità di regalarne di fatto la gestione ai privati, ma a causa del Governo resta ancora molto da risolvere.
Come osservano nel merito dalla Regione Toscana il presidente Eugenio Giani e l’assessore al Turismo Lenoardo Marras «ci sono vuoti nella normativa, che daranno origine a contenziosi lunghissimi ed ogni scelta importante viene, di fatto, scaricata sui Comuni, con il rischio, più che concreto, di un risultato che potrebbe variare da Comune a Comune creando una realtà caotica e non uniforme. Questa è una proroga ad orologeria che consente soltanto di raggiungere due obiettivi: arrivare indenni alla scadenza della legislatura dell’attuale Parlamento e di far accogliere il ministro Fitto a Bruxelles senza altri imbarazzi».