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La lezione Lorenese: Eugenio Giani e la riscoperta del Granduca Pietro Leopoldo nel suo nuovo libro

Quel riformismo rivoluzionario che fece grande la Toscana e farebbe molto bene all’Italia smarrita di oggi
 |  Toscana

Pietro Leopoldo Asburgo Lorena nato nel Castello di Schönbrunn reggia imperiale di Vienna il 3 maggio del 1747, terzogenito maschio dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e di Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Luisa di Borbone che diede al mondo ben 16 figli e lui ne aggiunse un altro avuto dalla sua amante prediletta Livia Raimondi, a 18 anni sovrano del piccolo Stato del Granducato di Toscana con meno di un milione di abitanti ma di grande importanza strategica, a 43 anni tornato a Vienna da imperatore d'Austria dove morì due anni dopo nel pieno della sognata Rivoluzione francese, e non vide l'esecuzione di sua sorella Maria Antonia Giuseppa Giovanna d'Asburgo-Lorena passata alla storia come Maria Antonietta e di suo cognato Luigi XVI, narrato in 208 godibilissime pagine che raccontano tutte le grandi trasformazioni che hanno fatto grande la Toscana. Il visionario e illuminato riformatore settecentesco non poteva che essere rilanciato e narrato da un “leopoldino” doc come Eugenio Giani, con stile narrativo volutamente didattico e alla portata di tutti. Già autore delle biografie del precedente “Signore di Firenze”, il banchiere-patriarca Cosimo che diede inizio alla folgorante dinastia de’ Medici, del Vasari e anche di un curioso e prezioso calendario fiorentino con ognuno dei 365 giorni contrassegnati da eventi storici e di costume in gran parte oggi dimenticati e ignorati, il Presidente della Regione afferra ogni aspetto della rivoluzione lorenese riportandoli all’oggi nel ritratto riformista di “Pietro Leopoldo, il Granduca delle riforme”, titolo del suo ultimo libro pubblicato da Giunti, il message in a Bottle lanciato nel guado politico nazionale da troppo tempo orfano di riforme e visione, e ovviamente nel suo campo.

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Il racconto del Granduca è organizzato per capitoli con tutte le riforme e le vicende personali e storiche nel secondo tempo riformatore della Toscana dopo l’epopea de’ Medici, e Giani fa emergere la fotografia nitida di un gran protagonista della storia regionale che non si fa fatica a immaginare come uno dei suoi grandi ispiratori. Come ha spiegato nella prima delle sue presentazioni alla libreria-cinema Odeon di Firenze: "Ho scritto il libro perché è il Granduca delle riforme, perché era talmente vicino agli ideali dell’illuminismo che per la prima volta nel mondo, il 30 novembre 1786, portò la sua grande visione alla clamorosa e coraggiosa scelta di cancellare dal suo Ordinamento e come primo Stato al mondo sia la tortura che la pena di morte! Fu una delle sue leve per far passare un’idea di governo nuova e moderna, ispirata al concetto che allora e oggi è rivoluzionario del diritto di tutti alla ‘pubblica felicità’. Perché a lui dobbiamo riforme che hanno fatto crescere la nostra Toscana, dalla sanità pubblica di cui fu testimonial essendo stato il primo sovrano a vaccinarsi alla riorganizzazione amministrativa razionale ed efficiente del territorio in 273 Comuni unificando i 'mille popoli toscani' con una visionaria riforma degli enti locali, dal rapporto diretto con i cittadini alle grandi opere pubbliche e soprattutto alle prime vaste bonifiche integrali con risistemazioni a mezzadria dei territori non più paludosi e abbandonati ma fonti di vita e ricchezza”.

Le riforme leopoldine oggi sono lezioni di buongoverno, con un’idea di Toscana che il giovanissimo rampollo di una delle famiglie allora più potenti d’Europa chissà se aveva già in mente quando, rievoca Giani, il fatidico 13 settembre 1765 varcò per la prima volta la Porta San Gallo entrando a Firenze. Era, in quel giorno, solo il diciottenne terzogenito dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e di Francesco Stefano di Lorena, fresco di nozze celebrate a Innsbruck il 5 agosto con l’infanta di Spagna Maria Luisa figlia di Carlo III di Borbone, rispettando una delle condizioni definite negli accordi tra le due superpotenze europee: i Borbone e gli Asburgo-Lorena. Pietro Leopoldo saliva quindi sul trono della Toscana per regnare per 25 anni e in quel quarto di secolo, a sorpresa, riuscì a scuotere e a rilanciare la vitalità dei toscani trasformando il Granducato nel più dinamico laboratorio europeo di sorprendenti innovazioni e modernità. “Impossibile - riflette Giani - non riconoscersi nel suo approccio nuovo, in quel messaggio che sembra lanciare oggi a tutti noi di ‘conoscere per decidere’, e lui decise sempre dopo aver girato per tutti i territori granducali con i mezzi di allora alla ricerca di un rapporto diretto e vero con i suoi cittadini non più sudditi".

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Leopoldo arrivò in una città che lo accolse con una certa diffidenza, dove nessuno avrebbe probabilmente scommesso un fiorino d’oro di zecca ma nemmeno in argento e neanche un picciolo sulla partenza del venticinquennio con i livelli più alti del riformismo europeo. La nobiltà cittadina e le corporazioni arricchite dalle manifatture e dai commerci avevano subìto il contraccolpo delle misure protezionistiche dei francesi con la chiusura delle loro frontiere e quindi dei mercati alle industrie fiorentine più fiorenti, facendo calare quasi a picco le storiche produzioni di lana e di seta e riducendo così i guadagni nei forzieri di banchieri e mercanti.

Ma Firenze era pur sempre la capitale dell’arte, della cultura e dell’ingegno, aveva relazioni internazionali strutturate, era saldamente inserita tra le tappe obbligate dei viaggiatori del Grand Tour. Non era ancora alle viste l’exploit di nuovi terreni sui quali investire e far accumulare grandi fortune come le terre agricole risanate dalle bonifiche lorenesi per nuovi coltivi estensivi e la liberalizzazione dei mercati. E i mercanti contavano sui margini di guadagno delle manifatture con nuove produzioni come le porcellane di Doccia che il marchese Ginori aveva fondato nel 1737, proprio nell’anno dell’addio di Gian Gastone, ultimo erede della dinastia dei sette granduchi de’ Medici rimasta inesorabilmente senza successori. La Toscana era finita tra le spartizioni di terre nelle mani delle due superpotenze dell’epoca come la Francia e l’impero Asburgico, e la diplomazia delle armi e delle parrucche nel Trattato di Vienna del 1738 già aveva nominato il Granduca Francesco Stefano di Lorena sul trono più alto della Toscana, affossando brutalmente ogni velleità e nome immaginato dai casati fiorentini. Aveva imposto a tavolino la nascita di uno Stato satellite della ricca Lorena. Ma accadde che quel primo Granduca, che pure governò dal 1737 al 1765, a Firenze e in Toscana si affacciò una sola volta e per una sola visita nell’anno fatidico 1739. Per lui fu un “sacrificio” doveroso e restò in città giusto per il tempo di affidare l'intera Regione nelle mani di un “Consiglio di Reggenza” e il suo controllo alle sciabole e ai fucili dei soldati degli eserciti lorenese e lombardo.

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Con il giovane Pietro Leopoldo tutto cambiò. Il Granduca divenne toscano a tutti gli effetti. Non governava dal chiuso di una stanza dell’imponente rinascimentale Palazzo Pitti ma avventurandosi nei suoi numerosi viaggi in ogni angolo del Granducato, come dimostrano le tante “Relazioni” sullo stato dei luoghi dove racconta la vita amministrativa, sociale ed economica di ogni città visitata con ogni mezzo e in ogni stagione. Si raccontava che conoscesse e chiamasse per nome ogni funzionario del granducato fino a quello del più piccolo dei paesi, insomma non gli sfuggiva nessun dettaglio del suo regno e in più annotava tutto quel che vedeva e gli raccontavano. Lavorò al progetto di “Costituzione per gli Stati di Toscana” negli anni il 1779 e il 1782, la stagione dell’avvio della Rivoluzione francese e della crisi finale delle monarchie. E disegnò un modello che prevedeva assemblee rappresentative a vari livelli: municipale, provinciale e statale, lasciando a sé i poteri di nomina delle magistrature. Ebbe il fegato di liquidare tutte le corporazioni di stampo medievale, puntando sulle più ardite riforme e sull’appeal di Firenze sempre più Capitale politico-amministrativa dello Stato unitario, sui nuovi governi provinciali, sulla concessione delle autonomie ai consigli comunali e ai loro organi. Abolì le antiche magistrature, il Consiglio dei Duecento e il Senato dei Quarantotto a Firenze, e mise il controllo dei nuovi enti nelle mani di una più rappresentativa “Camera delle Comunità”.

Avviò la riforma dei tribunali con la “professionalizzazione” dei giudici con obbligo di laurea e sotto il controllo regio, cancellando quelli che fino ad allora erano stati gli intoccabili privilegi medievali dei casati fiorentini nelle magistrature. E il Granducato diede così l’addio ai poteri forti fino ad allora nelle mani delle 21 Arti medioevali - 7 Arti maggiori di giudici e notai, mercanti di Calimala e cambiatori, medici e speziali, produttori di lana e seta e pellicciai, e 14 Arti minori di beccai, calzolai, fabbri, maestri di pietre e di legname, vinattieri, fornai, oliandoli, chiavaiuoli...- tutte sostituite tour court da una sola “Camera di Commercio”.

La modernizzazione avanzava ad ogni livello, assicurando i “diritti soggettivi” ad ogni suddito-cittadino di fronte alla legge. La riforma della “giustizia criminale” fu un’altra grande sorpresa europea, culminata nella legge del 30 novembre 1786 che, per la prima volta nel mondo, abolì la tortura e la pena di morte per i condannati. Era l’imprinting dell’illuminismo e del filosofo e giurista Cesare Beccaria. Proporzionalità delle pene, umanizzazione del diritto, valore probatorio della confessione, contenimento della carcerazione preventiva, divieto di confische di beni alle famiglie dei condannati, separazione tra funzioni di giustizia e di polizia, furono un salutare inatteso choc. La nuova “giustizia criminale” separò le funzioni di giustizia e di polizia e, nel maggio 1777, nasceva il “Supremo Tribunale di Giustizia” con giudici di nomina regia. Ma già con il “Concordato” del 1775 il Granduca aveva clamorosamente sottoposto a tassazione i beni del clero e smantellato la giurisdizione ecclesiastica con l’abolizione di carceri e tribunali vescovili e poi anche dell’Inquisizione nel 1782.

Pietro Leopoldo si circondò di capaci funzionari. Riformò i Dipartimenti granducali, con la progressione delle carriere dipendente solo dal merito e dalle competenze, svuotando gli uffici di “nominati” dalla nobiltà come ordinava “La Relazione dei dipartimenti e degli impiegati del 1773”, scritta dallo stesso Granduca con una moderna visione dei meccanismi dell’amministrazione pubblica. E quattro “Commissari” laureati sopraintendevano ai quartieri urbani di Firenze con funzioni di controllo delle condizioni igienico-sanitarie e di assistenza.Leopoldo Asburgo Lorena 4Un’altra operazione-choc fu l’annuncio del valore culturale della “pubblica felicità” come scopo del governo granducale da realizzare attraverso il rispetto dei diritti di tutti, la libertà di culto, l’abolizione della pena di morte, la reciproca “cooperazione” e fiducia tra governanti e governati con la ricerca del massimo “consenso dei soggetti interessati”. Il sovrano umanista, cosa rara in quei tempi, sostenne le élite fiorentine colte e all’avanguardia in Europa nella creazione di accademie e istituzioni “dotte” che ancora oggi sono riferimenti culturali, e all’epoca erano enti consultivi del Granducato. Venne quindi fondata la nuova Accademia Fiorentina, fu riorganizzata l’Accademia dei Georgofili, costruirono il grande Museo di fisica e storia naturale, risistemarono la Galleria Palatina oggi Uffizi con il trasferimento delle opere d’arte da villa Medici di Roma, riformarono l’Accademia del disegno e le biblioteche a partire dalla Magliabechiana per “l’uso pubblico del sapere”.

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Canaletto, scorci di Firenze

Fece scalpore anche l’obbligo della sepoltura extraurbana nei cimiteri, un problema da sempre per sepolture in condizioni rivoltanti che contribuivano alle esplosioni continue di epidemie. Denunciava l’accademico dei Georgofili Betti: “La mia e nostra città è ridotta a bere, nell'acqua dei suoi pozzi, gli avanzi dei suoi antenati e dei suoi congiunti, in essa stemprati per le incessanti filtrazioni provenienti dai sepolcreti di ogni urbana parrocchia”. In ogni città, infatti, si seppellivano i morti nei chiostri, negli orti e nei cortili e nei campi urbani annessi a chiese e altri edifici, di scavare tombe poco profonde e non sigillate. Dal 1773, il Magistrato di Sanità e il Collegio Medico Fiorentino vietarono, per la prima volta in Italia, le sepolture nell'area urbana e fu realizzato il primo cimitero esterno a Trespiano. Uno choc ma salutare nonostante le proteste, e lo stesso ordine arrivò in tutte le altre città del Granducato con le ordinanze del 2 gennaio e 11 marzo 1777, del 25 aprile 1780, del 2 settembre 1783 e del 19 e 28 aprile 1784.

Personalità e intellettuali del tempo del calibro di Filippo Buonarroti, Giovanni Fantoni, Filippo Mazzei, Giovanni Fabbroni applaudivano al clima di rinnovamento leopoldino. Il sovrano sembrava infaticabile e sovrintendeva il Consiglio di Stato ai vertici dell’amministrazione. La carestia del 1764-67 che colpì l’area mediterranea fu affrontata con coraggio avviando riforme per la progressiva liberalizzazione dei commerci. Il 15 settembre 1766 fu promulgata la libertà di “panizzazione” e della circolazione interna dei cereali. La legge del 18 settembre 1767 consentì la libera esportazione dei grani ma con costi interni calmierati e aprendo la Toscana ai nuovi mercati internazionali con percorsi verso il completo libero scambio frumentario nel 1775.

Nel campo delle riforme agrarie Pietro Leopoldo portò a compimento la mission considerata quasi impossibile in una Regione dominata dal latifondo, di piegare i possidenti convincendoli con le buone o le cattive a trasformare la gran massa di contadini schiavi e servi in piccoli proprietari terrieri, introducendo il diritto di “Affrancazione” attraverso il quale potevano riscattare pezzi di terra coltivata con il “Patto di livello” o “Enfiteusi”.

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Il Granduca lasciò il segno della modernizzazione anche per innovative risistemazioni fluviali, la nuova viabilità con nuove strade con ponti e dogane e poste e anche osterie, gli scali costieri. Ma soprattutto nelle grandi bonifiche. Nelle sue “Relazioni”, descriveva le immense aree paludose toscane raccontandone il “...sudiciume di quelle case...le perniciose umidità… le Paduline, le Boscaglie acquitrinose che tramandano nei mesi estivi le più nocive esalazioni delle acque putrefatte”. Ordinò prosciugamenti colossali per recuperare terre da mettere a coltura. Con lavori immani e scavi di fitti reticoli di canali a costi umani altissimi per la malaria, furono risanate aree vaste della Maremma, della Val di Chiana e del Valdarno inferiore, le aree paludose di Fucecchio e Bientina, cancellati acquitrini, stagni interni e costieri da sempre habitat ideali della zanzara anofele, vettore della mortale malaria. Iniziarono nel 1765, dopo i tentativi fallimentari precedenti per favorire la rendita fondiaria-agraria anche con il passaggio di beni demaniali o comunali o di enti ecclesiastici e assistenziali e cavallereschi, a proprietà private di ceti borghesi e di famiglie di agricoltori per la loro immediata messa a valore.

Leopoldo Asburgo Lorena 7La Val di Chiana in un disegno di Leonardo come studio preliminare per la bonifica delle paludi con piani faraonici e lungimiranti. La vista a volo d’uccello è custodita nella Biblioteca Reale di Windsor

Nel 1780, il Granducato e la Santa Sede firmarono il “Concordato per la Bonificazione delle Chiane nei territori di Chiusi e Città della Pieve”. La parte settentrionale dominata da Firenze venne risanata con le “gran colmate” proposte a Pietro Leopoldo dal suo ingegnere Vittorio Fossombroni, nominato dal 1794 alla Regia Soprintendenza delle Acque della Valdichiana. Fecero defluire i torrenti che impantanavano la valle in canali artificiali e nel nuovo Canale Maestro della Chiana, in fondo al quale, in riva destra, c’era la Chiusa dei Monaci, l’antica diga di Ponte a Chiani, tra le più affascinanti e funzionanti opere idrauliche storiche. La Chiusa fu travolta più volte dalle piene che superavano i piloni di pietra e il grande arco di mattoni rossi che conservano ancora le aste idrometriche con le scale di misurazione espresse in braccia fiorentine e in metri, ma sempre ricostruita.

Fossombroni era un fine diplomatico, agronomo, ministro, ingegnere, matematico, economista, e lasciò un’impronta nella monarchia illuminata dei Lorena. Nel 1794 fu istituita, sotto la sua direzione, la Regia Soprintendenza delle Acque della Valdichiana e Alessandro Manetti, suo allievo e successore, completò la bonifica. Fu avviato anche il risanamento idraulico del Padule di Fucecchio coinvolgendo i proprietari terrieri nella progettazione delle opere idrauliche. E sui terreni risanati iniziarono ad essere costruite le tipiche case coloniche con “colombaie” o “leopoldine” con loggiati e fienili che ancora oggi abbelliscono le campagne toscane. La politica del territorio ebbe effetti profondi sui sistemi agro-silvo-pastorali e anche sulla muova configurazione del paesaggio con le Maremme e la Val di Chiana e la Valdinievole integrate man mano nel nuovo sistema economico regionale con crescita demografica, economica, sociale, economica.

Era il 24 ottobre 1780 quando Leopoldo emanò lo storico Motuproprio col quale sopprimeva “le leggi proibenti il taglio dei boschi e si dà libertà ai possessori di tagliare detti boschi e qualunque sorta di piante di loro pertinenza senza chiedere alcuna licenza”. Questa liberalizzazione per favorire gli usi agricoli resse per oltre un secolo abrogando ogni vincolo forestale. Tutti erano liberi di tagliare i propri alberi fino a distruggere intere aree verdi per ricavarne soprattutto legnami per costruzioni e per estendere città, per i rifornimenti di carbone e per aprire radure ai coltivi e ai pascoli. Ma rendeva anche molto più fragili i versanti collinari e montuosi con rischi di alluvioni e frane. Ma i tagli furono talmente diffusi che due anni dopo il Motuproprio, nel 1782, l’Accademia economico-agraria dei Georgofili – fondata nel 1753 come prima istituzione al mondo con esperti e studiosi chiamati a “condurre a perfezione l’Arte tanto giovevole della toscana coltivazione” e alla quale il Granducato affidava studi e soluzioni, bandì un concorso per il miglior progetto per: “Indicare la maniera più facile e meno dispendiosa di rivestire di piante o ridurre a coltura le nostre Montagne nude e spogliate, incolte e sassose”.

Pietro Leopoldo nel gennaio 1790 salvò almeno i sacri boschi di Camaldoli ordinando la “conservazione delle macchie e la loro riproduzione”. Firmò anche la “Notificazione circa il buon mantenimento della foresta di Santa Maria del Fiore”, l’atto costitutivo delle Foreste Demaniali Casentinesi allora di proprietà della Chiesa e oggi splendido Parco Nazionale. E arricchì Firenze di uno stupendo gran parco cittadino, un vasto triangolo verde che dall’ultima cerchia delle mura proseguiva per più di tre chilometri fino alla confluenza col Mugnone: le Cascine. La storia del polmone verde era iniziata con l'acquisto di terreni in riva destra da parte del duca Alessandro de’ Medici nel 1536 per farne tenuta agricola e riserva di caccia. Si chiamava allora “Tenuta dell'Isola” o “Cascine dell’Isola” e gravitava su un isolotto circondato da rami dell’Arno. Il Granduca lo volle come parco per il “pubblico passeggio” e nel 1780 i suoi architetti Paoletti e Manetti inserirono arredi neoclassici come la Piramide, la Fonte di Narciso, la piscina delle Pavoniere, la Palazzina Reale.

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Leopoldo affidò al geniale gesuita Leonardo Ximenes, il religioso trapanese approdato a Firenze nel 1748, astronomo, matematico, cartografo, fisico, meccanico, idrologo e progettista dei più grandi lavori di bonifica, il risanamento della Val di Chiana, della palude intorno al lago di Massaciuccoli e al lago-padule di Bientina dove costruì il Canale Imperiale. Realizzò un capolavoro di ingegneria idraulica lungo la costa maremmana malarica nella zona del lago di Castiglion della Pescaia, con un risanamento e un riassetto testimoniato oggi dall'imponente “Casa Rossa”, la “Casa Ximenes” sede di un bel museo multimediale.

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In quella zona fece realizzare nel 1768 anche il primo acquedotto. E un’altra spettacolare testimonianza lorenese è l’acquedotto che riforniva Livorno chiamato leopoldino, iniziato dal collaboratore di Ximenes Giuseppe Salvetti, e completato dall’architetto Pasquale Poccianti con il percorso delle condutture come una monumentale passeggiata dalle sorgenti ai margini della città attraverso casotti d'ispezione e tre grandi serbatoi: il Cisternino di Pian di Rota, la Gran Conserva o Cisternone ancora funzione, e il Cisternino di città.

 Ma anche Firenze aveva sete d’acqua bona. Dopo il primo acquedotto dei Romani voluto da Cesare e distrutto dalla calata dei Visigoti, si serviva da migliaia di pozzi, qualche serbatoio e cisterna, poche condutture da qualche sorgente collinare. Insufficienti per una popolazione granducale che cresceva e non voleva solo ammirare zampilli delle fontane più belle come quella del Nettuno in piazza Signoria commissionata da Cosimo I de' Medici e portata a termine nel 1559 realizzata soprattutto in prezioso marmo di Carrara, il più bianco di tutti, e chiamata “Biancone”. I Lorena non realizzarono un vero acquedotto, anche se alla fine convinsero tutti a chiamarlo così, ma un deposito di acqua potabile, la “Torre del Maglio”, situata lungo le mura, presso la porta a San Gallo, che raccoglieva l’acqua incanalata da Pratolino che, scrisse Giuseppe Conti raccontando la Firenze di allora “a quei tempi era tenuta in conto più dell’acqua benedetta”.

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Era imponente e a forma piramidale, e diramava poche tubazioni centrali con allacciamenti secondari che passavano sotto terra o sulle mura cittadina per rifornire l'Arcispedale di Santa Maria Nuova, qualche fabbrica regia e opifici privati, e poco altro. Non bastava. E l’acqua che si raccoglieva o che si tirava su dai pozzi era abbastanza rivoltante. Le proteste divennero talmente insistenti che spinsero, nell’estate di caldo africano del 1787, il granduca al gesto simbolico di rifiutare la proposta di una statua equestre in suo onore e di stornare i fondi ad un progetto che rifornisse “Firenze di buona acqua da bevere”, ma non ne sortì nulla.

Nel 1782 iniziarono almeno grandi lavori di “riattamento, e ripulitura delle piazze, strade, fogne, e simili” svolti in gran parte, come da regola imposta dal Granduca, dai carcerati che altrimenti “non sono utili né a sé, né alla società, vivendo neghittosi nell'oscurità di una prigione”. A loro fu concessa persino “una giusta mercede”, ed erano sottoposti al ad una rigida sorveglianza durante le ore di lavoro per evitare che potessero ”involarsi”. Dalle celle uscivano scortati e incatenati a coppie, portando scope e carretti per raccogliere spazzatura. Erano vestiti alla meno peggio, a volte senza scarpe, ma con giacche di due colori diversi per tipologia di condanna - gialla per gli ergastolani, rossa per le pene minori - e con in bella vista sulle spalle la scritta del reato commesso: “Furto”, “Omicidio”, “Resistenza alla pubblica forza”...

Consegnò all’Ottocento una Toscana più moderna, rifondata sulla proprietà terriera con la mezzadria e il libero mercato agricolo, con leggi e coraggiose riforme. La morte di Giuseppe II, il 20 febbraio 1790, impose però il trasferimento di Pietro Leopoldo a Vienna da imperatore. Lasciò l’intera Toscana come un cantiere aperto, laboratorio di riforme e nuove legislazioni.

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Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.