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Altro che Salva Milano, abbiamo bisogno di un Salva Abitare
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Con le inchieste in corso e il cosiddetto Salva Milano bloccato ora al Senato, ha del tragico quanto accade da un anno a questa parte. È tragico vedere norme ad hoc con corsie preferenziali che rischiano di diventare un boomerang in molti altri luoghi sul fronte della pianificazione urbanistica; è tragico il contemporaneo silenzio assordante sulla cosiddetta emergenza casa, che ormai è diventata un buco strutturale: le politiche abitative sono scomparse dall’azione politica pubblica e di welfare sociale.
Il diritto ad uno spazio dove abitare è un bisogno di ognuno talmente evidente che si stenta a capire come uno Stato democratico possa non occuparsene; come possa non occuparsi di una condizione certificata: l’Istat stima come nel 2023 siano 2,2 milioni le famiglie in povertà assoluta, quasi 5,7 milioni di persone, e 2,8 milioni le famiglie in povertà relativa per un totale di 8,4 milioni di persone. Queste famiglie vivono in case spesso decadenti. Case fatiscenti che consumano molto, difficili da scaldare, impossibili da raffrescare. Scontato dire che sono abitazioni prive di un qualsiasi intervento di efficienza energetica. Case povere che rendono sempre più poveri.
È evidente come sia necessario tenere insieme temi solo apparentemente distanti. Sono stati 39.000 gli sfratti emessi nel 2023, prevalentemente per morosità. Una situazione drammatica che si è agganciata all’altra dinamica che sta travolgendo le nostre città: gli affitti brevi che stanno svuotando i centri storici con fenomeni di gentrificazione alimentati dall’overtourism.
Numeri e fenomeni che confermano una necessaria connessione di senso: la battaglia per la giustizia climatica e la giustizia sociale sono strettamente intrecciate, e quando si allontanano generano mostri. È successo con il superbonus, misura assolutamente condivisibile nei suoi fini di efficientamento energetico del patrimonio abitativo ma che, sganciata da ogni proporzionalità del reddito e nonostante il meccanismo della cessione del credito, ha favorito soprattutto chi già aveva, e non ha toccato affatto l’edilizia pubblica né quella popolare.
Il punto di partenza di ogni riflessione sulla casa nel 2025 deve necessariamente tener conto che non è più possibile ragionarne come spazio a sé, ma come spazio inserito nei luoghi, nei territori, nelle aree urbane all’interno di un processo di rigenerazione sociale oltre che edilizia. Il recupero della città pubblica deve guidare i processi di rigenerazione urbana, attraverso interventi regionali e comunali per la riqualificazione della periferia e la messa in sicurezza del territorio dai rischi del cambiamento climatico con l’obiettivo di generare lavoro, reddito ‘buono’ e inclusione sociale.
Nell’ultimo anno è nato il Social Forum dell’Abitare, un network di associazioni e movimenti che propone tra le altre cose un programma di manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio pubblico e degli insediamenti di edilizia popolare, favorendo la coesione e l’integrazione funzionale dello spazio abitabile per evitare l’insorgenza dei fenomeni di esclusione e ghettizzazione; un piano pluriennale per l’efficientamento energetico che coinvolge abitanti e risorse locali con programmi di formazione professionale nei profili dell’energia rinnovabile e dell’edilizia ecosostenibile.
Di questo dovrebbe occuparsi il Parlamento, anche sulla scorta di quanto deciso in Europa, dove – tra direttiva case green e piano per la casa – si prospettano scadenze da rispettare ed obiettivi da raggiungere. Ed invece, l’attuale dibattito sulle politiche abitative, ancora una volta utilizza la crisi degli alloggi come volano per interventi urbanistici ad uso e consumo della finanza immobiliare, espropriando sempre più gli abitanti del governo dei territori e delle città e assoggettando la politica ad interessi che tanto pubblici non sono.
Il Piano Casa della Confindustria – che di fatto è il vero Piano Casa di Salvini – intende questo quando parla di “rigenerazione urbana”. Ecco perché sarebbe importante che il Parlamento promulgasse finalmente una legge sulla rigenerazione urbana definendone obiettivi, limiti, funzioni sociali e soprattutto distinguendola da ciò che è, seppur a norma di legge, speculazione edilizia ed interesse privato. Occorre una legge che disegni la visione necessaria per il futuro di città che dovranno essere a zero emissioni, contro la povertà e a sostegno dei più fragili, con piani di adattamento al mutamento climatico basati sul ripristino della natura, in cui le zone 30 siano la prima misura di sicurezza per una popolazione sempre più anziana e bisognosa di spazi verdi per resistere alle ondate di calore. Città in cui il tema dell’accessibilità agli spazi, del cohousing, del recupero dell’edilizia pubblica e popolare tenga insieme vecchi bisogni (la casa) con nuovi diritti (un abitare di qualità). Se questa legge ci fosse stata non avremmo avuto bisogno di un Salva Milano, perché si sarebbe chiarito che distruggere 2 piani e ricostruirne 10 non è rigenerazione e che quindi nessuna semplificazione procedurale aveva diritto di esistere.
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