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L’intervista all’europarlamentare ambientalista del Pd, Annalisa Corrado

Con la nuova maggioranza Ursula l'industria europea rinascerà dal Green deal

«Servono investimenti comuni per la transizione verde e sociale, le destre si battono facendo un progetto politico ampio»
 |  Green economy

Nell’Europarlamento che ieri ha portato alla ri-elezione alla presidenza della Commissione Ue di Ursula von der Leyen, senza l’appoggio dell’estrema destra ma con quello di Ppe, S&D, Liberali e Verdi – e con un prudente plauso arrivato dalle associazioni ambientaliste –, nella squadra dei Socialisti e democratici ha votato a favore anche un’italiana che ha fatto dell’ambientalismo scientifico il suo marchio di fabbrica: Annalisa Corrado.

Ingegnera meccanica con un dottorato in Energetica e con una lunga storia intessuta di sostenibilità alle spalle, tra Kyoto club, GreenHeroes e non solo, Corrado è stata eletta grazie a circa 50mila preferenze raccolte insieme al Partito democratico nel collegio del nord-est.

Titolare nella commissione Envi (Ambiente) e sostituta in Itre (energia e industria), Agricoltura e Petizioni, Corrado si presenta a Strasburgo con una collocazione trasversale ai principali fronti aperti dello sviluppo sostenibile, che le darà la possibilità di declinare in Europa il ruolo che già ricopre a livello nazionale, ovvero responsabile Conversione ecologica nel Pd a guida Elly Schlein.

Intervista

L’assalto delle forze di estrema destra alle istituzioni europee, che sembrava un rischio più che concreto in campagna elettorale, è definitivamente naufragato con la nuova maggioranza Ursula?

«Naufragato è una parola grossa, dato che le destre (anche estreme) hanno conquistato un’ampia rappresentanza all’Europarlamento, anche se non così ampia come mostra la “maggioranza Ursula”, che si è anzi tirata dentro i Verdi europei proprio per le ambizioni promesse sul Green deal e sulla maggiore apertura ai temi sociali, che sono anche i punti che chiedevamo come gruppo dei socialisti e democratici europei. In questi giorni ci sono state interlocuzioni molto intense, von der Leyen ha aperto anche a un Commissario Ue per la casa e l’abitare – un altro tema per noi sensibile – e sul Green deal ha alzato ulteriormente le rassicurazioni. Al contrario, in Aula l’estrema destra ha inveito in modo spaventoso contro la transizione ecologica».

Per la rielezione a presidente della Commissione Ue sono stati fondamentali i voti dei Verdi, ma dal Green deal la von der Leyen è passata all’annunciare una proposta di Clean industrial deal entro 100 giorni: cosa cambia?

«Nel suo discorso all’Europarlamento ha insistito molto sulla necessità di sostenere le Pmi nella transizione ecologica, così come che sul fatto che finora il Green deal ha impostato la rotta ma è rimasto carente in termini di una strategia industriale che lo renda concretamente attuabile sulla base di tecnologie frutto di una filiera europea. L’obiettivo ora è di essere protagonisti industriali della transizione, la nuova industria europea nascerà dal Green deal.

Si tratta di uno sviluppo molto interessante, perché inizialmente si parlava del “industrial act” – che volevano i Popolari – in contrapposizione al Green deal, ipotizzando una risposta conservatrice all’ambizione che crediamo, invece, necessaria anche per la competitività europea a livello internazionale. Nel corso delle trattative siamo invece riusciti, fortunatamente, a trasformare la proposta in uno degli assi portanti della transizione ecologica».

Adesso quali sono i tempi e i passaggi d’insediamento per la nuova Commissione europea?

«I nuovi commissari arriveranno in audizione a settembre nelle varie commissioni europarlamentari, ci sarà inoltre la ripartizione delle deleghe, delle risorse e delle competenze. Sarà un momento cruciale. Tra i nomi dei commissari papabili circola ad esempio quello di Teresa Ribeira (ministra spagnola della Transizione ecologica e della sfida demografica, ndr), che sarebbe per noi una garanzia, ma ci sono ancora molti aspetti da negoziare e definire».

Si aspettava il voto contrario a Strasburgo della sinistra di The left, rimasta fuori dalla maggioranza Ursula?

«Direi di sì, storicamente hanno un approccio che non mette al centro la ricerca di collaborazione trasversale con gli altri gruppi europeisti. È una cultura politica più identitaria che di mediazione, lo dico senza accezioni negative».

Anche la sinistra italiana è storicamente portata a dividersi. Da noi si consoliderà mai un campo largo per offrire un’alternativa concreta all’estrema destra che ha individuato nell’ambientalismo il suo nuovo nemico antropologico?

«Elly Schlein si è sempre dichiarata testardamente unitaria, è evidente che le destre si battono facendo un progetto politico ampio e coraggioso dove ciascuno è chiamato a fare un passo indietro come singolo, per fare un passo avanti tutti insieme. Ha sempre interpretato il ruolo di segretaria del primo partito di opposizione in questa direzione, e quando siamo riusciti a concretizzarla abbiamo ottenuto risultati importanti. Come Pd siamo convinti della necessità di una alleanza larga, che parta da temi e proposte condivise, come è  stato per le battaglie per salario minimo, sanità pubblica e autonomia differenziata, ad esempio, dove c’è sempre stata una ricerca di convergenza. I risultati delle elezioni europee hanno premiato, a mio avviso, anche quest’indirizzo, quello di un partito che si mette a disposizione di un progetto politico più ampio».

La neo-eletta von der Leyen ha confermato l’impegno a tagliare le emissioni di gas serra dell’Ue del 90% (rispetto al 1990) entro il 2040: l’Italia col suo Pniec è sulla buona strada?

«Assolutamente no, e non lo è neanche per gli obiettivi al 2030. Il nuovo Pniec è peggiore di quello presentato dal Governo Meloni lo scorso anno, che già come Pd avevamo tacciato d’inconsistenza; non l’hanno mai posto all’esame del Parlamento, non c’è neanche stato modo di discuterne. Nel Piano adesso hanno inserito anche l’arma di distrazione di massa dell’energia nucleare, che per il nostro Paese in particolare resta uno scenario irrealistico, per costi e tempi completamente incompatibili con la necessità di azione urgente,. Si tratta di un Pniec non solo ampiamente insufficiente, ma che non è neanche armonizzato con gli altri strumenti normativi di settore che la maggioranza Meloni ha messo in campo negli ultimi mesi: penso ad esempio ai decreti Aree idonee e Agricoltura, un affastellamento di vincoli che non semplifica niente e demanda alle Regioni tutti i nodi irrisolti. Mostra un’incapacità di gestire la situazione, perché con gli slogan non vai lontano quando devi gestire la complessità.

Il decreto voluto dal ministro Lollobrigida, ad esempio, finisce per bloccare non solo il fotovoltaico tradizionale con impianti al suolo senza distinzioni, ma anche molte soluzioni impiantistiche avanzate dell’agrivoltaico – come quelle legati ai pannelli bifacciali, o interflilari – vincolandosi solo a quelle più complicate che prevedono pannelli installati molto in alto da terra; lo stesso vale per l’impiego di aree di scarso pregio agricolo o i terreni abbandonati che nessuno si sognerebbe di riportare a coltivazione, che invece potrebbero trovare nuovo impulso grazie al reddito aggiuntivo derivante dalla produzione di energia».

A proposito di nodi irrisolti lasciati alle Regioni, le forze del Governo Meloni e non solo – si pensi alla moratoria sarda – continuano a contrapporre lo sviluppo degli impianti rinnovabili con la difesa del paesaggio: cosa ne pensa?

«L’assenza di strategie nazionali e di conseguenti pianificazioni territoriali solide e partecipate  porta spesso a esasperare le percezioni spalancando le porte alla sindrome Nimby, perché quando la complessità non la gestisci poi esplodono i conflitti anche dove non dovrebbero esserci. L’impegno del Pd per la Sardegna è sempre stato quello di fare molto velocemente un riassesto del piano energetico per procedere poi con determinazione – la moratoria indica 18 mesi come limite massimo, non come obiettivo – con l’installazione ordinata e coordinata degli impianti rinnovabili: l’obiettivo che abbiamo condiviso nel programma elettorale è per la decarbonizzazione totale dell’isola entro il 2040, dicendo dunque no a nuovi metanodotti».

Tra le priorità indicate da Legambiente c’è Fondo europeo per gli investimenti green e sociali post-2026 con una dotazione di almeno 1.000 miliardi di euro. Una sorta di NextGenerationEu 2.0. Pensa sia una strategia concretizzabile?

«Anche il Pd ha chiesto che si continui nel solco del NextGeneretionEu per rendere possibile una giusta transizione:, sicuramente la strada indicata da Legambiente è quella giusta. La messa a terra del Green deal non si fa certo con l’austerità, soprattutto in un Paese come il nostro; occorre dunque ampliare il bilancio europeo, anche tramite una riforma fiscale che punti a recuperare risorse dall’elusione messa in atto dalle multinazionali che si avvantaggiano delle distorsioni ancora presenti in Ue perché non abbiamo una politica fiscale comune. Su questo fronte è importante il richiamo fatto ieri dalla presidente von der Leyen sulla necessità di riformare i Trattati: il funzionamento dell’Europa necessita di un salto di qualità, che per noi significa anche approdare a un’unione fiscale che liberi risorse per investimenti comuni attraverso un’imposizione fiscale progressiva, giusta, verde e condivisa tra i vari Paesi Ue».

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Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.