Avanza il nuovo negazionismo climatico, dalle fake econews al boicottaggio politico dei piani contro gas serra e per l’adattamento
“Il nostro Paese comincerà a intiepidirsi in un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio Giulio Cesare, circa duemila anni; quel che è certo è che credo sia inutile agitarsi troppo perché un po' di tempo ce l'abbiamo”.
Così parlò Silvio Berlusconi, da Presidente del Consiglio del suo primo governo. Era il 1994, ma sembra il 2024. Un po’ perché Silvione è sempre tra noi, non sfigura dai manifesti formato 6x3 e lo possono persino votare in questa campagna elettorale, dove la questione climatica è semplicemente scomparsa – salvo rare eccezioni – per calcolo miope, per quel delirio di onnipotenza che stavolta colpisce le nostre destre di governo, che radono al suolo come uragani piani europei e nazionali con misure di contrasto agli effetti della crisi climatica, allergiche alle transizioni energetiche ed ecologiche.
Un po’ di “agitazione” in più nei tre decenni alle nostre spalle avrebbe permesso di attivare azioni di difesa per il nostro pianeta e per noi stessi e per chi verrà dopo di noi. Ma tant’è, il clima in materia di clima è questo.
Do you remember Dubai?
L’ultimo change planetario è stato solennemente annunciato nella tarda mattinata del 13 dicembre del 2023 in una rovente Dubai a 30 gradi di temperatura, dove il caldo stava sciogliendo anche l’ultima speranzella di un accordo nel 28esimo summit mondiale dell’Onu sul clima.
Ma al fotofinish, mentre i bookmakers delle mega assemblee delle Nazioni Unite – erano 70.000 i partecipanti – puntavano tutte le loro fiches sull’ennesimo flop, fu coupe de theatre.
Risuonò in sala la leggendaria “transizione dalle fonti fossili” annunciata dal sultano Al Jaber, la cui nomina alla presidenza della Cop28 aveva fatto storcere il naso a scienziati e ambientalisti, soprattutto dopo l’imbarazzante video negazionista scovato dal Guardian dove sosteneva che “è da cavernicoli fuoriuscire dall’era fossile”.
Annunciò l’epica svolta sulla quale nessuno avrebbe scommesso un Dirham e, a nome di tutti i 197 Paesi, soprattutto dei grandi emettitori di gas serra – Cina, Stati Uniti, Ue, India, Russia e Giappone –, lesse l’impegno sottoscritto anche dall’Italia ad “abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere le emissioni zero entro il 2050 in linea con la scienza… ad accelerare le tecnologie a zero e a basse emissioni, tra cui energie rinnovabili, nucleare, tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori difficili da abbattere, e la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio… a triplicare la capacità di rinnovabili e a duplicare gli sforzi per l’efficienza energetica”.
Il tempo dell’applauso liberatorio e dei pollici alzati in segno di vittoria, da John Kerry inviato Usa per il clima all’omologo cinese Xie Zenana, alla spagnola Teresa Ribeira ministro per la transizione ecologica e inviato speciale Ue per il clima, ed è finita al momento come dopo l’Accordo storico di Parigi del 12 dicembre 2015, che impegnava tutti a contenere l'aumento della temperatura globale entro fine secolo a 1,5 gradi in più sulla media del periodo preindustriale 1850-1900.
Ad Al Jaber andrà comunque bene poiché oltre ad essere ministro e Ceo della Abu Dhabi National Oil Company del settimo Paese al mondo per produzione di petrolio ed emissioni di gas serra procapite, è anche fondatore e Ceo dell’Abu Dhabi Future Energy Company, ovvero della seconda più grande azienda di rinnovabili del mondo, con mega investimenti per 15 miliardi di dollari in 40 Paesi, con gli impianti solari più grandi del mondo.
Andrà sicuramente bene a tanti altri che continueranno a estrarre carburanti fossili e ad investire quanto basta in rinnovabili. Cosicché, il riscaldamento globale continuerà senza freni, e se a fine secolo l’aumento di temperatura previsto dall’Ipcc, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici dell’Onu, ormai oscilla tra più 2,5 e più 2,9°C, la linea rossa degli insuperabili e catastrofici 1,5 gradi in più sarà superata già dal 2034, vista l’impennata delle emissioni globali di gas serra dell'8,8% sul 2010.
L’effetto del pianeta che brucia un record di calore via l’altro, a chi interessa? Il 2023 l’anno più caldo e più catastrofico della storia dell’umanità e il 2024 che confermerà il trend, importa a qualcuno? I grandi emettitori di gas serra che non si sognano nemmeno di effettuare i tagli promessi – meno 45% entro il 2030 con target net zero entro il 2050 –, e di triplicare la potenza delle rinnovabili e raddoppiare l'efficienza energetica entro il 2030, non sono un problema?
Il neo-negazionismo istituzionale
In questo brutto clima, avanza il negazionismo del terzo millennio. I professionisti delle ecofake cambiano pelle e strategia.
Hanno capito che continuare a lanciare e rilanciare le solite bufale è una battaglia largamente perduta su campi minati da una tale escalation di catastrofi meteoclimatiche da ridicolizzare ogni penoso tentativo di disinformazione.
Insomma, non è più tempo di paranoie antiscientifiche e di argomenti irrazionali buoni solo per farsi umiliare. Cosicché, dopo averle sparate sempre più grosse per circa 25 anni, oggi non provano più a far passare il riscaldamento globale in corso come un'opinione tra le tante, e nemmeno alle big oil conviene spargere informazione-spazzatura nel cortile social e mediatico per coprire il big problem, perché la realtà è un boomerang sulle teste di tutti.
A che serve poi reclamare la distorta “parità delle ragioni” che ha regalato il 50% degli spazi televisivi e su altri media anche a chi era fuori di senno? Non è più tempo di ignobili attività di depistaggio a la carte, come ad esempio quelle della Exxon per sgonfiare il Protocollo di Kyoto, come rivelò il New York Times, nonostante avesse tra le mani report micidiali sull’effetto serra causato anche dalle loro attività.
Vanno in pensione anche i reduci del primo negazionismo e gli smanettoni successivi con batterie di falsi profili social che sparano ancora balle spaziali su vari fronti.
Ormai, a far fallire le soluzioni per ridurre le emissioni di CO2, ci pensano direttamente i piani alti dei governi. L’exit strategy dei neo-negazionisti è lasciar fare al più concreto boicottaggio dall’interno delle istituzioni, i freni che ritardano l’essenziale decarbonizzazione, lasciando in pace i vecchi inquinanti business.
A bloccare le transizioni energetiche ed ecologiche, molto più concretamente, ci pensano i negazionisti istituzionali, politici e burocrazie che depotenziano ogni accordo. Dalle guerriglie web, siamo ai passi felpati nei corridoi con porte sempre aperte di assessorati e ministeri, dove la parola d’ordine è quel “Sopire, troncare…troncare, sopire…”, del conte zio nei Promessi Sposi.
Le old economy più climalteranti si preservano ritardando ogni scelta green, pur sapendo che le nostre big italiane – da Enel a Leonardo, da Terna a Eni alle utility di servizi pubblici e il fior fiore delle imprese della green economy – potrebbero fare la differenza in pochi anni nella protezione climatica e nel boom delle rinnovabili, nelle tecnologie e nelle infrastrutture di difesa da catastrofi e da altri guai.
La nuova tattica è indebolire la fiducia nelle soluzioni
Questa svolta al contrario, con l’Italia tra i paesi oggi più impegnati a svoltare verso il passato, è stata analizzata dai ricercatori no-profit del “Center for Countering Digital Hate” nel “The New Climate Denial” dove rilevano che le «narrazioni che mirano a indebolire la fiducia nelle soluzioni” superano sui social ormai il 70% dell’intero negazionismo climatico.
Su YouTube, per dire, l’analisi del “New Denial” eseguita da CARDS - tecnologia di intelligenza artificiale sviluppata da Travis Coan e Mirjam Nanko (università di Exeter), Constantine Boussalis (Trinity College Dublin), John Cook (università di Melbourne) - ha identificato l’onda montante della nuova tattica analizzando 4.458 ore di trascrizioni da video su 96 canali della piattaforma.
La sfiducia è virale, con “comportamenti nocivi” anche su X, TikTok e Facebook, alimentata da fake-econews sparate contro soluzioni per l’adattamento climatico, supportate da aree politiche e settori industriali che riescono a paralizzare gangli di pubbliche amministrazioni, frenando procedure in corso, facendo rinviare e disattivare progetti, ritardando l’azione politica di per sé già parecchio lenta.
Se la “finestra” dei prossimi 10 anni è definita strategica dagli scienziati per salvare il Pianeta e noi stessi da catastrofi ancora peggiori, i “New denial” fanno girare le nuove ecofake ad esempio contro le tecnologie per le rinnovabili allarmando gli ignari perché “non funzionano e non funzioneranno”, contro l’energia pulita perché “costa troppo” e “produrrà disoccupazione e crack finanziari e rincari“, contro “piani clima che servono solo per privatizzare”.
Diffondere sfiducia nelle azioni funziona più dei classici “macché caldo, andiamo verso un’era glaciale”, ormai crollati nei like. E le nuove tattiche metastatizzate aumenteranno i ritardi già clamorosi, documenta anche il “Deny, deceive, delay: documenting and responding to climate disinformation at COP26 and beyond”, dell’Institute for strategic dialogue con Climate action against disinformation.
Analizzando la nuova disinformazione climatica prima, durante e dopo la Cop26 di Glasgow del 2021, preceduta da 6 anni di aumenti di emissioni gas serra dopo l’accordo storico per ridurle della Cop 2015 di Parigi, avvertono che ogni volta che qualcosa sembra cambiare – a Parigi persino 10 big del gas e petrolio europei siglarono il “patto per il clima” con Eni, BG group, Bp, Pemex, Reliance Industries, Repsol, Saudi Aramco, Shell, Statoil e Total per una nuova strategia comune su riduzione di emissioni e metano –, c’è chi frena e anzi sabota.
1400 progetti per energia rinnovabile bloccati in Italia
L’Italia fa scuola. A fermare le rinnovabili sono in tanti, una grande coalizione di frenatori con comuni, regioni, ministeri, soprintendenze, Tar, Consiglio di Stato e chiunque abbia una qualche competenza procedurale in materia paesaggistica e ambientale. Legambiente calcola non a caso almeno 1400 impianti per rinnovabili bloccati da veti e burocrazie, frutto della fusion tra le storiche aree NIMBY dei “non nel mio cortile” e le aree NIMTO di amministratori pubblici del “No all’impianto durante il mio mandato”. Da una quindicina di anni almeno, è accanimento contro pale eoliche a partire da quelle off shore, idrogeno verde, colonnine per ricarica di auto elettriche, pannelli solari nei centri storici o in aree urbane nemmeno storiche o in aree degradate e a ridosso di aree agricole.
Meglio buttare la palla sugli spalti, sognando il nucleare “pulito” per superare i carburanti fossili – assimilato ormai dall’Ue alle energie sostenibili e non climalteranti e citato nell’accordo sul clima a Dubai –, anche se la tecnologia vedrà la luce forse tra due o tre decenni quando ormai sarà troppo tardi per limitare i danni.
Green Deal? Chi l’ha visto?
I negazionisti di casa nostra si distinguono poi nel minare la strada dell’applicazione del “Green Deal” europeo. Dal governo e da aree di opposizione bollano le misure europee come “eco-balle”, “eco-follie”, “ambientalismo ideologico”, “condanna alla decrescita infelice”, “incompatibili con i nostri modelli industriali”, “obiettivi irraggiungibii”.
E giù con “no alle case green a tutela dei proprietari di immobili” e quindi non si vota l’Energy performance of buildings directive per il parco immobiliare a emissioni zero entro il 2050 al 2030 al 16%, niente sostituzione delle caldaie a metano ai 2040, no alla direttiva per il blocco della produzione di auto a motore endotermico dal 2035 e stop al rilancio dell’automotive facendo così finire le nostre imprese fuori strada e fuori mercato.
Si può discutere a lungo su una certa propensione all’autolesionismo della Commissione Ue, sulla scarsissima comunicazione delle immense opportunità delle supermisure superfinanziate, e anche sul perché sono state percepite solo come costose e impopolari in Italia. Ma vedere il 63% delle azioni previste dal Green Deal bloccate o ritirate è puro autolesionismo.
Se usato bene e comunicato meglio, il Green Deal è la nostra salvezza. E l’Unione in fondo è stata la prima area del Pianeta a imporre la riduzione delle emissioni nette di gas serra entro il 2030 del 55% rispetto al 1990, per la neutralità climatica entro il 2050. Sul piatto sono stati messi 1.000 miliardi di euro per la transizione ecologica, anche delle imprese, con il Next Generation Eu.
L’Italia avrebbe poi l’obbligo, con il Pnrr con più fondi europei, di accelerare e aprire scenari di riduzione di CO2 con uno sforzo senza precedenti. Ma ancora non c’è il portale di condivisione dati del Pnrr che arranca parecchio, e basta vedere che fine ha fatto finora pil “Piano dei Piani” per l’adattamento ai cambiamento climatico, il Pnacc, approvato senza nemmeno una conferenzina stampa e rimasto nel cassetto.
Sarebbe un’ottima piattaforma di partenza per l’Italia, ma non lo tirano fuori perché non c’è traccia di governance e nemmeno piani finanziari, e così perderemo altre annate buone per difenderci dalla crisi climatica. Come per la Strategia nazionale di sviluppo sostenibile predisposta dal ministro Giovannini del Governo Draghi nel settembre 2023, approvata e ormai disattivata.
Perdiamo occasioni e miliardi di finanziamenti e competitività? Lasciamo la narrazione negazionista del Green deal di avere un bastone tra le ruote dello sviluppo e delle imprese italiane? Se nel 2021 abbiamo installato 1,5 GW di nuovi impianti da rinnovabili, nel 2022 circa 3 GW e nel 2023 quasi 6 GW, abbiamo l’obbligo di raddoppiarli portandoli almeno a 12 GW l’anno, come calcolano non solo gli ambientalisti ma anche Elettricità Futura di Confindustria, che bolla come del tutto insufficiente il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima del governo.
In conclusione, siamo sempre lì, si torna a Silvione. Inutile “agitarsi” troppo. Peccato solo che il tempo passa, e che per difenderci ne abbiamo sempre meno.