
La guerra alla scienza di Trump è arrivata alla Iea, che riapre all’upstream di gas e petrolio. Non basta negare la realtà per farla sparire: per fermare la crisi climatica bisogna lasciare i combustibili fossili nel sottosuolo e aumentare le rinnovabili

Houston, abbiamo un problema: nella città Texana è in corso l’edizione 2025 della conferenza energetica di alto livello CeraWeek – organizzata da S&P Global –, dove ha preso la parola il direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), Fatih Birol, lasciando di stucco la platea.
Birol ha infatti affermato che «c’è bisogno di investimenti nell’upstream di petrolio e gas, punto e basta». Noto anche come “esplorazione e produzione (E&P)”, il settore upstream comprende la ricerca di potenziali giacimenti, la perforazione di pozzi esplorativi e lo sviluppo di impianti per i siti commercialmente più convenienti.
Lo stupore deriva dal fatto che, ormai sin dal 2021, la Iea afferma che il percorso globale per arrivare ad azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050 – e rispettare così l’Accordo di Parigi, contenendo il surriscaldamento del clima a +1,5°C – comporta lo stop all’upstream: «Oltre ai progetti già avviati nel 2021, nel nostro percorso non ci sono approvazioni per lo sviluppo di nuovi giacimenti di gas e di petrolio e non sono necessarie nuove miniere di carbone o ampliamenti delle miniere già in uso». Ovvero, tutti i combustibili fossili contenuti in nuovi giacimenti devono restare dove sono, nel sottosuolo.
Un concetto ribadito nel settembre 2023 sempre da parte della Iea, che anche nell’ottobre 2024 affermava: «La domanda di tutti e tre i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) raggiungerà comunque il picco entro la fine del decennio».
Nell’ambito della comunità scientifica di riferimento sappiamo da tempo che, per limitare il riscaldamento a +1,5°C, non solo non sono necessari nuovi progetti upstream, ma almeno i due terzi delle riserve conosciute di combustibili fossili dovrebbe restare sotto terra per porre un freno al cambiamento climatico. Una consapevolezza che era infine maturata e consolidata anche all’interno della Iea, che è l’Agenzia internazionale fondata dall’Ocse dopo lo shock petrolifero del 1973 e composta ad oggi da 32 Paesi membri.
Non occorre un indovino per capire i motivi che sottendono oggi la brusca retromarcia di Birol. Come evidenzia anche la Reuters, la dichiarazione «allinea l’organismo di controllo dell'energia per le nazioni industrializzate al programma pro-trivellazioni del presidente Donald Trump, dopo essere stato messo sotto pressione anni fa dai sostenitori dei combustibili fossili per aver proposto di porre fine ai nuovi progetti di petrolio e gas […] Negli ultimi anni, Birol ha subito pressioni da parte dell’amministrazione Trump e dei colleghi repubblicani del presidente al Congresso affinché la Iea spostasse l'attenzione».
Al momento si tratta di un commento proferito durante una conferenza, e non si ritrova all’interno di alcun documento ufficiale della Iea. Ma la nuova rotta è chiara: l’Agenzia è messa sotto scacco dal presidente Usa, nell’ambito della guerra alla scienza che sta già falcidiando migliaia di ricercatori negli Stati Uniti e che evidentemente si allarga adesso anche agli organismi internazionali sui quali la presa Usa è molto salda.
Ma i fatti hanno la testa dura, e non basta negare la realtà per farla sparire come per magia. Rallentare il percorso di decarbonizzazione non farà che aumentare i costi e le vittime della crisi climatica, impiccando nel mentre famiglie e imprese a costi dell’energia crescenti, anziché fare affidamento sulle più economiche fonti rinnovabili. Al contempo, chi saprà resistere alla buriana in corso potrà contare su un maggiore vantaggio competitivo rispetto ai competitor. Non è una consolazione, ma anche in questo caso si tratta di un dato di fatto con cui tutti siamo chiamati a fare i conti.
