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È il Trump day e dopo i Paperoni del tech, i principali istituti di credito e il più grande fondo investimenti al mondo, anche la Banca centrale statunitense sale sul carro del vincitore tirandosi fuori dall’alleanza globale per la finanza sostenibile

 |  Editoriale

Oggi Donald Trump si insedia come 47esimo presidente degli Stati uniti e prima ancora che si consumi la cerimonia ufficiale di Washington, prima ancora che si capisca se effettivamente il tycoon sarà in grado di tener fede alla promessa fatta in campagna elettorale di aumentare la produzione nazionale di petrolio di 3 milioni di barili al giorno e di cancellare le politiche pro-rinnovabili dell’amministrazione Biden, l’alleanza globale contro i cambiamenti climatici perde in America un altro pezzo da novanta. Dopo i miliardari tech Bezos e Zuckerberg, lesti a salire sul carro del vincitore insieme a Musk, e dopo che il più grande gestore patrimoniale al mondo (BlackRock) e le sei più grandi banche statunitensi (da JpMorgan a Bank of America a Goldman Sachs) si sono ritirate dalla Net-Zero Banking Alliance (Nzba), che è il gruppo dei maggiori istituti di credito impegnati negli obiettivi sul clima delle Nazioni unite, ora anche la Banca centrale statunitense volta le spalle alla battaglia per la decarbonizzazione. 

Con impeccabile tempismo, la Federal reserve (Fed) ha fatto sapere di essersi ritirata dal Network of central banks and supervisors for greening the financial system (Ngfs), una coalizione globale di banche centrali attiva dal 2017 nella lotta ai cambiamenti climatici. La motivazione ufficiale comunicata dalla Fed è racchiusa in una nota tanto laconica quanto evidentemente reticente circa le reali motivazioni che hanno portato a questa decisione: «Sebbene il Consiglio abbia apprezzato l’impegno con il Ngfs e i suoi membri, il lavoro del Ngfs si è sempre più ampliato, coprendo una gamma più ampia di questioni che esulano dal mandato statutario del Consiglio». 

Non bisogna essere chissà quanto inclini al pensar male di andreottiana memoria per capire che con questa mossa i vertici della Fed sperano di mettersi in bella luce con Trump e mantenere il posto anche nei prossimi anni. Il capo della banca centrale statunitense, Jerome Powell, anche dopo la vittoria Repubblicana dello scorso novembre ha difeso la politica dei tassi alti per la quale Trump ha sempre mostrato poca simpatia. E a chi gli ha domandato se temesse per la sua poltrona alla luce di un possibile licenziamento da parte del nuovo presidente Usa, Powell ha risposto: «Non è consentito dalla legge». Si sa però come funzionano certe dinamiche, e non a tutti gli osservatori è sembrato troppo convincente lo stesso Trump quando, in un’intervistarilasciata a dicembre, ha rassicurato il governatore della Fed dicendo che non ha alcuna intenzione di attivarsi per una sua sostituzione. Tra l’altro Powell sulla carta è capo della Fed fino a metà 2026, ma la sua posizione nel Consiglio dei governatori della Fed continua fino al 2028. Quello stesso Consiglio che ora ha deciso di dire addio all’alleanza globale per una finanza sostenibile.

La decisione di abbandonare la rete internazionale green ha suscitato ovviamente delusione tra quanti contavano in un approccio attento alla sostenibilità da parte della banca centrale Usa nonostante il passaggio del testimone alla Casa bianca. Sierra club, tra le più antiche e influenti sigle ambientaliste statunitensi, ha diffuso una dichiarazione molto dura contro il nuovo corso della Fed, che rischia di provocare devastanti effetti a catena in ampi settori della finanza globale. «Ogni regolatore finanziario statunitense, compresa la Federal reserve, ha dichiarato chiaramente che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia crescente per la nostra economia e la stabilità finanziaria – ha dichiarato il direttore della campagna per la campagna Fossil-free finance del Sierra Club, Ben Cushing – e questo era vero tre anni fa quando il Consiglio di supervisione della stabilità finanziaria lo ha dichiarato, ed è ancora più evidente oggi, in parte perché la Federal reserve sotto il presidente Powell non ha agito di conseguenza. Gli sforzi dell’amministrazione entrante per negare ed esacerbare la crisi climatica dovrebbero essere una ragione per la Fed per affermare la sua indipendenza affrontando i rischi climatici, e invece sta facendo il contrario. Se la Fed continua a piegarsi alle pressioni politiche ed evitare di agire sul clima, isolerà ulteriormente gli Stati uniti sulla scena globale e metterà l’economia in maggiore pericolo».

Sarà così? O non sarà, invece, che nonostante la molteplicità di dati che sottolineano la maggiore competitività delle tecnologie green, rischia di aprirsi una nuova fase di negazionismo climatico?  Su un piatto della bilancia c’è l’addio della Fed, innegabilmente pesante. Sull’altro c’è il fatto che la Ngfs è una rete di cui fanno ancora parte oltre cento banche centrali e autorità di vigilanza finanziaria che mirano ad accelerare l’aumento della finanza verde e a sviluppare raccomandazioni sul ruolo delle banche centrali in materia di cambiamenti climatici. Ora che la notizia dell’abbandono da parte della Fed è diventata di dominio pubblico, è la stessa Ngfs a diffondere una nota tesa a ridimensionare la portata della vicenda: «L’Ngfs prende atto del ritiro del Consiglio della Federal reserve degli Stati uniti. La Ngfs si rammarica ma rispetta questa decisione di lasciare la “coalizione di volenterosi”. La Fed è stata il 96° membro ad aderire alla rete, tre anni dopo l’istituzione del Ngfs. La Fed non era membro del comitato direttivo Ngfs, né era a capo di alcun flusso di lavoro».

Rimangono nella «coalizione di volenterosi» Ngfs, come si definiscono loro stesse, 143 organizzazioni più o meno grandi presenti in ogni parte del mondo. Sono 143 membri, assicurano, «più determinati, impegnati ed entusiasti che mai». Si vedrà quale piatto della bilancia peserà di più nei prossimi mesi e se dunque si andrà verso l’isolamento degli Usa ipotizzato dal Sierra club o verso un deleterio effetto a catena negazionista che si propagherà anche oltre i confini americani. Ma dopo i brutti segnali che arrivano dagli Stati uniti, si fa fatica a credere che l’entusiasmo dei «volenterosi» effettivamente abbondi.

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.