Non solo Groenlandia: la crisi climatica sta cambiando la geopolitica lungo la rotta artica
Colpisce, ma non troppo, l’affermazione del presidente eletto degli Stati Uniti, che tra pochi giorni assumerà la guida di una delle nazioni più potenti del globo terracqueo, a proposito della Groenlandia: si tratta di una rodomontata o, invece, contiene, “in nuce”, qualche verità che sta per venir fuori?
Per tentare di rendere quanto più chiara possibile l’esposizione che segue, desidero partire dal concetto geografico denominato “proiezione gnomonica” che rettifica tutti i circoli massimi in linee rette; questo effetto viene ottenuto mediante, appunto, la proiezione gnomonica, avente per centro il centro della Terra stessa e che trasforma i meridiani e l’equatore in linee rette.
Da un po' di tempo l’area artica è diventata oggetto di attenzione da parte degli Stati che vi si affacciano: principalmente la Russia che, come noto, è il Paese che esercita la sua sovranità sulla maggior parte delle coste nell’Artico e rappresenta uno degli otto Stati artici con marcati interessi sulla regione, insieme a Canada, Danimarca, Islanda, Stati Uniti (tramite lo Stato dell’Alaska), Finlandia, Norvegia e Svezia.
Chiediamoci perché le cosiddette rotte artiche sono diventate di tanta attualità al punto di spingere a dire, al presidente in pectore degli Usa, che la questione della Groenlandia, con le buone o con le cattive, dovrà essere risolta a favore dell’America?
A grandi linee, possiamo dire che la cosiddetta “rotta artica” comprende numerosi passaggi: la rotta transpolare (Tsr) che è quella che collega l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico, passando in mezzo al Mar Glaciale Artico; il North West Passage (Nwp), in italiano conosciuto come passaggio a Nord-Ovest, che mette in collegamento l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico, passando accanto al Canada e all'Alaska; infine, la Northern Sea Route (Nsr), in italiano conosciuta anche come passaggio a Nord-Est, che mette in comunicazione l’Oceano Atlantico e Pacifico, estendendosi per gran parte della sua lunghezza accanto alle coste russe, partendo dalle parti più settentrionali del Mare del Nord fino a raggiunge il Mare dei Ciukci e lo Stretto di Bering.
Una particolare riflessione viene destata dalle attuali tensioni presenti nel Mar Rosso, causate dagli attacchi Houthi quali conseguenze del conflitto israelo-palestinese ancora in corso, e che ha comportato negativi effetti sul commercio internazionale; per tale ragione, la rotta artica potrebbe costituire un’importante via alternativa per collegare i porti del Nord Europa con l’Asia e l’America, evitando i colli di bottiglia (choke point) di Malacca, Panama e Suez.
Va da sé che questo comporterebbe l’accorciamento e la riduzione delle tratte e dei tempi di percorrenza per le navi mercantili, con immaginabile positive ricadute sulla riduzione dei costi di trasporto marittimo e una consistente riduzione di immissione dei gas di combustione generati dai motori delle navi: l’ambiente ringrazia! La rotta artica, tuttavia, innesca una serie di questioni geopolitiche. Proviamo a tracciarne, a grandi linee, alcuni possibili effetti.
Partendo dalla Russia, che è stato il primo Paese, nel 2001, a chiedere all’Onu di riconoscere i propri diritti sovrani nell’Artico, rimarchiamo il fatto che la Russia, ancor oggi, è l’unico Stato artico a possedere unità rompighiaccio a propulsione nucleare e ciò consente, anche in inverno, il collegamento tra i porti della regione. La recente adesione alla Nato della Svezia e Finlandia, tuttavia, ha consolidato la presenza dell’Alleanza atlantica nella regione artica.
Abbiano già dato un rapido sguardo agli effetti positivi derivanti dall’apertura delle rotte artiche: tempi di percorrenza minori e un impatto positivo sull’ambiente per effetto della riduzione dei gas serra. Adesso occorre porre la nostra attenzione su alcune criticità che potrebbero essere determinate rispetto dalla stessa rotta artica: la percorrenza di queste rotte avrebbe un costo sostenuto in ragione del fatto che, non essendo ancora completamente libere dai ghiacci, diventerebbe necessario usare navi con chiglia rinforzate e rompighiaccio; il clima rigido di quelle aree rende imprevedibili anche i movimenti della banchisa polare e ciò complicherebbe ulteriormente la navigazione stessa.
Occorre anche richiamare il fatto che queste aree marine sono ricche di risorse energetiche e minerarie la cui estrazione sottomarina (deep sea mining) sta dando vita a problematiche ambientali, in termini di inquinamento e di negative ricadute sulla biodiversità, che a nostro avviso, sono meritevoli di ulteriori approfondimenti scientifici.
Recenti studi intrapresi anche in ambito Imo (International Maritime Organization) sono arrivati alla conclusione di dimostrare che la fusione dei ghiacci artici, causati dal cambiamento climatico, consentirebbe di navigare la rotta artica per numerosi mesi all’anno. La Russia ha già annunciato che a partire dal 2024 la navigazione lungo la rotta artica diventerà annuale e nel 2035 diventerà una realtà consolidata. L’Unione europea risulta anch’essa impegnata nell’Artico: da un lato per il proprio approvvigionamento energetico e minerario, dall'altro per cercare di supportare politiche di sviluppo sostenibile.
Nei giorni scorsi, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Palm Beach (Florida, il 7 gennaio 2025) Donald Trump non ha testualmente escluso l'uso della forza militare o economica per prendere il controllo del Canale di Panama e della Groenlandia durante il suo mandato.
Come era ovvio accadesse, questa affermazione ha scatenato reazioni stupite e sconcertate in tutto il mondo, e la debole reazione dell’Unione europea è stata però rincarata dal presidente Emmanuel Macron e dal premier tedesco Olaf Sholz.
È innegabile che Panama e la Groenlandia rivestono entrambe un'importanza geopolitica fondamentale per gli Usa; l'uso della forza però resta al momento un'opzione da escludere e rimane soltanto come un atteggiamento da Rodomonte, anche alla luce del fatto che la Groenlandia fa parte della Danimarca (Paese membro della Nato), e Panama rimane uno Stato sovrano a cui l’omonimo canale venne affidato in gestione, a partire dal 2000, proprio dagli Stati Uniti.