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Gli investimenti, non l’austerity e lo status quo, faranno restare l’Europa un continente sicuro, indipendente, inclusivo e sostenibile: Draghi suona la sveglia ai Paesi dell’Ue

 |  Editoriale

«Senza considerare obiettivi importanti come l’adattamento al clima e la protezione ambientale». L’inciso che Mario Draghi mette in coda al suo ragionamento la dice lunga sugli impegni necessari e urgenti a cui deve mettere mano l’Unione europea. L’ex presidente della Bce, che un anno fa aveva ricevuto da Ursula von der Leyen l’incarico di mettere a punto un rapporto sulla competitività dell’Ue, passati circa cento giorni dalla presentazione del suo lavoro torna sotto i riflettori e suona la sveglia ai Paesi comunitari che sembrano non aver capito fino a che punto sia inderogabile un rapido e drastico cambio di rotta. 

All’inizio di settembre, l’ex governatore della Bce aveva presentato insieme alla presidente della Commissione Ue il report sottolineando il fatto che «servono 800 miliardi di investimenti aggiuntivi, il doppio del piano Marshall» e insistendo sul fatto che è d’obbligo «combinare la decarbonizzazione con la competitività» non solo perché lo si deve fare per contrastare la crisi climatica, ma perché è conveniente: «Se tutte le politiche saranno in linea con gli obiettivi legati al clima, la decarbonizzazione sarà certamente un’opportunità per la crescita». 

Il problema è che da allora, a livello comunitario come a livello dei singoli governi nazionali, i segnali giunti da Bruxelles e dalle principali capitali europee non sono stati incoraggianti, né sul fronte delle politiche inerenti al Green deal né sul fronte degli impegni per sostenere crescita e competitività rispetto ai due giganti commerciali rappresentati da Stati Uniti e Cina. La dicono lunga, in questo senso, gli esempi del rinvio di un anno per l’entrata in vigore del regolamento contro la deforestazione e i movimenti dei partiti conservatori per far slittare a dopo il 2035 lo stop alla vendita di auto con motori alimentati con combustibili fossili e annacquare nel frattempo il sistema delle sanzioni alle case automobilistiche che già nel 2025 dovranno tagliare le emissioni dei veicoli immessi sul mercato. E, a rendere ancora più impellente un cambio di strategia, c’è l’altra novità con cui deve fare i conti l’Ue, rispetto a quando Draghi ha presentato il rapporto sulla competitività: il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump con annessa promessa di introdurre pesanti dazi su merci e prodotti europei.

Lo scenario è tutt’altro che incoraggiante, e non a caso Draghi ha approfittato di un intervento al Simposio annuale del Centre for Economic Policy Research per ribadire la necessità di una decisa inversione di rotta: «Sarebbe confortante credere che i problemi non siano così importanti come sembrano e che, in quanto continente ricco, l’Europa possa entrare in una fase di declino comodo e gestito. Ma in realtà non c'è nulla di confortevole in questa prospettiva. Se la Ue continua a registrare un tasso medio di crescita della produttività del lavoro dal 2015, data la nostra società in via di invecchiamento, tra 25 anni l’economia sarà delle stesse dimensioni di oggi». Ed ecco l’inclemente analisi presentata ad uso e consumo di chi pensa che si possa continuare sulla strada attuale: «Ciò significa un futuro di entrate fiscali stagnanti e surplus fiscali per impedire l’aumento dei rapporti di debito. Tuttavia, siamo di fronte a impegni di spesa che non si ridurranno in proporzione al Pil: le passività pensionistiche non finanziate nei paesi del l’Ue vanno dal 150% al 500% del Pil. Tra i 750 e gli 800 miliardi di euro all’anno, secondo le stime della Commissione e della Bce, saranno necessari per investire nel settore energetico, la difesa, la digitalizzazione, la ricerca e lo sviluppo, senza considerare obiettivi importanti come l’adattamento al clima e la protezione ambientale». Ed ecco la conclusione, con annesso monito: «Tutti questi sono investimenti che determineranno se l’Europa rimarrà inclusiva, sicura, indipendente e sostenibile. Tutti noi vogliamo la società che l’Europa ci ha promesso, una società in cui possiamo sostenere i nostri valori indipendentemente da come cambia il mondo intorno a noi. Ma non abbiamo un diritto immutabile per la nostra società di rimanere sempre come lo desideriamo. Dovremo lottare per mantenerlo».

Il cambio di passo è quindi necessario su più fronti, coinvolgendo politiche nazionali e adottando misure macroeconomiche utili per aumentare la crescita dei paesi comunitari, sottolinea Draghi insistendo anche sul fatto che non sono più rinviabili riforme di mercato che segnino una cesura con scelte fatte in passato in merito a occupazione, produzione, livelli salariali. Scelte, sottolinea, sbagliate. E che sarebbe ancora più sbagliato perpetuare ulteriormente: «Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari come strumento per aumentare la competitività esterna, aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo». Ecco perché non sono più procrastinabili determinate riforme: «Oggi è cambiato il significato delle riforme strutturali. Dieci anni fa, il termine era in gran parte limitato ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro e comprimere i salari. Oggi, significa aumentare la crescita della produttività senza spostare il lavoro, ma piuttosto riqualificando le persone. Nella relazione sono state presentate molte misure diverse che possono contribuire ad aumentare la produttività. Ma il mercato unico europeo e il mercato dei capitali sono fondamentali, in quanto sostengono i meccanismi di base che guidano la crescita della produttività». 

Se queste riforme nella struttura dei mercati fossero attuate, è il ragionamento dell’ex presidente della Bce, un importante passo nella direzione giusta sarebbe compiuto: «La produttività aumenterebbe, l’efficacia delle politiche della domanda aumenterebbe e ciò si ripercuoterebbe su una crescita ancora più forte della produttività. Ma sappiamo che ci vorrà del tempo prima che tali riforme diano i loro frutti. Quindi, dovremmo anche riflettere se le politiche macroeconomiche possano essere utilizzate in modo più efficiente nel frattempo». Ed ecco la proposta del debito comune, rilanciata da Draghi: «Se l’Ue emettesse il debito congiuntamente, potrebbe creare ulteriore spazio fiscale che potrebbe essere utilizzato per limitare i periodi di crescita al di sotto del potenziale. Ma non possiamo iniziare questa strada se non sono già in corso i cambiamenti nella struttura dei mercati che aumenterebbero i tassi di crescita potenziali a medio termine». L’ipotesi è quella di sfruttare lo spazio fiscale all’interno delle nuove regole fiscali dell’Ue al fine di creare un ampio margine per aumentare gli investimenti. «La Bce stima che se tutti i paesi utilizzassero appieno il periodo di aggiustamento settennale, sarebbero disponibili per gli investimenti ulteriori 700 miliardi di euro, una quota significativa del fabbisogno di investimenti pubblici». Mantenere invece tutto così com’è e adagiarsi su «confortevoli» convincimenti non supportati né dai fatti attuali né dalle analisi sulle dinamiche future, non porterebbe invece alcun guadagno. Anzi.

Simone Collini

Dottore di ricerca in Filosofia e giornalista professionista. Ha lavorato come cronista parlamentare e caposervizio politico al quotidiano l’Unità. Ha scritto per il sito web dell’Agenzia spaziale italiana e per la rivista Global Science. Come esperto in comunicazione politico-istituzionale ha ricoperto il ruolo di portavoce del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel biennio 2017-2018. Consulente per la comunicazione e attività di ufficio stampa anche per l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, Unisin/Confsal, Ordine degli Architetti di Roma. Ha pubblicato con Castelvecchi il libro “Di sana pianta – L’innovazione e il buon governo”.