Quando eravamo Yasmine. Dal 2014 circa 22.000 migranti climatici annegati nel più grande cimitero d’Europa: il Mediterraneo. Anche la Chiesa soccorre naufraghi. Ma l’Italia dimentica il tempo in cui a partire e naufragare eravamo noi
Un minuto. Solo per un minuto diventiamo tutti Yasmine, 11 anni, sballottata dalle onde del mare per due giorni. Salpata da Sfax sulla costa orientale della Tunisia insieme a suo fratello e ad altri 44 inghiottiti dal mare, miracolosamente è rimasta aggrappata alle camere d’aria di due ruote di un camion imbarcate come salvagenti di fortuna sul rottame di peschereccio che non poteva non affondare nella notte di tempesta. Per un minuto immaginiamo si sentire, come ha sentito lei, le grida, le urla strazianti, i pianti disperati di chi stava per perdere la vita affondando insieme al barcone nel canale di Sicilia, a dieci miglia da Lampedusa. E lo strazio di suo fratello che forse in quella tragedia ha avuto la forza di spingerla in acqua avvolta nelle camere d’aria, salvandole la vita.
Adesso Yasmine è a Lampedusa con la sua tristezza e la stanchezza infinita e la sensazione di essere finita dentro un incubo. È sopravvissuta aggrappata alla vita ed è stata soccorsa dai volontari del veliero Trotamar III della Ong Compass Collective, ragazze e ragazzi che non smettono di salvare naufraghi con il loro capitano Matthias Wiedenlübber. Yasmine, raccontano, non aveva ormai più voce quando quegli eroi l’hanno avvistata portata a bordo. L’hanno scaldata con un piccolo calorifero, abbracciata, avranno pianto insieme e lei ha raccontato di suo padre che con gli ultimi dinari risparmiati ha imbarcato lei e suo fratello sperando per loro in un futuro migliore e di poterli magari un giorno raggiungere.
Storie angoscianti, terribili, come tantissime altre storie di migrazioni. Per tanti, una scrollata di spalle e via. Per noi no. È inaccettabile questa strage continua, silenziosa, che lascia sgomenti. È inaccettabile l’indifferenza ai migranti che ogni notte e ogni giorno annegano nel Nostro Mare. Già, perché la contabilità macabra delle vittime aumenta con l’aumento costante dei naufragi che, anno dopo anno, hanno raggiunto medie agghiaccianti nell’attraversamento del Mediterraneo centrale verso l’Italia. Dal 2014 ad oggi, sono stati oltre 22.000 gli inghiottiti dal mare, e 485 erano bimbi. E i morti, quelli “ufficiali”, sono ancora saliti nell’ultimo anno a 2.498. Giacciono nel più grande cimitero d’Europa: il mar Mediterraneo. Ma si tratta di stime, perché nessuno sa con precisione quante “carrette dei mari”, barconi rabberciati, pescherecci in disuso, gommoni sovraffollati, chiatte inadatte ad affrontare il mare aperto sono svaniti e svaniscono nel nulla.
Abbiamo ancora negli occhi e nel cuore lo strazio del naufragio del traballante caicco stracarico all’inverosimile di 94 tra donne, uomini e bambini annegati nel naufragio nel mare calabrese davanti a Steccato di Cutro la notte del 26 febbraio del 2023. E 34 erano bimbi. I ritardi nei soccorsi sono stati la loro condanna a morte. Spesso sulle imbarcazioni colate a picco c’erano madri con bimbi stretti nell’ultimo abbraccio di vita, figli concepiti dopo violenze e stupri durante i lunghi viaggi sognando l’Italia. Sono tantissime le tragedie provocate da trafficanti di esseri umani, venditori di morte che sfuggono ad ogni giustizia ma anche dall’indifferenza e dall’assuefazione disumana a tutto questo.
Che senso ha continuare a minacciare e punire le Ong che stanno salvando vite umane da morte certa, allungando le rotte delle navi della flotta civile di soccorso e costringendole, ad esempio, a navigazioni interminabili e molto più costose nel mare della penisola? Per quale motivo dopo i salvataggi sono costretti a raggiungere porti assegnati sempre i più distanti dal luogo del naufragio, spesso a oltre mille chilometri da Lampedusa, aumentando non solo le sofferenze dei salvati ma le spese aggiuntive per chi li salva? Perché questo accanimento che nel 2023 ha costretto la flotta dei soccorsi Ong a navigare per circa 150.000 miglia in più, percorse senza motivo? È quasi quattro volte il giro del mondo, costringendo i soccorritori a 374 giorni di assenze forzate dalle zone di ricerca e soccorso e proprio nell’anno che ha fatto segnare il record di circa 2.500 migranti scomparsi nel mare. La strategia della “dissuasione” contro le Ong è talmente assurda da non crederci. Eppure, le navi umanitarie hanno raddoppiato il numero delle missioni: da 3,9 al mese a 10,4, mai così tante dal 2018. E dal 2014 la flotta umanitaria ha salvato dall’annegamento circa 175.000 persone a fronte di oltre un milione di arrivi, il 17% del totale, come dimostrano i dati Datalab dell’ISPI.
E oggi anche la Chiesa soccorre in mare e salva i migranti. Le parrocchie di Fano, con la benedizione di Papa Francesco, hanno varato la barca a vela equipaggiata dalla Fondazione Migrantes. Affianca la nave “Mare Jonio” dell’Associazione Mediterranea Saving Humans nelle attività di soccorso. Don Alessandro Messina e Donatella D'Anna, direttori delle sedi Migrantes di Fano e Caltanisetta, operano in un mare che ha visto morire nel 2024 oltre mille persone con quasi 14mila migranti riportati nelle galere dei predoni di umanità della Libia, nonostante lo scalo sia stato dichiarato “non sicuro” dalle Nazioni Unite. La loro imbarcazione di supporto permette alla Chiesa di “essere testimone e portavoce della tragedia che i nostri fratelli e sorelle stanno vivendo ogni giorno in mare - sottolinea don Alessandro - abbiamo un compito speciale, sensibilizzare sull'importanza dell'accoglienza, della costruzione di una civiltà in cui ci sia posto per tutti”.
Perché questo perdersi nella cattiveria? Perché ridurre una bimba, una ragazza o un ragazzo, una famiglia di migranti a “clandestini” e “senza patria”, lasciandoli nelle mani degli schiavisti? La cattiveria non appartiene alla grande tradizione e alla storica cultura dell’accoglienza italiana così segnata dal background migratorio. La negazione della cittadinanza e dell’accoglienza nel secondo Paese al mondo più “vecchio” dopo il Giappone a ragazzi e ai loro genitori che parlano i dialetti italiani e l’italiano come e meglio di tanti italiani, è una follia. Che senso ha negare il diritto di essere italiani anche se nati in Italia? Ma che senso ha poi nel Paese dal record mondiale di emigrazioni, con qualcosa come circa 30 milioni di italiani partiti alla ricerca di un futuro negli anni tra il 1861 e il 1985?
La "Grande Emigrazione" tra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale è stata il nostro fenomeno di massa. Ha visto milioni di italiani lasciare il nostro Paese in cerca di fortuna, inizialmente soprattutto verso le Americhe: Stati Uniti, Argentina, Brasile, e dopo la Seconda Guerra Mondiale anche verso i paesi europei come Germania, Francia, Belgio. Guardiamole le foto in bianco e nero o virate seppia, con i volti spaventati o sognanti dei nostri migranti. Sono gli stessi volti di bambini, donne e uomini oggi in fuga anche degli effetti delle catastrofi climatiche, ammassati su imbarcazioni di fortuna messe in acqua dai predatori di umanità che diventano zattere alla deriva e affondate dalla disumanità. Così eravamo noi, fino a circa mezzo secolo fa. Figli della miseria più nera, della fame e delle malattie, delle guerre e delle persecuzioni.
Viaggiavano su tante imbarcazioni “a perdere”, navigli in disarmo, navi chiamate con terrore puro “vascelli della morte” che non potevano contenere più di 700 persone ma ne caricavano anche il doppio. Erano "merce", e molti non arrivavano a destinazione anche per le pessime condizioni igieniche e sanitarie a bordo. Sul piroscafo "Città di Torino" nel novembre 1905 i morti furono 45 su 600 imbarcati, sulla "Matteo Brazzo" nel 1884 per colera morirono in 20 su 1.333 passeggeri e furono gettati in mare ma la nave venne respinta a cannonate a Montevideo per il timore di contagio; il diario di bordo del "Carlo Raggio" conta 18 morti per fame nel 1888 e 206 per "malattia" nel 1894; sulla "Cachar" elencarono 34 morti "per fame ed asfissia" nel 1888; sulla "Frisia" nel 1889 ci furono 27 morti "per asfissia" e oltre 300 sbarcarono malati e in fin di vita; sulla "Parà" nel 1889 morirono in 34 per una epidemia di morbillo; sulla "Remo" in 96 "per colera e difterite" nel 1893; sull’"Andrea Doria" archiviarono 159 morti su 1.317 emigranti nel 1894; sulla "Vincenzo Florio" ancora 20 morti, sempre nel 1894.
Le "tonnellate umane", cosi chiamavano i carichi di emigranti italiani, spesso affondavano. Come nella strage di 576 italiani, quasi tutti meridionali, annegati il 17 marzo 1891 nel naufragio dell'"Utopia", davanti al porto di Gibilterra. Altri 549 emigranti sparirono nelle acque gelide al largo della Nuova Scozia con il "Bourgogne" il 4 luglio 1898, e in 550 furono le vittime del 4 agosto 1906 nel naufragio della "Sirio" in Spagna. Raccolsero più di 600 cadaveri dopo il naufragio della "Principessa Mafalda" il 25 ottobre 1927, al largo del Brasile, la peggiore sciagura per scarsa manutenzione e usura del motore di bordo con 8 guasti e uno all'asse dell'elica di sinistra che si sfilò e ruotando per inerzia squarciò lo scafo in alto mare.
Altre tragedie le racconta il museo di Ellis Island, il lugubre centro di smistamento e di quarantena per italiani in attesa di mettere piede a New York. Progettato per accogliere 500.000 immigrati all’anno, ne arrivavano un milione lasciati in balìa di schiavisti, truffatori, ladri di bagagli, sfruttatori con tassi di cambio da rapina per il poco denaro che avevano. Le famiglie divise, uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, fuori gli "indesiderabili" con “malattie ripugnanti e contagiose” e "manifestazioni di pazzia", contrassegnati da una croce bianca sulla schiena e confinati sull’isola-porta degli States per essere reimbarcati verso il porto di origine, in genere Genova o Napoli. Molti però si tuffavano in mare e finivano straziati dagli squali cercando di raggiungere Manhattan a nuoto, o si suicidavano. Ellis Island prese il nome di “Isola delle lacrime”.
Gli immigrati italiani, però, come è sempre accaduto nella storia dei flussi migratori, fecero grande il New Jersey e grandissimi gli Usa. E San Paolo del Brasile è oggi la città con più italiani al mondo. Nel Novecento sono partite in cerca di fortuna circa 500 mila italiani all’anno. Ma, come rilevano studi sull’immigrazione, per ogni tre regolari c’era sempre almeno un “clandestino”.
Altri tempi? Altre storie? Certo. Come è certo però che i migranti di questo nostro tempo che partono e annegano rispecchiano quello che eravamo: milioni di Yasmine.