Svegliati Europa! La lotta climatica è politica industriale. Target di riduzione di emissioni, rinnovabili ed efficienza energetica aiutano lavoratori e imprese. Serve un Green Deal più “popolare” e “desiderabile”
Da cinque anni la commissione europea ha come baricentro l'ambizione della transizione climatica. Da cinque anni leggi, regolamenti, atti e corposi finanziamenti sono stati approvati dall’Europarlamento per affrontare la transizione ecologica con il rafforzamento di politiche economiche e sociali. Da cinque anni l’Unione ha scelto di essere la prima area vasta del Pianeta a imporre decarbonizzazione e riduzione delle emissioni nette di gas serra entro il 2030 del 55% rispetto al 1990, per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, mettendo sul piatto la bella cifra di 1000 miliardi di euro per investimenti costanti in posti di lavoro e azioni per la transizione ecologica ed economica con il Next Generation Eu.
Ma da cinque anni, in molti Stati membri, vincono i frenatori, le spinte populiste e nazionaliste, gli scettici, i boicottatori. Da cinque anni avanza il negazionismo climatico di governo, frutto avvelenato della nuova variante istituzionale che ha assunto la paranoia complottista e rallenta l’applicazione delle azioni del Green Deal.
Oggi, dalle crisi della socialdemocrazia tedesca e dal caos francese e dall’avanzare dei sovranisti il rischio è quello del continuo indebolimento del Green Deal ampiamente boicottato, apertamente o sottobanco, con i suoi target bollati come “eco-balle”, “eco-follie”, “ambientalismo ideologico”, “condanna alla decrescita infelice”, “percorsi incompatibili con i nostri modelli industriali”, “obiettivi irraggiungibili”. E quindi si va dal “no alle case green e sì alla tutela dei proprietari di immobili” al no al “parco immobiliare a emissioni zero entro il 2050”, al “niente sostituzione delle caldaie a metano al 2040”, allo “stop alla direttiva per il blocco della produzione di auto a motore endotermico dal 2035” nonostante il settore automotive europeo finito fuori strada e fuori mercato.
Si può discutere a lungo su una certa propensione all’autolesionismo della Commissione Ue, sulla sua scarsissima e impacciata capacità di comunicazione delle immense opportunità delle super-misure super-finanziate del Green Deal, con le competenze sull’energia e la transizione climatica affidate ai 2 commissariì Kadri Simson e Adina Valean con il coordinamento del potente vicepresidente esecutivo Frans Timmermans. Ma tant’è, tutti hanno perso il filo e anche i file degli investimenti in corso. Si può discutere sui perché queste misure sono state percepite anche dai lavoratori solo come “punitive”, costose e impopolari e con un effetto quasi zero sulla loro utilità.
Ma il Green deal resta la nostra salvezza dalla “perfect storm" climatica e contro il logoramento esterno con l’avanzare impetuoso delle tecnologie made in Cina e oltreoceano di Donald Trump che ridisegna il panorama del commercio internazionale con i dazi annunciati sull'Ue oltre al plateale boicottaggio dei vertici sul clima dell’Onu.
Questa tenaglia rende drammaticamente urgente il rafforzamento e rilancio della competitività dell’Unione. Anche Mario Draghi ha delineato nel suo Rapporto l’urgenza di politiche di investimenti pubblici e privati fino a 800 miliardi di euro all'anno per l’innovazione digitale e tecnologica per colmare il divario con Stati Uniti e Cina, e per una transizione energetica che acceleri la decarbonizzazione garantendo la competitività dell'industria, con riforme strutturali per adeguare la governance della Ue.
Nel presentare il suo bis alla presidenza della Commissione Ue, Ursula von der Leyen ha certo riconfermato il "piano comune su de-carbonizzazione e competitività" come pilastri del suo programma per il prossimo quinquennio per "colmare il gap di innovazione con gli Usa e la Cina", e tutti gli obiettivi del Green Deal. Ma ha aggiunto e chiarito che "…se vogliamo avere successo con la transizione, dovremo essere più agili e attenti a sostenere le persone e le imprese" ed ha annunciato “entro i primi cento giorni il Clean Industrial Deal”, ovvero l'evoluzione del Green Deal corretto e aggiornato, molto probabilmente per rispondere alle pressanti richieste e agli interessi dell’economia meno green.
I socialisti e i verdi hanno giustamente mal digerito le aperture alla destra conservatrice. Ma sulla lotta alle politiche ambientali oggi sembra saldarsi l’alleanza tra Popolari e destra conservatrice con cambi di rotta già visti sulla deforestazione e l’intera strategia climatica europea rischia la revisione al ribasso degli obiettivi in nome del rilancio della politica industriale.
L’Europarlamento oggi più che mai deve reggere i target di riduzione delle emissioni - 55% entro il 2030 e la neutralità carbonica nel 2050 -, i target sulle energie rinnovabili e l'efficienza energetica, gli obiettivi e le strategie sui nuovi carburanti, il bando dal 2035 del motore endotermico, le case green, la riduzione del consumo del suolo, l'idrogeno e la cattura del carbonio, le batterie per l’accumulo, il settore determinante dell’automotive.
Alexander Langer già scriveva negli anni Ottanta del Novecento: “La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”. Oggi anche i sassi sanno che chi non va nella direzione della sostenibilità danneggia sé stesso e l’economia, questa è la verità che l’Europa deve riuscire a comunicare.