L’altra America pronta ad affrontare Trump 2.0, più preparata di otto anni fa e forte di un pacchetto di investimenti per il clima che fa gola anche a Stati guidati da governatori Repubblicani
«Il mondo taglierà le emissioni di gas serra anche con Trump». Al Gore ne è convinto. Arrivato alla Cop29 di Baku nei giorni scorsi, l’ex vicepresidente Usa e premio Nobel per pace per il suo impegno a difesa dell’ambiente ha commentato senza troppa preoccupazione le possibili conseguenze della rielezione di Donald Trump sull’azione climatica. «Ci siamo già passati. Trump ci ha già provato, e il mondo ha continuato a ridurre le emissioni anche durante i suoi primi quattro anni da presidente. C’è così tanta spinta, che perfino una nuova amministrazione Trump non riuscirà a rallentarla più di tanto», ha dichiarato Al Gore a margine della presentazione degli ultimi dati del Climate Trace. «Molte persone nel mondo semplicemente non aspettano con il fiato sospeso che cosa faranno gli Stati Uniti, ma agiscono per proprio conto. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi non sarà una cosa buona, ma penso che continueremo comunque a progredire».
Le parole del premio Nobel non sono un caso isolato, né devono sorprendere chi negli Usa segue le attività delle principali associazioni ambientaliste. È vero, il tycoon si prepara a ritirare nuovamente gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi e ha messo in dubbio la stessa Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Ma l’altra America sta tutt’altro che ferma a guardare. Inside climate news ha pubblicato un lungo articolo il cui senso è chiaro fin dal titolo: «I gruppi in difesa del clima dicono di essere pronti per Trump 2.0». Il fatto è, viene sintetizzato dalla redazione americana che dal 2007 si occupa di tematiche inerenti all’ambiente, che gli attivisti statunitensi possono anche essere «scoraggiati, preoccupati, persino spaventati» dal risultato uscito dalle urne, ma resta un fatto: ora sono comunque più preparati ad affrontare le necessarie battaglie di quanto non fossero tra il 2016 e il 2020. Rispetto a otto anni fa, infatti, «i gruppi ambientalisti hanno costruito coalizioni più organizzate e collaborative e dicono che non saranno colti alla sprovvista dal secondo mandato di Trump alla Casa Bianca».
Spiega Jonathan Pershing, ex inviato speciale per il clima sotto l’amministrazione di Obama nonché esperto funzionario che ha contribuito a supervisionare la transizione verso il primo mandato di Trump: «Quella di oggi è molto meno una sorpresa rispetto all’ultima volta. Non c’è stato il tipo di shock che il sistema ha vissuto collettivamente quando ci si aspettava che Hillary Clinton vincesse».
Ma non è solo questione di minore sorpresa e di maggiore preparazione da parte degli attivisti. Il fatto è che pur portando avanti il suo programma forgiato sotto lo slogan «drill, baby, drill», Trump lavorerà sì per rilanciare l’industria petrolifera statunitense, ma non è detto che riesca a cancellare importanti riforme approvate in questi quattro anni di presidenza Biden. A cominciare dall’Inflation Reduction Act (Ira), il più grande investimento mai realizzato negli Stati Uniti in politiche per il clima, che ha già erogato miliardi di crediti d’imposta e sussidi a programmi di energia pulita, di cui hanno beneficiato moltissime città e interi Stati, la maggior parte dei quali guidati da governatori del Partito repubblicano, che potrebbero non essere tanto propensi a dover rinunciare a tutti questi soldi messi a disposizione. Mediante l’Ira sono stati stanziati 369 miliardi di dollari di spese per l’azione e i programmi per il clima nell’arco di un decennio. Come giustamente nota Inside climate news, «sebbene ogni Repubblicano al Congresso si sia opposto all’Ira, molti distretti repubblicani ne sono diventati i beneficiari. Poiché hanno partecipato alle cerimonie di inaugurazione e hanno sentito gli elettori sostenere questa legge, alcuni dei legislatori Repubblicani che hanno votato contro di essa da allora hanno respinto il discorso di un’abrogazione totale».
Non a caso gli attivisti climatici si preparano a lavorare nei prossimi mesi per garantire che la maggioranza dei cittadini statunitensi colleghino l’Ira e la transizione verso un’energia più pulita con il concetto di più posti di lavoro, maggiori guadagni economici, meglio e più di quanto non siano riusciti a fare negli ultimi mesi né Biden né Harris. «Il boom dell’energia pulita è appena iniziato», ha detto a Icn Lori Lodes, direttore esecutivo di Climate Power: «Se i repubblicani si accaniscono contro l’Inflation Reduction Act, non si tratterà di una legge o di un acronimo astratto. Si tratterà di decidere se distruggere o meno migliaia di posti di lavoro nei loro distretti».
Tutto troppo ottimistico? Non c’è dubbio, se si legge un documento diffuso dall’American petroleum institute in cui si indica «una nuova tabella di marcia politica per l’amministrazione in arrivo e il prossimo Congresso per garantire la leadership energetica americana e contribuire a ridurre l’inflazione». Non c’è bisogno di leggere la versione completa del testo con i 5 punti proposti dall’organizzazione attiva nel settore petrolchimico per capire che, se attuate, le misure presenti nell’elenco farebbero tabula rasa delle politiche green approvate negli Usa negli ultimi anni, a cominciare dall’abrogazione dei livelli massimi di gas di scarico e di consumo carburante per auto e camion, o dal superamento della pausa alle autorizzazioni per il gas naturale liquido (Gnl) da parte del Dipartimento dell’energia o, ancora, dalla cancellazione delle regole per la conservazione del paesaggio.
Ma non è scontato che Trump voglia o comunque riesca a realizzare questa lista dei desideri del settore petrolifero. C’è chi confida nella recente influenza che Elon Musk sta mostrando di avere sul tycoon, ma benché Mr. Tesla abbia fatto fortuna con l’auto elettrica e si dica convinto che quella solare sia l’energia del futuro, né sul personaggio in sé né sulla tenuta dell’originale accoppiata c’è da fare troppo affidamento: Musk fino a non molto tempo fa era un sostenitore del Partito democratico, quanto a Trump ha già dato prova nel corso del primo mandato di veloci innamoramenti con personaggi dell’imprenditoria e della finanza, poi repentinamente scaricati senza troppi complimenti. Piuttosto, come nota Al Gore, sulla transizione energetica il mondo andrà avanti nonostante gli Usa. E c’è un’altra potenza mondiale che è pronta ad occupare gli spazi lasciati vuoti da un Trump 2.0 pronto a snobbare le rinnovabili: la Cina, che già nel 2023 ha installato il doppio di eolico e solare rispetto al resto del mondo e che alla Cop29 ha dimostrato un forte attivismo nelle negoziazioni, puntando a consolidare una nuova posizione internazionale, difendendo il multilateralismo e sostenendo le posizioni dei Paesi in via di sviluppo, sul nuovo obiettivo di finanza climatica ma non solo.
Trump avrà dalla sua le lobby del petrolio, ma per quel che riguarda la transizione energetica dovrà anche fare i conti tanto con un fronte interno quanto con un fronte esterno che tra il 2016 e il 2020 apparivano molto meno solidi di oggi.