La falsa soluzione della Ccs: le compagnie petrolifere puntano sulla cattura e il sequestro di CO2, un processo complesso e costoso che produce risultati risibili
Catturare per sequestrare. Non si tratta di un’operazione della criminalità organizzata, ma di una tecnologia che promette una soluzione alla crescente concentrazione di CO2 nell’atmosfera: carbon capture and sequestration. Il suo acronimo, al centro delle politiche climatiche, è Ccs. Tre lettere che stanno diventando sempre più comuni nel dibattito sul clima e che fanno parte in maniera strutturale della comunicazione delle aziende petrolifere.
Il motivo risiede nell’essenza stessa di questa tecnologia, che consiste nell’estrarre la CO2 dai fumi industriali o dall’atmosfera per poi gestirla, trattarla e trasportarla in siti dove possa essere stoccata sottoterra, evitando così la sua dispersione nell’atmosfera che aumenterebbe l’effetto serra. In teoria la Ccs consentirebbe, il condizionale è d’obbligo, la produzione di energia da fonti fossili, gestendo le emissioni di CO2 con tecnologie già utilizzate nell’industria del petrolio e del gas naturale. A confermare il potenziale di questa soluzione, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) stima che si potrebbero sequestrare tra 8.000 e 55.000 Gt di CO2, una quantità più che sufficiente a coprire le 220 necessarie per decarbonizzare il sistema energetico mondiale tra il 2020 e il 2070. Ecco che l’invitante quadro per le aziende fossili è completo.
Polvere sotto il tappeto
«Sulla Ccs s’innestano due questioni – dice Nicola Armaroli, chimico e dirigente di ricerca del Cnr – La prima è di carattere generale e riguarda la narrazione tecno ottimista secondo la quale troveremo soluzioni tecnologiche per risolvere tutti i problemi ambientali, ma purtroppo non è così. La seconda è che il Ccs offre alle grandi aziende del settore fossile l’alibi per continuare a bruciare carbone, petrolio e gas, promettendo a governi e opinione pubblica che intrappoleranno la CO2 nel sottosuolo». Sembra un po’ la logica della polvere sotto al tappeto, solo che qui parliamo di qualcosa come 36 miliardi di tonnellate di CO2 che ogni anno finiscono in atmosfera nelle modalità più diverse: dalle grandi acciaierie alla caldaia domestica, passando per centinaia d’utilizzi diversi. E non ci si illuda che una volta in atmosfera la si possa rimuovere con facilità. «Nei camini di un grande impianto industriale abbiamo il 10-15% di CO2, mentre la concentrazione in atmosfera è dell’ordine delle parti per milione (per il Nooa, 423,43 ppm a maggio 2024 contro le 420,52 di maggio 2023, nda) – prosegue Armaroli – Se già è complicato e costoso separare la CO2 dai fumi industriali, figuriamoci dall’atmosfera». E i dati lo confermano. L’impianto di cattura diretta dall’aria (Dac, una variante del Ccs) più grande del mondo si trova in Islanda e sarà in grado di sequestrare 36.000 tonnellate di CO2 l’anno: meno dello 0,5% delle emissioni annuali di una sola centrale a carbone da 1 GW. Il costo dovrebbe essere di circa 600 dollari per tonnellata, in un contesto ottimale: “Mammoth”, questo il nome dell’impianto, è infatti alimentato da energia rinnovabile geotermica e stocca la CO2 direttamente nel sottosuolo islandese, che ha grandi disponibilità di serbatoi naturali sotterranei.
Dalla chimica alla fisica
Per quanto riguarda i costi della tecnologia Ccs sugli impianti, ossia direttamente al camino, in Europa le stime variano tra i 70 e i 250 euro per tonnellata di CO2 e dipendono da diversi fattori, come il processo di separazione, il trasporto e l’iniezione geologica, tutte variabili legate sia ai consumi energetici sia alla difficoltà di standardizzare gli impianti, che devono adattarsi a diverse tipologie di produzione. Ulteriori criticità sono legate alla pericolosità degli impianti che usano ammine, molecole altamente tossiche, e al trasporto, poiché i sistemi di separazione si trovano spesso vicino agli impianti manifatturieri, a volte distanti migliaia di km dal sito di reiniezione. Non si deve sottovalutare il fatto che lo stoccaggio della CO2 può presentare problemi, poiché le strutture geologiche utilizzate per il suo sequestro potrebbero nel tempo rilasciare la stessa CO2 nell’atmosfera. «Si tratta di fattori che potrebbero cambiare con la ricerca – afferma Giulia Monteleone, direttrice del dipartimento Enea di Tecnologie energetiche e fonti rinnovabili – Se da un lato è vero che le ammine pongono problemi di sostenibilità ambientale, la ricerca sta investendo su altre tecnologie di separazione oltre quella chimica, come quella fisica, utilizzando nuovi materiali sostenibili, mentre sui siti, se si scelgono quelli che hanno contenuto per secoli il gas naturale oppure gli strati salini profondi, abbiamo una buona certezza sul fatto che la CO2, un gas inerte, sia confinata senza problemi di fughe».
Scelte di campo
Se sulle fughe abbiamo una ragionevole certezza, non possiamo essere altrettanto certi che la CO2 sottoterra non interferisca con la litosfera. Nel corso degli ultimi 50 anni sono state iniettate circa 300 milioni di tonnellate di CO2 per attività di Eor (Enance oil recovery), ossia la stimolazione dei giacimenti petroliferi in via d’esaurimento. In alcune zone d’iniezione come Stati Uniti, Algeria, Canada e Mare del Nord si sono verificati terremoti, anche di magnitudo superiore a 5. In Italia il progetto di punta è quello di Eni e Snam di Ravenna, che a regime dovrebbe sequestrare 25.000 tonnellate di CO2 l’anno. «Si tratta di una quantità molto piccola, assolutamente inutile per la difesa del clima – spiega Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente – E poi c’è il quadro più ampio, quello delle infrastrutture necessarie alla Ccs. Fare dell’Italia l’hub internazionale dello stoccaggio del gas, come sembra nelle intenzioni del governo, significa mettere delle risorse importanti su tecnologie che in teoria dovrebbero essere abbandonate in un paio di decenni, ma il fatto che tutto ciò si trovi nel Pniec potrebbe significare una scelta di campo precisa: voler continuare con grandi quantità di gas naturale ben oltre il 2050, garantendo un modello come quello attuale. Se non peggiore».
Il danno e la beffa
La quantità di CO2 sequestrata nella fase 1 del progetto, pari a 25.000 tonnellate l’anno, è insignificante rispetto alle emissioni di una centrale a gas a ciclo combinato da 800 MWe, che ammontano a 1,6 milioni di tonnellate l’anno. Anche la fase 2, nella quale Eni e Snam promettono di stoccare 4 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, rappresenta meno dell’1% delle 418 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti emesse dall’Italia nel 2022. Prendendo lo scenario più favorevole, il costo annuale sarebbe di 280 milioni di euro, un onere aggiuntivo rispetto ai costi di generazione elettrica da fonti fossili. Se questa somma venisse applicata a tutta la generazione elettrica fossile in Italia, che nel 2023 è stata di 158,8 TWh, salirebbe annualmente a 3,56 miliardi di euro, con punte fino a 12,7 miliardi nello scenario più costoso. Somma che sicuramente finirebbe in bolletta a carico di tutti gli italiani. E in tasca degli stessi soggetti che emettono CO2. Questo spiega forse il forte accanimento rispetto al Ccs da parte delle compagnie petrolifere. Tuttavia, anziché mettere su un complesso e costoso sistema di cattura, separazione, gestione e stoccaggio della CO2, potrebbe essere più efficace e meno oneroso per cittadini e imprese aumentare in modo significativo l’utilizzo delle energie rinnovabili, che di CO2 ne producono molta, ma molta di meno.
di Sergio Ferrais, La nuova ecologia