Altro che 2035 e colpa dell’elettrico. Meloni vuole rinviare l’addio al motore endotermico, ma l’automotive è in crisi adesso: i lavoratori dell’auto in sciopero generale il 18 ottobre
Gli ammortizzatori sociali stanno terminando, e di fronte al fondato timore di licenziamenti di massa nel settore dell’automotive il Governo Meloni prova ancora a buttarla in caciara. La stessa presidente è intervenuta ieri in Senato ripetendo il solito cliché: «L’approccio ideologico che ha accompagnato la nascita e ha sostenuto finora lo sviluppo del Green deal europeo ha creato effetti disastrosi».
Per rafforzare la linea del Governo, Meloni stavolta ha citato anche il rapporto Draghi sulla competitività, senza timori di distorcerne il contenuto, dato che il report afferma tutt’altro sostenendo la decarbonizzazione come strategia di sviluppo per il Vecchio Continente.
«L’addio al motore endotermico entro il 2035, cioè in poco più di un decennio, è uno degli esempi più evidenti di questo approccio sbagliato. Si è scelta la conversione forzata ad una sola tecnologia, l’elettrico», sostiene Meloni, quando l’Ue ha già adottato un approccio di neutralità tecnologica: l’obiettivo del regolamento adottato nel 2023 – unico voto contrario dalla Polonia, con astenuti Italia, Bulgaria e Romania – è semplicemente quello di azzerare le emissioni di CO2 per auto e furgoni immatricolati a partire dal 2035. Se qualcuno pensa di poterlo fare in modo efficiente con motori endotermici, si accomodi pure. Eppure Meloni chiede di «anticipare al 2025 la revisione degli obiettivi legati allo stop al motore endotermico», attaccando in modo strumentale l’elettrico.
Quel che davvero servirebbe è invece una politica industriale adeguata a traghettare la filiera automotive nel futuro, ma in sua assenza le case automobilistiche sono senza bussola. Tavares (Stellantis) afferma che le auto elettriche costano il 40% in più e che uno dei maggiori problemi risiede negli alti costi di produzione dell’energia – quando per costruire 1 auto servono meno di 3 MWh (dati Acea), equivalenti a neanche 350€ stimandoli per eccesso facendo riferimento al Prezzo unico nazionale (Pun) dell’elettricità – e chiede nuovi incentivi, ma offrendo in cambio contropartite poco chiare; il leader di Confindustria Orsini, evidentemente ansioso di interpretare la parte del più realista del re contro il Green deal, addirittura ritiene «una pazzia» chiedere nuovi incentivi per l’elettrico.
Così, mentre a fine estate si contavano in tutto il Paese appena 256.493 auto elettriche circolanti, sarebbero loro le responsabili di una filiera automotive ormai in crisi strutturale per mancanza di visione. La soluzione proposta dagli stessi protagonisti della crisi, adesso, è quella di continuare a guardare ancora indietro, difendendo l’indifendibile pur di non cambiare pelle.
L’unico sussulto positivo del Governo Meloni è stato quello di aprire al possibile ingresso di fabbriche cinesi – con lavoratori italiani – per la produzione di auto elettriche nel nostro Paese, così da aggirare l’ostacolo dei dazi europei. Dopo la visita agostana di Meloni in Cina però tutto tace su questo fronte, mentre in patria resta solo un dibattito politico sempre più sterile.
A suonare la sveglia ci proveranno adesso lavoratori dell’automotive e relativi sindacati, pronti a scendere in piazza il 18 ottobre (tra due giorni, altro che 2035) per uno sciopero generale che non si vedeva da tempo. Lanciato da Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil, lo sciopero non chiede di tornare indietro sull’elettrico, ma «risorse pubbliche vincolate a precisi impegni di tenuta occupazionale da parte delle imprese, non solo incentivi per l’acquisto».
«Anche noi siamo contrari (al rinvio del termine del 2035, ndr), perché non vogliamo ritardare le azioni di contrasto al cambiamento climatico, ma la transizione si fa con i lavoratori e non con la cassa integrazione e i licenziamenti – spiega al Corriere della Sera il segretario generale della Fiom-Cgil, Michele De Palma – Nel 2024 la produzione è crollata del 35%, nonostante i 950 milioni di incentivi pubblici all’acquisto di auto. Il problema è che Stellantis non riesce a fare economie di scala. Se c’è una capacità potenziale di produrre due milioni di veicoli ma quest’anno ne abbiamo prodotti 300mila, è chiaro che i costi salgono perché le spese fisse sono le stesse. In Spagna si producono 2 milioni di veicoli e non c’è un produttore nazionale. In Germania e Francia ci sono più case automobilistiche. Attrarre società, cinesi o non cinesi, che investano e rispettino norme e contratti può essere solo vantaggioso per l’occupazione». Temi concreti cui spetterebbe al Governo, prima ancora che Stellantis, dare risposte. Ma non sapendole dare, evidentemente, Meloni continua a blandire lo spauracchio del Green deal.