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Il grande vuoto interno. L’abbandono di circa 4.000 paesi senza più servizi nell’Italia che concentra investimenti nelle grandi aree urbane. La drammatica solitudine dei piccoli Comuni aumenta anche emergenze per frane, alluvioni, incendi: che fare?

 |  Editoriale

Chiuse l’ufficio postale, poi chiusero le filiali di banche, quindi i distributori di benzina e l’officina del meccanico, toccò quindi all’albergo, al negozio che vendeva di tutto, alla stazioncina ferroviaria, alle scuole elementari e medie accorpate tra piccoli comuni e spesso anche l’asilo, al presidio sanitario che lascia un solo medico per tutti per un giorno a settimana, e anche la parrocchia chiudeva l’oratorio. Che errore madornale aver consentito la scomparsa, nel solo ultimo decennio, di circa 26mila attività commerciali nei 5.521 piccoli comuni, il 69,9% dei 7.896 comuni italiani, aree urbane con meno di 5 mila abitanti in via di liquidazione con ben 3.300 municipi senza più sportello bancario, emporio, panificio, farmacia. Restano solo i vuoti e i silenzi.

I piccoli comuni diventano sempre più piccoli. Il senso infinito dell’abbandono e della solitudine e della privazione di servizi e attenzioni è nella quotidianità sempre più complicata per oltre 13 milioni di italiani che resistono nei loro paesi protetti da mura antichissime, incastonati in paesaggi alpini e appenninici, costruiti nelle valli interne e in aree da sogno lungo il delta del Po e ai bordi di fiumi e laghi e affacciati sul mare che a volte sembrano disegnati dalla fantasia.

L’ultimo caso che li ha portati sulle soglie dell’attenzione pubblica è stato quello della deliziosa Londa che, con i suoi ultimi 813 abitanti, vedi apparire tra i boschi sotto il Monte Falterona, il Capo d'Arno da dove, recitano i versi danteschi “Per mezza Toscana si spazia un fiumicel…e cento miglia di corso nol sazia”. È sulle rive del torrente Rincine con la sua lunghissima storia. È stata orgogliosa città etrusca, è punteggiata di frazioncine e belle pievi romaniche medievali, è un presidio di bellezza, è uno scrigno di tesori d’arte, è custode di un ambiente unico e di produzioni tipiche locali ma da anni è martire dell’inesorabile spopolamento.

E così, per scongiurare la chiusura dell’ultima agenzia bancaria di Intesa, il sindaco Tommaso Cuoretti si è barricato nei locali venerdì scorso prima che iniziasse lo smantellamento “finché non mi portano via”. È uscito solo quando la banca si è rimangiata la fatale decisione di cancellare l’unico sportello rimasto in paese. “Nei piccoli paesi vivono persone, non numeri – spiega Cuoretti – è inutile promettere rilanci di aree interne se poi si tagliano i servizi. Avevo anche chiesto che lasciassero a Londa almeno il bancomat, ma neanche questo era stato accettato”. Con lui c’è Cristiano Benucci, altro fierissimo “montanaro” e già sindaco di Reggello sulla montagna accanto che da anni lancia Sos, e oggi anche da consigliere regionale Pd: “Occorre intervenire urgentemente, i nostri comuni montani già svantaggiati non possono essere ulteriormente penalizzati con la chiusura di uffici postali e sportelli bancari. La desertificazione nei piccoli centri è una tragedia”.

E per portare la tragedia al centro dell’attenzione centri urbani costruiti dalla storia e dalla fatica umana come Esino Lario, in Lombardia, ha simbolicamente messo in vendita il palazzo del municipio a soli 200mila euro, con tutti i monumenti del paese che sovrasta il lago di Como, per dire al mondo intero “non dimenticateci”. Potremmo riempire file con migliaia di altre storie tristi di località che andrebbero piuttosto segnalate a centinaia di chilometri di distanza e coperte da ogni servizio pubblico. Invece, in Italia, i posti del cuore li incontri per caso nella straordinaria varietà dei nostri paesaggi naturali, come doni della Natura e tenaci “custodi” della tenuta dei territori e del più diffuso patrimonio storico e culturale e artistico del mondo. Sono sempre più distanti e abbandonati con i loro borghi, le frazioncine, i casolari, gli itinerari che portano a chiesette e abbazie, gli antichi mulini ancora funzionanti e i castelli e le rocche con torri di avvistamento sulle ampie valli o sui mari che raccontano storie avvincenti di battaglie epiche o epiche leggende, che offrono la qualità agro-alimentare ricercata dal mondo con mille produzioni tipiche locali che sono il capitale di biodiversità della nostra filiera economica che a parole tutti promettono di sostenere.

Ci vuole poco a capire che l’Italia non è fatta solo dalle 14 città metropolitane dove si riversa la quasi totalità degli investimenti pubblici – Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Cagliari, Messina, Catania, Palermo e Roma – ma soprattutto da 5.521 piccoli comuni, il 69,9% dei 7.896 comuni italiani, aree urbane con meno di 5 mila abitanti liquidate come “Italia minore”. Che autogol pazzesco lasciare nell’agonia il più potente fattore di identità e bellezza condivisa!

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Il dissanguamento demografico mette a rischio l’anima dell’Italia. La tragedia di circa 4.000 piccoli comuni montani e collinari in via di spopolamento

Lo spopolamento è in corso da troppo tempo, ma oggi sembra inarrestabile. È lo “scarto” dell’Italia dice Papa Francesco indicando lo “spopolamento progressivo che rende più difficile la cura del territorio. I territori abbandonati diventano più fragili, e il loro dissesto diventa causa di calamità e di emergenze, specie oggi con gli eventi estremi sempre più frequenti: piogge torrenziali, inondazioni, frane; siccità e incendi, tempeste”.

L’Italia dei piccoli Comuni, lo sanno anche i sassi, è una grande Italia. È il nostro più forte fattore di identità che però si trasforma in frustrazione perché non viene messa in condizione di competere, è tagliata fuori assurdamente dalle grandi rotte dell’overtourism che soffoca i centri storici dei grandi centri, e non viene nemmeno raggiunta da connessioni wi-fi.

Era il 2 maggio del 2002 quando Legambiente, con il suo presidente Ermete Realacci, lanciò la prima campagna a difesa e per il rilancio dei piccoli comuni. L’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse a Realacci una bellissima lettera: “Questi borghi, questi paesi rappresentano un presidio di civiltà, concorrono a formare un argine contro il degrado idrogeologico, e spesso possiedono impianti urbani medievali, antichi, di grande valore. Riconquistiamo questi luoghi. Essi sono parte integrante, costitutiva della nostra identità, della nostra Patria. Possono essere un luogo adatto alle iniziative di giovani imprenditori. L’informatica e le tecnologie possono favorire questo processo”.

Quelle di Papa Francesco e di Ciampi sono esattamente le motivazioni che spinsero poi la proposta di legge Realacci per i piccoli comuni del 2017 per tornare a investire sul Bel Paese e nei servizi territoriali, con forti sostegni per chi resta, per chi rientra, per chi ci si trasferisce e per chi avvia un’impresa. Insomma, la difesa dell’Italia abbandonata con un nuovo “amichevole” diritto di cittadinanza come la possibilità di iscriversi all’anagrafe in quanto nati nel proprio piccolo paese anche quando si nasce nell’ospedale del capoluogo. I più accesi sostenitori erano naturalmente tutti i sindaci delle località interessate, insieme ai cittadini.

Ma il disinteresse ha fatto avanzare solo l’inverno demografico. E così ci ritroviamo oggi in un progressivo trend negativo che aumenta in maniera drammatica fragilità e rischi e tragedie a valle. Invece di incentivare un nuovo ripopolamento con servizi, contributi per acquistare casa o affitti, incentivi per lavorare anche in smart working, occasioni di lavoro nella tutela dell’ambiente e nella cura dei territori boscati e forestati e dei reticoli idraulici o nell’antincendio, aumenta “l’antropologia del vuoto”, come la definisce Vito Teti, sociologo studioso dello spopolamento e docente di Antropologia culturale dell’Università della Calabria che ha lanciato l’appello alla “Restanza”, cioè al diritto a restare con piena cittadinanza nei piccoli centri, a rimettersi in gioco, ad accogliere anche chi viene da fuori e da immigrato cerca una seconda occasione di vita. Frenare lo sconvolgimento in atto significa avere riguardo per noi stessi.

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L’abbandono iniziò nella seconda metà del Novecento. Erano gli anni del boom economico e milioni di famiglie contadine emigrarono verso le grandi città per industrializzare l’Italia

Già nel 1948, l’economista Manlio Rossi-Doria prevedeva che “…la morte degli insediamenti umani in montagna potrebbe significare l’inizio di grandi rovine nei luoghi dove le attività umane si esercitano e si concentrano”. Se nel secondo dopoguerra chi partiva prometteva di rientrare, dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso con la ripresa del fenomeno migratorio verso la Germania, la Svizzera, il Belgio e le grandi città italiane, gli addii sono stati definitivi, senza promesse di ritorni. Tanto più che da allora i piccoli centri venivano man mano privati dei servizi essenziali e iniziava la lenta desertificazione sociale.

L’ultima fotografia della demografia delle aree interne è stata appena scattata dall’Istat e indica la redistribuzione costante della popolazione italiana verso i centri urbani più grandi. È motivata soprattutto dalla vicinanza a servizi pubblici e privati, a stazioni ferroviarie e reti autostradali, dalla presenza di infrastrutture digitali e occasioni di lavoro. Oggi, nelle “aree interne” italiane, risiedono circa 13 milioni e 300mila persone, un quarto della popolazione italiana. Di questi, 4,6 milioni (il 7,8%) vivono in comuni definiti “periferici” e 700 mila (l’1,2%) in quelli definiti “ultraperiferici” e più svantaggiati. Negli ultimi dieci anni è continuato il calo dei residenti nelle “aree interne” e dal 1° gennaio 2014 al 1° gennaio 2024 la perdita è stata vistosa con il 5% di popolazione in meno, e il declino demografico più evidente nelle “aree periferiche” con un meno 6,3%, e in quelle ultraperiferiche con un meno 7,7%.

Il motivo? Sempre lo stesso: mancanza di servizi pubblici e privati dei tre ambiti essenziali: salute, istruzione e mobilità. Al Sud le perdite sono più accentuate. In “fuga” sono soprattutto i giovani professionalizzati e laureati, il nostro “capitale umano”, con una perdita che Istat calcola in 160mila giovani laureati sui circa 600.000 emigrati. La desertificazione è accelerata in tandem con l’invecchiamento della popolazione, mentre i progetti di ripopolamento restano sulla carta e le amministrazioni comunali resistono con piante organiche all’osso e uffici tecnici quasi vuoti.

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Condiziona il divario digitale. I ritardi nelle ricostruzioni post-sisma delle scuole a L’Aquila. I pochi fondi nel “Bando per la riqualificazione dei piccoli Comuni”

Se sale in quota non c’è più campo. La nuova generazione di infrastrutture a banda larga che potrebbe invece essere un acceleratore di ripopolamento al momento è solo nei programmi dello Stato e negli elenchi sterminati delle opere del Pnrr. Tutti sappiamo ormai quanto oggi sia importante essere connessi alle reti wireless. Che l’assenza o la scarsissima qualità delle connessioni ad alta velocità in fibra ottica nelle zone montane danneggia e svantaggia un pezzo dell’economia del Paese. Che molte aziende, soprattutto agricole, nei territori collinari e montani non hanno o hanno enormi difficoltà di accesso ai mercati degli acquisti online e all’e-commerce che ha rivoluzionato il settore delle vendite. Che chi ci vive e lavora è penalizzato dalla mancanza di copertura e qualità del segnale, che peraltro oggi sarebbe possibile switchando sulla rete satellitare.

La distanza del problema da Roma è segnalata anche dai 144 progetti del “Bando per la riqualificazione dei piccoli Comuni” finanziati con appena 172 milioni di euro. Il Dpcm del 2 agosto del 2024 ha però approvato la graduatoria dei progetti “ammissibili” che sono 1.179, il 45% delle domande presentate da ben 3.359 Comuni, per un fabbisogno complessivo di 842 milioni di euro. Frutto della Legge Realacci numero 158 del 2017 per la valorizzazione dei piccoli comuni.

Altri inquietanti incentivi ad abbandonare i luoghi natii sono altri ritardi nella comprensione del dramma in corso. Un caso è quella della ricostruzione di un’area colpita dura dal terremoto. L’Aquila ha iniziato il quindicesimo anno scolastico senza vere scuole, e con lezioni ancora nei “Moduli ad uso scolastico provvisorio”, prefabbricati installati dopo il terribile sisma del 6 aprile del 2009. Nell’ultimo anno scolastico i prefabbricati avevano ospitato 3.587 studenti. Ma le scuole non dovevano essere il segnale più forte e chiaro della rinascita dei centri montani? Eppure, nonostante fondi per 101 milioni e procedure semplificate, i 18 progetti di ricostruzione di edifici scolastici crollati procedono molto a rilento, e da anni comitati di genitori e studenti chiedono inutilmente di accelerare progettazioni e costruzioni.

Finora sono state inaugurate solo 3 scuole, altre 9 sono in fase di appalto e altre 6 addirittura in fase di progettazione. Eppure, c’è tanta voglia di vivere sul bellissimo Appennino e in città rese più sicure dall’antisismica perché il sisma ha i suoi punti deboli e si può battere. Ma tanti giovani aquilani e delle frazioni intorno alla loro bellissima città hanno frequentato tutto il ciclo scolastico dalle elementari alle medie e alle medie superiori in prefabbricati costruiti “a tempo” e per reggere al massimo per 5 anni. Se la precarietà diventa definitiva non è un altro invito ad andarsene?

Nell’Italia centrale colpita dai terremoti la partita del ripopolamento sta provando a giocarla Guido Castelli, già sindaco di Ascoli e oggi Commissario di governo per la ricostruzione. Contro la desertificazione demografica che corre più veloce della ricostruzione, ha lanciato il nuovo programma “NextAppennino” con “investimenti nell’economia circolare per garantire ricostruzioni come presìdi dei territori”. Lo finanzia il Fondo complementare al Pnrr con 1 miliardo e 780 milioni di euro, 700 dei quali per le imprese il resto per il “rafforzamento delle condizioni socio-economiche, rigenerazione del tessuto urbano, promozione della residenzialità e di soluzioni innovative per favorire la transizione ecologica e digitale”.

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Se l’overtourism soffoca e soffocherà le grandi città, è possibile dirottare quote di visitatori nell’Italia della piccola grande bellezza?

Se da Roma a Venezia a Firenze si implorano numeri chiusi d’ingresso ai turisti che ormai occupano ogni spazio. Nel mondo i viaggiatori per turismo, dai 25 milioni di 70 anni fa sono oggi quasi due miliardi con 451 milioni di presenze registrate in Italia nel 2023 con Venezia con 11 milioni, Milano con 10,4, Firenze con 7,4 milioni, Torino con 3,5 milioni, Bologna con 3 milioni, Napoli con 2,7 milioni con sovraffollamenti turistici, densità ricettive, criticità. Una crescita di visitatori che sicuramente fa bene e fa crescere il Pil ma con dinamiche dei flussi quasi esclusivamente sulle principali città d’arte, concentrate solo in aree ristrette e sempre più soffocate.

Ma voli low cost, organizzazioni in rete con piattaforme di prenotazione dedicate agli affitti brevi, viaggi organizzati nell’Italia alla ricerca di tesori ambientali e culturali, non possono offrire anche bellezze di piccoli centri senza paragoni nel mondo? Gli operatori internazionali e i key player del settore oltre le destinazioni sognate e preferite dai turisti – il prossimo Giubileo annuncia circa 29,2 milioni di presenze annue – non possono immaginare spostamento di quote nelle aree interne che hanno moltissimo da offrire?

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.