L’allineamento delle accise tra diesel e benzina, ennesima occasione persa per fare giustizia sui sussidi ambientalmente dannosi
La maggioranza Meloni in Parlamento, dopo il via libera arrivato dal Governo a fine settembre, ha appena approvato – con grandi imbarazzi – il nuovo Piano strutturale di bilancio di medio termine (Psb). Nel documento si tratteggiano i principali impegni di programmazione economica del Paese, tra i quali spicca «l’allineamento delle aliquote delle accise per diesel e benzina». Nuove tasse: apriti cielo!
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, si è esercitato in un gioco d’equilibrismi assicurando che tale rimodulazione avverrà con «gradualità», sottolineando che «probabilmente ci sarà una diminuzione delle accise sulla benzina e un aumento di quelle sul gasolio». La stessa presidente Meloni si è sentita in dovere di scendere in campo per negare l’evidenza – affermando che non ci saranno nuove tasse –, dato che nei lunghi anni all’opposizione si sperticava nel promettere la cancellazione delle accise che adesso il suo Governo ha invece deciso di alzare.
Ma le perigliose acque della tassazione hanno agitato anche gli animi dell’opposizione, con la segretaria dem Elly Schlein che in Parlamento è intervenuta parlando di una «tassa Meloni che costerà 70 euro a famiglia» e invitando la maggioranza a prendersi «la responsabilità davanti al Paese». Un invito sacrosanto di fronte alle bugie meloniane, cui sfugge però un caveat di un certo rilievo: il differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio, in favore di quest’ultimo, sottrae ogni anno 3,37 mld di euro alle casse dello Stato in quanto sussidio ambientalmente dannoso, che la stessa Legambiente ha proposto di cancellare entro il 2025.
Il Governo propone in modo impacciato di fare qualcosa di diverso, ovvero di alzare un po’ l’accisa sul diesel e abbassare quella sulla benzina, smascherando platealmente in questo modo disinteresse nell’accelerare la transizione ecologica, ma l’opposizione ha perso una preziosa occasione per spiegare quale sia la sua idea (se c’è) di riforma fiscale a sostegno del green deal.
Sappiamo ad esempio che ad oggi la fiscalità italiana di fatto penalizza la mobilità elettrica rispetto a quella alimentata dai combustibili fossili, e soprattutto è noto che il sistema fiscale italiano è regressivo, in netto contrasto con quanto stabilito dell’art. 53 della Costituzione, favorendo di fatto i più ricchi con aliquote inferiori rispetto ai meno benestanti.
Non a caso 134 economiste ed economisti italiani hanno recentemente sottoscritto un Manifesto a supporto di un’agenda Tax the rich per l’Italia, chiedendo di assicurare un maggiore prelievo a carico dei membri più facoltosi della nostra società.
Da qui potrebbe partire un confronto, per una volta costruttivo, su come disegnare un fisco più verde che sia anche più giusto. Cancellare i sussidi alle fonti fossili non è infatti un’operazione indolore – il Fondo monetario internazionale li stima a 63 mld di dollari in Italia, nell’anno 2022 –, in quanto in molti casi i prezzi dei carburanti aumenterebbero, ricadendo sui cittadini. L’unica risposta sensata sta nella facoltà dello Stato impiegare il gettito aggiuntivo per compensare le famiglie più vulnerabili, direttamente o investendo in servizi pubblici, mettendo al contempo in campo una più profonda riforma fiscale in senso progressivo, in modo che siano i più ricchi – i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra – a pagare i costi della crisi climatica. Un dibattito che sembra però ancora troppo alto per una politica dove le tasse vengono agitate solo come manganello o spauracchio, un pendolo che sembra oscillare solo guardando ai consensi elettorali anziché all’interesse del Paese.