Speriamo non piova. Il dissesto idrogeologico? Può attendere. Alluvioni e frane dimenticate un minuto dopo quando tutto ricomincia come prima, con opere e interventi rimossi da leggi di bilancio e interesse pubblico. Che fare?
Il Parlamento dovrebbe affiggere queste parole amare con le quali Francesco Guicciardini, in pieno Rinascimento, mezzo millennio fa, metteva in guardia i suoi contemporanei: “Gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città”. Epitaffio per l’Italia che nemmeno prova a lottare per salvare il salvabile contro le grandi alluvioni, e preferisce annegare tra lamenti e vergognosi scaricabarile sulle colpe della nuova piena in Emilia Romagna, e lanciarsi all’attacco furibondo e del tutto privo di logica contro il Green deal europeo come fanno quotidianamente ministri e presidente del Consiglio, e come ha fatto il leader della Confindustria proprio nei giorni delle nuove devastazioni meteoclimatiche.
Eppure dovremmo aprire con urgenza grandi cantieri e cantieri diffusi per la massima sicurezza possibile dall’emergenza climatica e dal dissesto idrogeologico di cui deteniamo il record. Negli archivi delle catastrofi italiane degli ultimi 80 anni si contano complessivamente circa 1.500 alluvioni con 4.419 località di 2.458 Comuni colpite, e circa 11.000 frane che hanno colpito circa 14.000 luoghi della penisola. Hanno lasciato oltre 6000 morti e centinaia di migliaia di feriti, invalidi, orfani e milioni di sfollati. Mai come oggi abbiamo l’obbligo di guardare in faccia questa realtà rimossa appena passa l’emergenza, ogni emergenza.
La nostra Italia è di una bellezza incomparabile. Ma, detta questa verità, diciamo anche che Madre Natura ha esagerato con la geologia, l’orografia, la morfologia e l’idrologia e regalandoci l’inclinazione verso la più naturale rischiosità idrogeologica insieme ad altri rischi dal sottosuolo con placche e faglie sismiche e sistemi vulcanici, e oggi con il clima cambiato. L’Ispra censisce la cifra impressionante e da record assoluto forse mondiale di 628.808 frane attive dalle Alpi alle Madonie, sul totale delle circa 750.000 frane dell’intero continente europeo. E le alluvioni sono innescate dal carattere “torrentizio” dei nostri 7.494 corsi d’acqua, tra i quali 1.242 fiumi, con forti variazioni di portata che li portano a dilagare se piove troppo, o a sparire se non piove a lungo come è accaduto persino a tratti del Po nel corso della siccità del 2022-23.
Oggi sulla nostra fragilità genetica non piovono più i classici acquazzoni, ma la piovosità annua da record pari 297 miliardi di metri cubi in media di lungo periodo si scarica con flash floods, cicloni extratropicali, uragani, precipitazioni esplosive. E stiamo pagando caro la mancata prevenzione e gli errori idraulici clamorosi del passato, ai quali non mettiamo mano. Uno di questi è l’aver tombato circa 20.000 km di corsi acqua sotto l’espansione urbana delle nostre città, costringendole le loro acque in gallerie con sezioni del tutto inadeguate. Un esempio è il Seveso a Milano che per 9 km penetra nel sottosuolo della città, da dove esonda 2 volte all’anno perché mancano opere di contenimento a monte della città, le utili casse di espansione, che solo Milano è riuscita a realizzare, ma 1 su 4.
Abbiamo forzato i limiti della Natura in barba alle leggi naturali, e anche a quelle dello Stato, consumando suolo come nessun altro Paese, edificando anche su rive di fiumi o sopra i corsi d’acqua, su pendii in frana e in zone alluvionali, senza alcuna difesa. Il boom edilizio dagli anni Sessanta, senza piani regolatori e con silenzi complici sull’abusivismo, ha permesso la più disordinata e cementificazione che ha triplicato in appena 7 decenni il costruito dei 2500 anni precedenti: dal 2,8% del 1956 all’8,3% di oggi, rileva l’Ispra. L’espansione illegale è stata poi sanata da ben 4 condoni edilizi, due parole che in Europa non. conoscono.
In un Paese con queste fragilità, i Comuni e il Parlamento approverebbero immediatamente mozioni e normative per fermare il folle consumo di suolo. Invece, avverte l’Ispra, persino nel 2020, l’anno del lockdown per il Covid-19, in Italia è cresciuto più cemento che popolazione, e il suolo naturale «sigillato» è avanzato di 56,7 milioni di mq, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo! Ad ogni neonato oggi lo Stato “regala” una spianata di cemento da 135 metri quadrati, e la maggior parte in aree a rischio idrogeologico. Anche questo spiega perché siamo tra i primi Paesi al mondo per perdite di vite umane e costi finanziari da dissesto idrogeologico, e il record di soil sealing, l’impermeabilizzazione del suolo.
Ma ieri abbiamo scoperto che ci sarebbe un fantomatico “Piano nazionale sul dissesto idrogeologico” fermo da cinque mesi al ministero dell’Ambiente. Lo ha rivelato il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci, aggiungendo che “rimane ancora fermo perché l’esame sembra essere particolarmente laborioso”. E il titolare del “fermo Piano”, il ministro Pichetto Fratin? Non ha replicato. Forse si riferiva al Piano di adattamento al cambiamento climatico, finalmente adottato dopo 9 anni di aggiornamenti ma che giace ancora nei cassetti ministeriali ma nell’indifferenza generale, e senza finanziamenti né strutture di governance.
Eppure l’Italia ha l’obbligo di reagire alle alluvioni, e di fare i conti con tempi di ritorno delle piene fluviali ormai saltati. Studi e proiezioni, dati satellitari e algoritmi, simulazioni e screening fluviali, osservazioni e analisi e ogni indagine scientifica forniscono quadri di rischio impressionanti. Se nel Novecento i ritorni di piene potevano essere millenarie o capitare dopo 500 o 200 o 100 o 50 anni, oggi l’accelerazione dei cambiamenti climatici ha accelerato le alluvioni che hanno affondato i vecchi calcoli idrologici.
Il campanello d’allarme rosso che la politica non sente o non vuole sentire, è suonato per ben 4 volte nei soli ultimi 2 anni con 4 catastrofi alluvionali nazionali: nel 2022 il 15 settembre nelle Marche e poi a Ischia il 26 novembre, nel 2023 in Romagna dal 1 maggio e poi nella Toscana centrale il 3 novembre. Con due repliche in Toscana il 9 settembre scorso e oggi in Emilia Romagna. Mai vista nella storia delle alluvioni una sequenza così ravvicinata di eventi distruttivi su vasti territori con 47 morti, centinaia di feriti, decine di migliaia di sfollati, e danni complessivi per oltre 15 miliardi di euro! Più un pezzo di Pil andato. Quasi quanto una manovra finanziaria!
La verità che la politica stenta a capire che siamo passati da 5 eventi con tipologia distruttiva come l’alluvione di Firenze 1966 in circa 20 anni nel secolo scorso, all’escalation di oggi con un centinaio di eventi estremizzati dal clima all’anno su aree ristrette ma che fanno morti e danni. Dai circa 4 miliardi all’anno spesi in media ogni anno dal 1946 al Duemila per ricostruzioni e risarcimenti siamo ormai quasi al raddoppio in questo terzo millennio. E aggiungiamoci anche che siamo poi l’unico Paese industrialmente avanzato dove lo Stato fa da compagnia assicuratrice e le polizze a tutela dalle catastrofi sono un tabù nazionale.
Ma l’Italia impreparata deve oggi voltare pagina e affrontare sfide che sono assolutamente alla nostra portata. Deve investire su pianificazioni in tempi medio-lunghi per tutelare innanzitutto gli 8,1 milioni di italiani che vivono nelle aree più a rischio idrogeologico in edifici spesso costruiti negli anni della deregulation.
Che l’impresa si possa fare lo ha dimostrato la struttura di missione “Italiasicura”, nata nel 2014 con il Governo Renzi e proseguita fino al 2018 con il Governo Gentiloni, l’unica che ha provato a riorganizzare l’intero Stato da Palazzo Chigi con una nuova governance, peraltro confermata da recenti normative e centrata sui presidenti delle regioni che restano Commissari di governo per il contrasto al dissesto idrogeologico, con pieni poteri di semplificazione per le opere.
Quella task force tecnica con 20 tecnici provenienti da protezione civile, ministeri e Invitalia, fu smantellata dal governo Conte 1. Chiuse le stanze, distrutti i server con archivi di dati sensibili su circa 11 mila opere, oscurato il primo squarcio di trasparenza con il “portale dei cantieri” georeferenziato e con testimonial Mario Tozzi, rimandato nei rispettivi ranghi istituzionali lo staff tecnico di prim’ordine e formato per la battaglia contro il dissesto idrogeologico senza nemmeno un grazie, lo Stato è tornato frammentato nelle competenze e ha perso il quadro chiaro e complessivo delle cose da fare, degli stati di avanzamento di opere, del controllo sull’operato delle regioni rimaste prive del supporto tecnico che forniva il Governo a tutti i livelli. Italiasicura, nel 2017, ha ricevuto il massimo riconoscimento dell’Agenzia europea per l’ambiente, che individuò la struttura di missione come best practices della prevenzione in Europa.
Oggi, tutto impone al governo di trovare prima possibile un filo comune con l’opposizione, e insieme di fare presto per riorganizzare l’impresa di accorciare la distanza che ci separa dalla massima sicurezza possibile, aggiornando l’unico Piano di opere che c’è – circa 11.000 per un investimento pari a 35 miliardi di euro da realizzare in 10 anni – e mettendo in prima linea la “messa a terra” dei cantieri.
È questa la sfida che può segnare un bivio. Un paese di furbi, come ci vantiamo di essere, anziché spendere solo per riparare gli sconquassi delle catastrofi annunciate, senza contare l’incalcolabile costo delle vite perdute, ha il dovere di riavviare la più strategica opera pubblica. E per la politica oggi vale la pena, per una volta e almeno su questo, non dividersi.
Non è da italiani rimanere inchiodati nel fango e nelle macerie. Fate presto. Sapendo anche che la prevenzione non è un costo a carico del debito pubblico, ma è una misura infrastrutturale e un investimento per la crescita ad altissimo valore aggiunto, anche per gli effetti positivi sull’occupazione. Al contrario, è la mancata prevenzione il vero salasso per la finanza pubblica.