L'Italia al contrario. Mattone, nucleare e abbattere il Green deal. È la linea di Confindustria del nuovo presidente Orsini, che propone la transizione verso il passato tra gli applausi del Governo
Nel giorno delle nuove devastazioni meteoclimatiche in Emilia Romagna con oltre un migliaio gli sfollati per i fiumi in piena, di fronte all’urgenza di aprire cantieri diffusi per grandi e piccole opere utili per “rammendare” l’Italia come proponeva Renzo Piano per la massima sicurezza possibile dall’emergenza climatica e da alluvioni, terremoti, eruzioni, siccità; invece di spingere sulle gigantesche opportunità dell’economia più green guardando in faccia la realtà e proponendo al governo, agli industriali e agli italiani lo sblocco del Piano di adattamento climatico con dentro miliardi di euro in investimenti per ora solo elencati, o anche lo scongelamento di fondi ministeriali non spesi o persino un formidabile rush finale in nome del sacro business per i cantieri del Pnrr che arrancano, la nuova Confindustria di Orsini presenta all’assemblea 2024 a Roma una sorta di ritorno agli anni Sessanta del dopoguerra. E giù applausi per la stanca ripetizione della ricetta classica del Novecento italiano con il ballo del mattone, e l’immancabile appello al nucleare ma senza spiegare dove e come e con quali e quanti investimenti, e perché l’Italia non riesce nemmeno a smantellare le vecchie centrali e a localizzare in un confine comunale il necessario deposito di scorie. Ma tant’é, per l’oggi e per il futuro c’è la nuova parola d’ordine che Orsini evidentemente pensa sia condivisa e a portata di mano: abbattere il Green deal europeo.
Così Confindustria lancia un nuovo immaginario “Piano casa” stile Piano Fanfani, ma in tono molto ma molto minore rispetto alla grandezza dell’operazione del dopoguerra, tutto dedicato ai nuovi operai, nel Paese con più edilizia d’Europa e con più cementificazioni folli di aree alluvionali e franose graziate da 4 condoni. La mette così: “Un piano straordinario di edilizia per i lavoratori neoassunti, il modo concreto di rispondere ad un bisogno primario: la casa, quale bene fondamentale per affrontare dignitosamente la propria vita e costruire un futuro. L’idea che abbiamo proposto, e che il governo ha accolto, è di costituire un tavolo congiunto che coinvolga anche l’Ance, l’Anci, le assicurazioni, le banche, la Cassa depositi e prestiti, i fondi immobiliari e i fondi pensione, per studiare insieme le migliori formule di garanzie finanziarie, così da consentire a fondi di poter attuare i progetti garantendo un canone sostenibile”.
Eppure, basterebbe rileggersi i report più aggiornati per farsi un’idea dello stock edilizio nazionale. Lo ha stimato anche l’ultimo report Cresme-Ance-Symbola calcolando 12.539.173 edifici residenziali che ospitano un totale di 32.302.242 abitazioni di cui il 78,4% è occupato da famiglie residenti. Un numero che rende l’Italia primo paese in Europa per numero di case, che Istat indica a 599 abitazioni ogni mille abitanti, contro una media europea di 506. Un primato che evidenzia il nostro costante boom nelle costruzioni e nel consumo di suolo – l’Ispra calcola per ogni neonato una dote di 135 metri quadrati di cemento – ma con carenze da recuperare aprendo cantieri non di “facciata” con bonus e superbonus ma per i fondamentali: efficienza energetica e decarbonizzazione, antisismica, per città-spugna a difesa dalle alluvioni, per il contenimento delle frane. Tecnologie e business che, sbagliando i calcoli, Confindustria non considera urgenti e utili per l’occupazione.
Invece, in un impeto di vero autolesionismo italiano, viene indicato il nemico numero uno nell’Europa del Green deal, accusando la nuova Commissione di un “approccio ideologico e autodistruttivo nella transizione green”. Parole ovviamente condivise da Giorgia Meloni che dal palco raccoglie applausi quando afferma: “Sono d’accordo con Orsini sui risultati disastrosi frutto di un approccio ideologico del green deal europeo”, la “decarbonizzazione al prezzo di deindustrializzazione è una debacle”, “lo vogliamo dire che è non intelligentissima come strategia?…Accompagnare il tessuto produttivo nella sfida della transizione ecologica non può voler dire smantellare interi settori. L’addio al motore endotermico al 2035 è uno degli esempi più evidenti di questo approccio autodistruttivo… Si è scelta la conversione forzata a una tecnologia, l’elettrico, di cui però non deteniamo le materie prime, non controlliamo le catene del valore, con una domanda relativamente bassa, con un prezzo proibitivo...Banalmente nel deserto non c’è niente di verde, non possiamo rincorrendo il verde lasciare un deserto”.
E allora come ne usciamo? Con il solito banale refrain del ritorno al nucleare senza un rigo sull’empasse clamorosa del deposito di scorie, costi, rischi e dove le collochi le nuove centrali. La mette così il nuovo leader di Viale dell’Astronomia: “L’Italia è chiamata a nuove scelte coraggiose, siamo convinti che il ritorno al nucleare sia strategico. Tutti noi abbiamo imparato che l’indipendenza energetica è questione di sicurezza nazionale: allora perché tutti insieme non appoggiamo il nucleare di ultima generazione, invece di continuare a rifornirci a prezzi crescenti dalle vecchie centrali nucleari francesi? Sì, nel nuovo piano energetico se ne parla. Ma sappiamo tutti che, se cominciassimo oggi, ci vorrebbero almeno dodici anni per poterlo utilizzare”.
La coperta di Linus atomica è buona solo per il disimpegno dalle responsabilità di oggi per l’efficienza energetica e la diffusione delle rinnovabili. Anche Meloni fa promesse sull’atomo: “Abbiamo bisogno di tutte le tecnologie per trasformare l’economia da lineare a circolare…senza dimenticare il nucleare e la grande prospettiva di produrre, in un futuro non così lontano, energia pulita e illimitata dal nucleare da fusione. Siamo la patria di Enrico Fermi se non lo facciamo noi chi lo deve fare…Non siamo secondi a nessuno!”.
Orsini vede nero anche sull’automotive, ma senza citare i responsabili della saga della debacle tutta italiana, Fiat-Stellantis: “Non possiamo perdere altro tempo. La decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una debacle. La storia e il mercato europeo dell’auto elettrica che stiamo regalando alla Cina, parlano da soli. La filiera italiana dell’automotive è in grave difficoltà, depauperata del proprio futuro dopo aver dato vita alle auto più belle del mondo e investito risorse enormi per l’abbattimento delle emissioni”.
Le colpe? Paradossalmente tutte scaricate sul Green deal che “rallenta l’industria italiana” e potrebbe addirittura “compromettere la competitività non solo del nostro Paese, e dell’Europa specie nel settore auto”.
A Teresa Ribera, neo vicepresidente e Commissaria alla “Transizione giusta e alla Concorrenza”, e forse anche a Ursula von der Leyen, saranno fischiate le orecchie perché Meloni rafforza i motivi contro le transizioni energetica, ambientale e digitale che “costano e costeranno migliaia di miliardi al sistema Paese, sono vere e proprie rivoluzioni industriali e che potranno cambiare in meglio la vita di ciascuno di noi e il futuro delle nostre imprese. Transizioni che hanno, però, bisogno di tempo adeguato. Senza che qualcuno, come sta avvenendo in Europa, confonda politiche ambientali autoreferenziali con politiche industriali per la crescita…accompagnare il nostro tessuto produttivo nella sfida della transizione ecologica non può voler dire distruggere migliaia di posti di lavoro, smantellare interi segmenti industriali che producono ricchezza e occupazione”.
Ancora sotto accusa l’addio al motore endotermico entro il 2035 considerato come “uno degli esempi più evidenti di questo approccio autodistruttivo: si è scelta la conversione forzata ad una tecnologia, l’elettrico, di cui non deteniamo le materie prime, non controlliamo le catene del valore”. E quindi? Anche qui ci teniamo le auto più inquinanti?
L’appello del numero uno di Confindustria è anche contro il meccanismo Ets, l’Emission trading sistem che fissa un tetto ai gas climalteranti e che va “assolutamente cambiato”. E continuando così, per il nuovo presidente degli industriali “regaleremo ai nostri competitor internazionali, come sta avvenendo per l’automotive, anche acciaio, cemento, metallurgia, ceramica, carta. Con ricadute negative sugli investimenti, sulla crescita e sull’occupazione”. Applausi.
Tra i sussurri in sala aleggiavano due parole: Mario Draghi. Il suo report sulla competitività è stato l’ultimo appello all’Europa per “investimenti, innovazione, produttività, competenze per recuperare l’evidente svantaggio competitivo nell’energia e nella transizione verde e per l’adattamento climatico”. L’ex banchiere ed ex presidente del Consiglio nel suo documento ha messo il dito nella piaga anche italiana e cioè lo scarso desiderio di affrontare il futuro, anche prendendosi dei rischi, spiegando: “L’Unione europea ha raggiunto un punto nel quale, se non agisce, dovrà compromettere il proprio benessere, l’ambiente oppure la propria libertà”. Un allarme lanciato da un italiano che conosce bene i punti deboli del nostro Paese. E chissà cosa avrà pensato sull’Italia dello stallo, del lamento continuo, che non guarda ai suoi asset più innovativi, alle performance economiche di chi investe e realizza prodotti e tecnologie green, alle nostre imprese tra le più dinamiche sui mercati esteri con aumenti nelle esportazioni che si traducono in aumenti del fatturato e di assunzioni. Oggi, dice l’ultimo report della Fondazione Symbola, circa 3.222.000 figure professionali sono legate all’industria della green economy italiana e rappresentano il 13,9% degli occupati totali, con incrementi costanti per modelli di business orientati alla circolarità e l'efficientamento dei processi produttivi.
Le aziende che crescono di più sono quelle che progettano e lavorano nel segno della transizione ecologica. Forse sarà sfuggito a Confindustria, ma il Piano nazionale integrato per l'energia e il clima (Pniec) del governo per il 2030 ha fissato l'ambizioso obiettivo di veder circolare 6,6 milioni di auto elettriche e ibride plug-in nel nostro Paese. Bene. Molto bene. Peccato che la nuova Confindustria non veda competizione nei nuovi mercati green per l’Italia – batterie di accumulo, energia rinnovabile, infrastrutture e colonnine di ricarica… – e lascerebbe fare la parte del leone a Germania, Polonia e Ungheria e ai cinesi. Chissà se sanno che persino in un settore complesso come quello dell'acciaio, l’Italia è al top nel Pianeta perché è riuscita a cogliere le opportunità di mercato con l’acciaieria Arvedi di Cremona che dal 2022 è la prima grande acciaieria al mondo green, certificata a zero emissioni nette di anidride carbonica, e per questo ha stretto accordi anche con Mercedes Benz per la fornitura di acciaio?
La sostenibilità non è solo una necessità ma è un'opportunità per competere e far competere un'Italia che è già in campo. I modelli di consumo e i cantieri ancorati al passato e le resistenze al cambiamento ci fanno perdere occasioni d’oro.