Ghiaccio bollente. La fusione a tempo di record dei ghiacciai su montagne e aree polari. La sempre più fragile resistenza dei ghiacci italiani, oggi ai minimi storici
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. L’epico incipit dell’epico romanzo “Cent’anni di solitudine” del grande Gabriel García Márquez, mai come oggi potrebbe essere l’epitaffio per i nostri ghiacciai che in questa rovente estate stanno come ghiaccioli sotto il sole.
Nel nostro immaginario il ghiacciaio era sinonimo di un blocco di gelo perenne, immobile, statuario, come l’immutabile “the Wall” barriera del Grande Inverno alta 700 piedi del “Trono di Spade”. Tuttavia, il ghiaccio ha un suo punto debole, ed è nell’essere una delle forme dell’acqua ancorché solida, che reagisce ai fattori climatici esterni e oggi la fase di riscaldamento globale lo porta al cambio inesorabile di forma, verso quella liquida. È una pessima notizia per noi umani perché la drammatica riduzione dei ghiacciai e della compattazione delle nevi in ghiaccio che questa estate fa registrare scioglimenti record ovunque, è l’indicatore più sensibile e visibile di temperature inesorabilmente in rialzo.
Lo scioglimento non impatta solo sugli orsi polari che restano in bilico sui lastroni di ghiaccio che si assottigliano, o sui pinguini che guardano tristi gli iceberg colare a picco o andare alla deriva, ma basta sollevare lo sguardo sulle nostre vette alpine per rendersi conto della trasformazione radicale del paesaggio. Il bianco svanisce, e il nuovo scenario è qualcosa di inedito e mai visto dalle nostre generazioni. È come aprire un nuovo capitolo nel libro della Natura.
Le forme dell’acqua che mutano lanciano SOS clima inascoltati. Quanti ghiacci ci restano?
La glaciologia è una giovane scienza. Iniziò le sue indagini sistematiche solo nel 1894, con l’istituzione della “Commissione Internazionale sui Ghiacciai”, con un salto scientifico dovuto agli studi dei glaciologi italiani impegnati dal 1895 nel controllo ripetuto degli allora nostri enormi ghiacciai con la “Commissione Glaciologica” del Club Alpino Italiano, dalla quale nacque poi il “Comitato Glaciologico Italiano”.
Dal 1911 in Italia i ghiacci sono oggetto di periodiche campagne di rilevamento dei fronti glaciali, con ispezioni, foto e riprese da stazioni fisse. Questa attività ha consentito di raccogliere un’imponente mole di dati e di documentazione fotografica sui nostri 150 ghiacciai-campione.
Così, se nel 1911 i simpatici aspiranti suicidi Phileas Fogg e Passepartout creati da Jules Gabriel Verne ci avessero invitati a salire a bordo della loro mongolfiera per fare “il giro del mondo in 80 giorni”, avremmo potuto ammirare dall’alto panorami di ghiacci italiani maestosi, ghiacciai vallivi con profonde e lunghissime lingue glaciali lungo le valli, estesi blocchi di ghiacci sui versanti montuosi, una miriade di glacionevati con piccole masse glaciali sulle creste dei pendii o nelle cavità.
E se lo facessimo oggi? Vedremmo ghiacci al loro minimo storico, fusioni a ritmi da record iniziate dalla seconda metà del XX secolo. Su scala mondo, il team di ricerca guidato dall’ETH di Zurigo e dall’Università di Tolosa, nell’ultimo studio sul ritiro globale dei 217.175 ghiacciai del Pianeta - esclusi quelli della Groenlandia e dell’Antartide -, hanno rilevato ovunque enormi diminuzioni, e dal 2000 perdite complessive per 267 miliardi di tonnellate all’anno di ghiacci, una quantità che teoricamente sarebbe sufficiente a sommergere annualmente l’intera Svizzera sotto 6 metri d’acqua!
Tra i ghiacciai che si sciolgono più velocemente ci sono quelli dell’Alaska, dell’Islanda - dove pochi giorni fa è collassato improvvisamente il soffitto della visitabile grotta del ghiacciaio Breidamerkurjokull, facendo tre morti - e anche delle nostre Alpi. Ma cambiano anche i bianchi panorami dei ghiacciai di alta montagna come quelli sulle catene montuose del Pamir o dell’Hindu Kush e dell’Himalaya.
I ricercatori del World Glacier Monitoring Service, e dell’Inventario digitale dei ghiacciai che dal 1986 è il database di 70 scienziati di ogni continente, del Randolph Glacier Inventory e di altri osservatori scientifici locali, ci consegnano ormai accuratissime misurazioni da satelliti nelle 19 regioni del pianeta con ghiacci, e calcolano un volume complessivo dei ghiacciai presenti oggi sulla Terra pari a circa 32 milioni di km3, con uno spessore medio di 1.829 metri, e una profondità massima di 4.776 metri e minima a 1.306 metri. Tutti insieme, coprono una superficie di circa 16 milioni di km2, per capirci quasi una volta e mezza l’Europa, ma poco più del 3% dei 510.100.000 km2 di superficie del Pianeta. Ma di questi, circa il 90% dei ghiacci sono in Antartide, e poco più del 9% in Groenlandia, le nostre due grandi riserve di ghiaccio planetarie nell’emisfero sud e nord. Tutti gli altri ghiacci terrestri messi insieme sommano il poco che resta, cioè meno dell’1% del totale.
Effetto clima: la prima pioggia cade anche sui ghiacci della Groenlandia
Il 14 agosto del 2021 è stata una data storica. Per la prima volta dall’inizio dei rilevamenti climatici, al posto dei cristalli di ghiaccio cadde la pioggia sulla vetta della calotta glaciale della Groenlandia. I ricercatori della stazione US National Science Foundation, dal loro osservatorio a 3.216 metri sulla calotta, stimarono in 3 giorni di precipitazioni piovose mai viste prima circa 7 miliardi di tonnellate di acqua cadute sui ghiacci. Le temperature, normalmente molto sotto lo zero, in quei tre giorni eccezionalmente caldi superavano di 18 gradi la media, e la pioggia ha aumentato le fusioni creando fiumi che scavarono ampi canyon dando vita a cascate anche delle dimensioni del Niagara.
Peter Wadhams, tra i massimi studiosi di ghiacci artici marini, nonché capo del Polar ocean physics group all’università di Cambridge, pioniere dei ghiacci con alle spalle oltre 40 spedizioni al Polo Nord e viaggi artici sottomarini su sommergibili militari, dagli anni Ottanta dimostra con i suoi studi accurati l’assottigliamento dello strato di ghiaccio e lo scioglimento del 57% della calotta. La Groenlandia resta ancora un gran serbatoio di ghiacci, ma gli esperti sono concordi nell’indicarla come la principale causa di innalzamento dei livelli oceanici e marini, con grandi problemi per le metropoli e le città costiere, comprese le nostre che al momento rimuovono totalmente il problema.
Anche in Italia la riduzione dal 2007 è inesorabile. Con il clou anticipato al 2030-40
Le nostre Groenlandia e Antartide, sono i ghiacciai alpini che vedono accorciarsi e sparire lingue vallive e calanchi. Lo stress termico per l’aumento delle temperature ha accelerato lo scioglimento di ghiacci che i glaciologi fino a un decennio fa pensavano si sarebbero sciolti intorno al 2070. Invece, sono già scomparsi. O manca poco alla fusione completa perché le proiezioni anticipano al 2030-40 il countdown iniziato dal 2007.
Il confronto con le foto in bianco e nero o virate seppia di fine Ottocento con quelle attuali lascia sbalorditi. Dove un tempo c’erano suoli bianchissimi e perennemente gelati, ora sono boschi e prati, terra e detriti, massi e pietra nuda. Il rapido ritiro è anche una perdita di panorami emozionanti oltre che di grandi riserve di acqua dolce, e il permafrost degradato causa instabilità nei versanti.
Nell’Appennino, dall’Alta Langa a Passo di Cadibona, sui 1300 km di catena montuosa, resiste a fatica l’unico ghiacciaio: il Calderone, nella conca del massiccio abruzzese del Gran Sasso d’Italia, a 2912 metri. Lo ricordava così l’ingegnere militare bolognese Francesco De Marchi, l’avventuroso scalatore che il 19 agosto del 1573, alla bella età di 69 anni, s’arrampicò sul versante settentrionale del Corno Grande: «Un gran vallone tra il Monte di Santo Niccola et il Corno Monte, dove sempre vi è la nieve alta quindeci o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente. E quest’è una quantità d’un grosso miglio di lunghezza, e di larghezza più di mezzo miglio, della qual sempre puoco o assai se ne disfà».
È oggi il ghiacciaio più a Sud d’Europa, un secolo fa era profondo decine di metri e riempiva tutto intero il Calderone ma oggi ha un massimo spessore di ghiaccio residuo di 25 metri, 9 in meno del 1994, come ha rilevato l’ultima spedizione scientifica di Legambiente «Carovana dei ghiacci», con il supporto del Comitato Glaciologico Italiano. I nostri glaciologi, nel loro primo censimento nel Novecento effettuato dal 1925 al 1927, catalogarono 774 ghiacciai italiani, 773 alpini più l’appenninico Calderone. Come tanti festoni, brillavano al sole tra l’Aiguille Blanche du Peutérey e il Grand Pilier d’Angle, sul versante della Brenva nel cuore del monte Bianco e su tantissime altre cime ricoperte di candide visioni di bellezza e compattezza, che neanche lontanamente facevano immaginare la perdita areale prima del 50%, poi del 70% negli ultimi 30 anni e sempre più rimpiccioliti.
Tra il 1957 e il 1958, quando i glaciologi misurarono nuovamente i nostri ghiacci con strumentazioni più precise, ne contarono 835 e la loro superficie totale risultò di 526 km2. Nel terzo censimento del 1988-89 ne identificarono 926 e la misura della superficie totale era scesa a 512 km2. Nel 2006-7, il numero salì a 969 ma con le superfici di ghiaccio scese a 393 km2. Il Catasto dei Ghiacciai Italiani del 2015 elencava 903 corpi glaciali per un totale di 368 km2 di ghiacci. Ma l’aumento costante del loro numero dipende da continue frammentazioni con riduzioni delle dimensioni medie a circa 0,4 km2.
Dal 20 agosto al 10 settembre 2023, l’ultima spedizione della «Carovana dei Ghiacciai» ha verificato clamorose perdite per fusione di storici ghiacciai come il valdostano Rutor che dal 1865 ha perso superfici per circa 4 km2, di cui 1,5 negli ultimi 50 anni; il ghiacciaio piemontese del Belvedere dagli anni Cinquanta si è ridotto del 20% perdendo circa 60 metri di spessore negli ultimi 10 anni; il ghiacciaio lombardo di Dosdè Est dal 1932 si è ritirato di oltre 1 km per il 47% di superficie fusa alla media di 1,6 ettari all’anno; il ghiacciaio del Mandrone del Trentino-Alto Adige, parte dell’Adamello, dal 2015 ha perso 50 ettari pari a 70 campi di calcio.
I rischi dello scioglimento progressivo che provoca frane e slavine
Lo scioglimento comporta anche rischi a valle, come si è visto sulla Marmolada, nel «cuore bianco» delle Dolomiti, il tragico 3 luglio del 2022 quando crollò il seracco del ghiacciaio di Punta Rocca provocando la valanga di 63.300 m3 che ha lasciato 11 morti. I versanti che restano con poco o senza ghiacci diventano anche pareti instabili e franose che oggi monitorate con telerilevamenti aerei e satellitari, tecniche geodetiche e interferometriche, prospezioni geofisiche, sondaggi radar e perforazioni.
I ghiacci in fusione possono diventare anche nuove «fonti» di risorsa idrica. Uno degli esempi, dal giugno 2002, è a 2160 m di quota dove troviamo il più grande lago naturale delle Alpi, il lago «Effimero», così chiamato perché cresce e riduce le proprie dimensioni seguendo le fasi di modifica del ghiacciaio sul monte Rosa del Belvedere di Macugnaga. Il timore di un collasso a valle fa sì che il lago venga svuotato da una condotta allacciata dalla Protezione Civile, che lo tiene nei limiti di sicurezza. E l’acqua arriva a valle. E più si sciolgono più aumenterà il flusso dell’acqua di fusione che dovrebbe essere inserita nel bilancio idrico nazionale per evitare di sprecarla. Va intercettata e immagazzinata per essere gestita nell’agricoltura, per produrre energia idroelettrica, per aumentare i livelli dei laghi e dei bacini idrici nelle fasi di siccità.
Come spiega il vice-presidente del Comitato Glaciologico, Marco Giardino, docente di Geografia fisica e Geomorfologia dell’Università di Torino: “La fusione dei ghiacciai e gli eventi meteorologici estremi generano lungo le pendici una serie di effetti a cascata che vanno rilevati e monitorati costantemente e non possono essere sottovalutati: cascate di ghiaccio dalle cime più elevate, cascate di acqua che si originano dalla fusione glaciale, cascate di detrito che queste acque veicolano verso il basso durante gli eventi piovosi più intensi, cascate di blocchi che staccandosi per frana dalle pareti rocciose ricoprono in parte i ghiacciai”. Teoricamente sono ecosistemi in evoluzione, il cui vuoto verrà sicuramente colmato nel tempo da nuovi ecosistemi. Ma nel frattempo ci sono problemi da affrontare prima che sia troppo tardi.