L’Italia alle Olimpiadi della siccità. Gli effetti disastrosi dell’Autonomia alla siciliana sulla grande sete dell’isola, dove le emergenze sono la normalità affrontate senza un Piano e senza applicare leggi dello Stato
L’amata Regione Sicilia, per il suo bene, sarebbe stata commissariata da tempo da uno Stato degno di questo nome se solo non fosse altrettanto inadempiente sulle infrastrutture idriche. Sarebbe da commissariare per reiterate irresponsabilità decisionali e incapacità strutturali nel provvedere al fabbisogno principale dei siciliani e della loro ineguagliabile terra: quello dell’acqua. Quantomeno, uno Stato minimamente responsabile nel controllo della qualità dei servizi offerti ai cittadini, di fronte al grande spettacolo di inefficienza siciliana, da tempo avrebbe unilateralmente richiesto e avviato la modifica o quantomeno la riforma se non l’abrogazione dello “Statuto speciale” concesso all’isola nell’ormai lontanissimo 1946, attivando i dispositivi normativi con l’emanazione di una legge costituzionale del Parlamento sulla base degli articoli 116 e 138 della Costituzione e dell’articolo 103, primo comma, dello Statuto speciale.
Un provvedimento estremo di uno Stato degno di questo nome che non può solo limitarsi ad assistere all’ennesimo incivile disastro idrico finito sotto gli occhi del mondo intero, come fosse la seconda Olimpiade, triste coda di numerose omissioni e di emergenze disastrose sofferte negli anni ma mai affrontate realizzando quelle opere e quegli interventi strutturali di prevenzione promessi che non si intravedono nemmeno oggi oltre gli annunci.
La resistenza ormai trentennale della Regione Sicilia ad una riforma del settore idrico a seguito della legge Galli approvata nel 1996 è pienamente ingiustificata e fuori contesto nazionale. La situazione è assolutamente sconcertante per l’isola e, di riflesso, per l’intera penisola. Anche per questo il caso Sicilia è oggi la migliore carta dei referendari, lo spot permanente che porta porterà a firmare la richiesta di referendum per abrogare la legge leghista sull'Autonomia differenziata. L’isola sta mettendo chiaramente in mostra tutti i guai del “federalismo” ancorché nella sua versione più estrema di Regione a Statuto speciale. Una concessione non bilanciata dai doveri di efficienza che imporrebbe l'autonomia operativa ad una grande regione italiana come la Sicilia. Il disastro regionale oggi farebbe preferire piuttosto ai siciliani un’orgogliosa retromarcia e il ritorno a più Stato e meno separatismo e indipendentismo e competenze esclusive agli inquilini del fascinoso Palazzo Reale e del Palazzo d’Orleans, oggi sede della presidenza della Regione.
Sicuramente la vicenda della siccità pesa e peserà nel dibattito sull’autonomia differenziata innescato dalla proposta di legge avanzata dalla Lega, storicamente radicata al Nord e poco o nulla interessata alle sorti del Sud. Sicuramente merita un salto ai banchetti per una firma – ma si può anche on line – per centrare entro fine settembre l’obiettivo delle 500mila firme da consegnare alla Corte di Cassazione sul quesito referendario per “l’abrogazione della legge 26 giugno 2024, n.86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
Le prove della piccola patria siciliana con nelle mani il destino della tutela ambientale e della gestione della risorsa primaria raffreddano da sole ogni entusiasmo sull’autonomia, differenziata o meno, peraltro colpita e affondata anche dalla Commissione europea nello Staff working document che il 19 giugno scorso portò all’avvio della procedura d’infrazione per deficit eccessivo, spiegando che “L’attribuzione di competenze aggiuntive alle regioni italiane comporta rischi per la coesione e per le finanze pubbliche…”, che l’Italia “…non fornisce alcun quadro comune di riferimento per valutare le richieste di competenze aggiuntive da parte delle regioni…”, che “…vi sono rischi di ulteriore aumento delle disuguaglianze regionali…”, e di “maggiori costi sia per le finanze pubbliche che per il settore privato”.
Se serviva un tracciante o un indicatore dei vulnus inseriti nello spezzatino regionale cucinato dal ministro leghista Calderoli, la storica prima devoluzione alla Sicilia anche della vastissima tutela e gestione della materia idrica mette in mostra l’autolesionismo e il malgoverno mai sanzionato e lasciato sempre correre e finanziato a fondo perduto.
La Regione Sicilia venne istituita con uno dei primi decreti legislativi della Repubblica, il numero 455 del 15 maggio 1946, delegando all’isola competenze legislative esclusive su quasi tutte le materie di governo, comprese le “acque pubbliche, in quanto non siano oggetto di opere pubbliche d'interesse nazionale”, insieme ad agricoltura e foreste; bonifica; usi civici; industria e commercio; produzione agricola ed industriale; valorizzazione, distribuzione, difesa dei prodotti agricoli ed industriali e delle attività commerciali; urbanistica; lavori pubblici, eccettuate le grandi opere pubbliche di interesse prevalentemente nazionale; miniere, cave, torbiere, saline; pesca e caccia; pubblica beneficenza ed opere pie; turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche; regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative; ordinamento degli uffici e degli enti regionali; stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione; istruzione elementare, musei, biblioteche, accademie; espropriazione per pubblica utilità.
La concessione dello “Statuto speciale” da parte dello Stato fu all’epoca la risposta alle pressanti istanze autonomiste e separatiste che rivendicavano autonomia e indipendenza. E venne conferita all'isola la più ampia autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria – ma con fondi statali – con una libertà di governo imparagonabile a quella delle altre regioni italiane, sia nell’impostazione che nella programmazione e nell’attuazione delle politiche regionali.
Se nel corso della seconda metà del Novecento nello “Stato” siciliano erano già emersi tutti i limiti dell’autonomia, in questo terzo millennio le omissioni e i ritardi sono diventati insopportabili e l’isola è fanalino di coda rispetto al resto della penisola con servizi pubblici locali, certo disomogenei per aree territoriali, ma spesso disastrosi e inqualificabili. Sono tanti i casi da manuale del farsi male da soli. L’acqua riflette il fallimento della Regione, che non fa ciò che deve fare un governo regionale. Non riesce a spendere le risorse inviate dallo Stato per far fronte alle siccità – il ministro della Protezione civile Musumeci calcolava la scorsa settimana il 30% di risorse inviate e utilizzate – e riesce a perdere persino quelle del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): la Regione si è fatta bocciare da Roma tutti i 32 progetti presentati per infrastrutture idriche e per l’irriguo. Servono a poco i commissariamenti se mancano gestori, senza i quali non si partecipa ai bandi.
Se questo è il frutto della “identità siciliana”, la poca acqua che oggi resiste sta rispecchiando in pieno le irresponsabilità della peggiore infrastrutturazione idrica italiana, dovuta anche alla reiterata mancata applicazione della legge Galli che istituì, ormai dal 1996, il servizio idrico italiano integrato con la depurazione e con il riuso delle acque reflue. E lo Stato centrale, cioè tutti noi, sta pagando non solo per l’immagine pessima che viaggia per il mondo, ma ogni giorno, concretamente, i due terzi delle 125.000 euro al giorno di sanzioni comminate per le prime 2 condanne della Corte di giustizia europea per mancanza di depuratori. Tra i circa 2.000 piccoli e medi comuni italiani ancora inadempienti, una bella quota sono comuni siciliani.
Ma la Sicilia preferisce annaspare nell’anacronismo normativo. Delega ancora al 68% dei comuni i servizi industriali di acquedotto e fognature e depurazione, che nessun ente locale è più in grado di gestire da decenni. È un caso unico in Europa affidare agli assessorati comunali, senza risorse e senza personale tecnico adeguato, richieste di riparazioni o sostituzioni di tubi! Ma ogni tentativo di applicazione della riforma di 28 anni fa e di “inviti” a provvedere, contenuti anche nei dispositivi di accesso ai fondi Pnrr, viene eluso o bocciato dall’Assemblea regionale siciliana, che boicotta puntualmente ogni modernizzazione e allineamento col resto d’Italia.
Se in periodi di siccità prolungata come questo sicuramente manca la pioggia, la media di lungo periodo delle precipitazioni sull’isola è confortante. Sull’isola, pur con differenze tra aree geografiche, cadono 15,2 miliardi di mc d’acqua in media all’anno. E l’Autorità di bacino regionale indica fabbisogno medio per tutti gli usi pari a 1,750 miliardi mc all’anno. Siamo ad una dotazione dieci volte superiore alle necessità dell’isola! Calcolando anche circa metà dell’acqua che evapora, ce ne sarebbe sempre in abbondanza, da scongiurare emergenze che più che di acqua sono di menefreghismo e di infrastrutture indegne di un Paese moderno. Se restano scarsissime e inadeguate le infrastrutture idriche primarie – dai sistemi di accumulo in invasi e dighe alle condotte, dalle reti fognarie ai depuratori, dai dissalatori lungo-costa ai sistemi di ricarica controllata delle falde – nonostante i miliardi di fondi nazionali inviati dallo Stato a fondo perduto, è evidente che più che l’acqua mancano le infrastrutture e gli impianti per immagazzinarla, distribuirla, utilizzarla con efficienza e risparmio, e poi depurarla senza inquinare fiumi e tratti di mare.
Nell’anno 2024 affidare la distribuzione di risorsa non alla rete idrica ma ad oltre 300 autobotti di “grossisti dell’acqua” che la “vendono” a privati e ai Comuni, come se fossimo ancora nel Medioevo ma senza la nobiltà e l’ingegno dei Normanni e soprattutto degli Arabi, che resero l’isola un’oasi verdeggiante dove l’acqua non mancava mai, prelevata da pozzi e distribuita dai sorprendenti sistemi cunicolari delle qanat che sottoattraversano ancora oggi la città, è il grande paradosso dell’isola tra le più belle ma malgovernate del mondo.