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Puntata 6

I 3 sismici anni che sconvolsero lo Stretto, il Sud, l’Italia. Dal 1905 all’epocale terremoto del 1908 con 120 mila morti

 |  Speciale Ponte sullo Stretto

1905

Siamo al termine della notte dell’8 settembre. Non si muove foglia, fa molto caldo, nemmeno il buio è riuscito a rinfrescare l’aria stranamente stagnante e soffocante dello Stretto. Nessuno poteva immaginare che per molti quella notte sarebbe stata l’ultima della loro vita.

Lo scossone, avvertito in tutta l’Italia centro-meridionale e lungo la costa albanese, quasi solleva una settantina di paesi dello Stretto sbriciolandoli tra le urla strazianti di chi riesce a salvarsi per miracolo e i lamenti di chi sta agonizzando. Uccide sul colpo 557 persone nel promontorio di Capo Vaticano, dove i danni raggiungono l’XI grado della scala Mercalli tra Tropea e Vibo Valentia, e migliaia di feriti verranno tirati fuori dalle macerie anche dopo giorni di sofferenze estreme sotto il peso di mattoni, travi, calcinacci di case costruite con materiali e malte cementizie sempre più deboli e scadenti.  L’architettura salvavita della “casa baraccata” antisismica, resa obbligatoria dai Borbone dopo i terremoti del Seicento e del Settecento, è un ricordo ormai lontano e dimenticato tra Monteleone Calabro, Zammarò, Mileto, Pizzo, Parghelia, Tropea, Marano Marchesato, Santo Stefano di Rogliano, Mendicino, Bagnara, Villa San Giovanni, Gioia Tauro, Aiello Calabro, San Mango d’Aquino, Serrata, Laureana di Borello, Stilo, Scilla e Briatico. In alcuni paesi, come Aiello Calabro, valanghe di massi franano sulle case lasciando più morti della scossa. E poi le onde di tsunami generata dal sisma sommergono le coste tra Vibo Marina e Tropea e il litorale di Scalea.

Mirna Quasimodo, scrittrice di inizio secolo, nel suo libro “Terremoto e soccorsi in Calabria” farà descrivere così questi attimi da un ragazzo di Parghelia: “Ci vedemmo svegliati da un turbine tremendo [...] Fuori non si vedeva più nulla tanto era fitto il polverio che saliva dalle macerie. Tutti eravamo in strada, chi in camicia, chi coi soli calzoni, chi avvolto in un lenzuolo e qualcuno interamente nudo [...] Si udivano pianti disperati, singhiozzi e grida di Pietà”. Resta come uno degli eventi sismici più forti che abbiamo colpito Italia. Mario Baratta, il grande sismologo dei primi del ‘900, nel suo libro del 1906: “Il grande terremoto calabro dell’8 settembre 1905”, descrive anche numerosi effetti ambientali con fratture nei terreni, variazioni nella portata delle sorgenti e delle falde idriche, una sorta di “esplosioni” di “suoni” e “luci” osservati a ridosso dell’evento. E il maremoto con inondazioni fino a 30 metri all’interno della linea di riva.
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Dall’alba è emergenza totale. Tra i cadaveri si aggirano centinaia di migliaia di feriti e sopravvissuti sotto choc. Vagano tra le macerie senza meta, senza più famiglie né abitazioni. Molti di loro accetteranno nelle settimane successive il biglietto ferroviario e navale di sola andata verso le Americhe e altri mondi, che sarà gentilmente offerto dal re e dal suo governo, e la cinica spinta ad abbandonare l’Italia verrà colta da migliaia che lasceranno per sempre lo Stretto.

I giorni successivi al sisma sono sempre drammatici. Mancano cibo e soccorsi. Manca tutto. Chi è vivo cerca ancora di percepire qualche lamento di familiari e conoscenti sotto le macerie, e c’è chi viene salvato miracolosamente scavando a mani nude. Cercano cibo, coperte, di salvare ciò non stato distrutto. Dal governo presieduto da Giovanni Giolitti parte troppo tardi l’ordine di inviare i reparti militari, e i soldati arriveranno dopo lunghe faticose marce e con scarsi mezzi di soccorso. Troveranno sul posto gruppi di volonterosi partiti da città e paesi della Calabria e della Sicilia rimasti illesi, e fanno quel che possono.

La notizia del terremoto fa arrivare in zona anche giornalisti e fotografi che informano gli italiani e il mondo attraverso reportage e immagini raccapriccianti, e con denunce pesantissime di inefficienze e ritardi. Sul “Corriere della Sera”, è l’inviato di punta Luigi Barzini, che racconterà anche il dopo-terremoto del 1908, che il 12 settembre descrive quel dopo-sisma come una disfatta nazionale: “Qui intorno si muore di fame e di sete [...] Manca il pane ai sani, la carne ai feriti, manca l’acqua, manca il ricovero ai morenti. Intorno ai paesi una lugubre folla dolente si accascia [...] Non hanno neppure i recipienti per andare alle fonti per attingervi; sono silenziose moltitudini che non possono staccarsi dalle rovine delle loro case, dove i cari morirono e che, stordite, aspettano senza forza quegli aiuti che non arrivano mai”. 

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Proprio quel giorno, re Vittorio Emanuele III è giunto in Calabria, accompagnato dal ministro dei Lavori pubblici Carlo Ferraris. Raccontano le cronache che i terremotati si inginocchiano davanti al piccolo corteo e gridano: “Viva il re!”. Ma supplicandolo di fare qualcosa: “Maestà, perdemmo tutto; non abbiamo più case, robe, parenti. Voi solo restate e dio: aiutateci!”. Il re è sconvolto di fronte ai morti e ai crolli totali, e magari ripensa alla scellerata scelta di aver favorito la cancellazione delle norme antisismiche borboniche chiudendo i due occhi sull’eliminazione della prevenzione dal programma del suo governo. Davanti alle macerie di Sant’Onofrio, lo sentono urlare in faccia al suo ministro: “Ma erano casupole che non potevano resistere a tanto urto! È orribile!”. Già, erano delle casupole con pareti di fango impastato con paglia, che a malapena reggevano le sopraelevazioni. Il Savoia riparte raccomandando ai suoi di costruire al più presto delle baracche per i senza casa, ma una volta salpato l’Intendenza non esegue il suo ordine.

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Olindo Malagodi, l’inviato della “Tribuna”, il 13 settembre firma un altro crudo reportage dove si legge: “Di visita in visita, di ispezione in ispezione, l’immanità del disastro va sempre più giganteggiando; la realtà si mostra infinitamente più tragica di qualunque immaginazione...La Calabria è sull’orlo dell’abisso”. E Barzini, sul «Corriere» del 20, racconta la disperazione dei superstiti di Piscopio, che piangono 59 morti: “Tra tutta questa gente vi sono i rassegnati e sono tanti e tanti. Seduti ai lati delle strade, non guardano, non parlano, non si muovono, impietriti, curvi sotto il peso della sventura. Pallidi, alcuni con il viso nascosto tra le mani, aspettano...Questa gente non crede più ai suoi capi, ai suoi signori, ai suoi padroni...Noi abbiamo potuto facilmente constatare che il terremoto ha portato così vasto danno e tanto strazio precisamente perché le condizioni del paese erano sciagurate”.

Il sisma è solo l’ultimo carnefice di una Calabria che le prime inchieste del Parlamento definiscono come “un mondo contadino ad economia feudale”. A Mirna Quasimodo dobbiamo altre scomode verità sui soccorsi raccontate nel suo libro-testimonianza: “…Venne il legname e si cominciò a far baracche. E qui tralascio di parlare della camorra, degli incettatori, degli appalti, dei padroneggi e di tutte le porcherie che si commisero perché non la finirei più e poi perché qualche mio lettore di stomaco un po’ delicato potrebbe rovinarselo forse del tutto”.

Le baracche di legno per i terremotati saranno destinate a diventare abitazioni definitive. Sono rettangoli da 70 m2 di superficie divisi al loro interno in 4 o 5 piccoli rettangoli che diventano stanze abitabili ognuna da almeno 8 persone, minimo due famiglie. Sono del tutto prive di fondamenta e i pavimenti mancano di protezioni impermeabili, mancano gabinetti e scoli. Migliaia di famiglie vivranno per anni in quei tuguri e in quelle condizioni.

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L’Italia intera è solidale. Risponde agli appelli pubblicati dai giornali. Invia indumenti e cibo raccolti da comitati di solidarietà e nel tempo riusciranno a finanziare la costruzione di baracche decenti, non porcilaie. Un soccorso spontaneo rimasto indelebile nella memoria dei calabresi, mentre lo Stato diventava sempre più nemico e sempre più distante.

Il governo vara un decreto per attivare: “Procedure d’intervento per i primi soccorsi, la ricostruzione e l’impiego delle somme raccolte”. Si citano anche aspetti socio-ambientali: scuola, lavoro, viabilità, ripristini delle condizioni del territorio naturale. Ma le corrispondenze degli inviati della stampa racconteranno a lungo la povertà estrema delle popolazioni colpite insieme alla forza e alla fierezza dei calabresi e dei siciliani e dei volontari giunti in soccorso, confrontata con la “rapacità” sugli aiuti dimostrata da alcuni notabili locali e da infiltrazioni della criminalità. I reportage denunciano le inefficienze nei soccorsi governativi e le ruberie di materiali di soccorso. E Giolitti è costretto dalla vergogna che emerge dai resoconti dei giornali e dalle pressioni delle opposizioni, a nominare una Commissione d’inchiesta che porterà alla luce vari scandali come quello dei “Soli 16 milioni di lire distribuiti sui 40 raccolti”, come titola a tutta pagina il Corriere, descrivendo come: “Il terremoto che devastò la Calabria ha servito a troppi, a molti, per commettere atti di camorra... uomini politici hanno fatto affluire la carità pubblica nelle tasche dei loro amici, dei loro sostenitori... il terremoto, insomma, ha rivelato in Calabria l’esistenza di un marcio spaventoso, specialmente tra quelle classi che dovrebbero dare il buon esempio”.

ponte stretto sesta puntata 5Immagini da https://santadomenicapress.wixsite.com/wordpress/il-terremoto-del-1905

LA TERRA TREMA ANCORA. LE SCOSSE DEL 1906 E DEL 1907

L’apocalittico 1908 viene anticipato da altre forti scosse come quella del 14 settembre 1906 che provoca il fuggi fuggi dall’area dello Stretto con crolli che aumentano il numero delle famiglie sfollate. Poi della scossa del 24 ottobre dello stesso anno che fa sobbalzare l’area di Reggio Calabria. Dopo tre mesi di sciame sismico, il 23 ottobre 1907 un nuovo violento terremoto alle 21.40 dall’epicentro di Canolo sull’Aspromonte, in 4 secondi con forza di magnitudo 5.9 sprigiona un’intensità distruttiva dell’IX grado Mercalli, riducendo in polvere e calcinacci e legni contorti tante case e ammazzando tanti calabresi. Un maremoto aumenta l’orrore.  Il sisma lascia altri 400 morti e oltre 600 feriti. Quando il dispaccio con la notizia della nuova tragedia arriva sulla sua scrivania, il Presidente del Consiglio Giolitti fa mettere a disposizione 100.000 lire per gli aiuti, e dispone l’invio del Genio e della Croce Rossa e di reparti militari. Ma i soldati raggiungono solo dopo parecchi giorni e dopo aver superato impervie strade di montagna ostruite dalle frane i tanti piccoli comuni isolati e devastati come Sant’Ilario, Gerace Marina oggi Locri, Brancaleone, Ardore, Gioiosa Jonica, Roccella, Casalnuovo, Palizzi, Pietrapennata, Motta San Giovanni, Montebello, Agnana, Platì, Radicena, Arghillà, Condojanni, Ciminà, Bagnara, Portigliola, Casalnovo d’Africo, Benestare, Siderno, Sinopoli, Condofuri, Cosoleto, Fossato Calabro, Santa Cristina d’Aspromonte, San Luca, Polzi, Solano Superiore, Bovalino, Sant’Eufemia, Staiti, San Procopio, Scido, Antonimina, Zoparto, Roggiano Gravina, Ferruzzano...Trovano morti e superstiti alla fame o agonizzanti per le ferite, storditi dal dolore. Altri aiuti giungono via mare lungo la costa colpita con la corazzata Umberto I.

A Ferruzzano si contano 158 vittime sotto il borgo edificato su un pendio franoso e trasformato in colline di macerie sopra le quali si aggirano i pochi superstiti in cerca di sopravvissuti. Ancora 4 giorni dopo il sisma, quando l’inviato de “La Stampa” raggiunge il paese, lo descrive con queste parole: “Una tomba enorme, dalle macerie ammassate si eleva un fetore insopportabile che mozzava il respiro e inacidiva la gola [...] I cadaveri disseppelliti sono stati adagiati di fianco in piazza Cavallotti tutto il giorno sotto la sferza della pioggia”.

I militari, quando arrivano, finalmente distribuiscono viveri e scavano tra le macerie sotto una pioggia che sembra interminabile. Il riconoscimento dei cadaveri è straziante e avviene in Piazza Cavallotti dove man mano giungono le barelle con i corpi ricoperti da teli. Un impiegato comunale lo solleva e, riconosciuta la vittima, pronuncia ad alta voce nome e cognome tra grida e pianti strazianti dei parenti. Non c’è però tempo per veglie e funerali, e anche la chiesa è in macerie. E solo ventidue giorni dopo il sisma, i militari estraggono l’ultimo cadavere. Nel frattempo hanno costruito alcune baracche e allestito un piccolo ospedale da campo nel paese che contava 534 famiglie, con più di 600 abitazioni, 200 distrutte completamente, 205 inabitabili e le rimanenti in condizione tali “da atterrare immediatamente”.

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Il Centro Meridionale Ricerca Genealogica ha recuperato in anni di encomiabili ricerche le immagini e le storie di quel dopo terremoto a Ferruzzano perché la memoria resti anche come monito.

E l’area epicentrale del sisma fu così delimitata e descritta dal geologo e sismologo Giuseppe Mercalli: “…Certamente la posizione del paese su una altura isolata e in pendio, e la roccia di natura franosa, su cui sono fondate le case ingrandirono gli effetti del terremoto […]. Quanto poi ai pochi morti e feriti sparsi sporadicamente in altri paesi, sono tutti da attribuirsi non tanto alla violenza del terremoto, quanto all’incuria dell’uomo e taluni anche a disgraziate circostanze affatto indipendenti dal movimento sismico […]. Nello studio di questo terremoto, bisogna andare ben guardinghi nel dedurre l’intensità della scossa dai danni subiti dalle case; poiché negli stessi comuni colpiti ora, due terremoti recenti (del 16 novembre 1894 e dell’8 settembre 1905) avevano cagionato lesioni più o meno gravi, le quali in generale, non erano state riparate affatto o mal riparate […]”.

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L’area dello Stretto ormai è una sorta di grande laboratorio sismico mondiale a cielo aperto. Accorrono geologi e scienziati da ogni parte del mondo, e soprattutto statunitensi, inglesi, giapponesi e russi che studiano i terreni con voragini e fratture, verificano gli effetti dei terremoti sui rilievi montuosi e collinari, nelle aree urbane e lungo la fascia costiera. Analizzano la tenuta strutturale delle costruzioni e nessuno si capacita della tenacia con la quale gli italiani costruiscono case crollanti che li uccidono così facilmente.

1908
L’ECATOMBE SISMICA NELLO STRETTO: FORSE 200.000 MORTI

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Sono esattamente le 5.20.27 di una fredda e silenzioso alba d’inverno di lunedì 28 dicembre 1908. In quell’attimo fatale, dalle profondità delle acque dello Stretto parte il terremoto dei terremoti. È un mostruoso scuotimento che sveglia tutta l’Italia meridionale, il Montenegro, l’Albania, la Grecia e Malta, e provoca l’ecatombe nell’epicentro dello Stretto con un numero di vittime che oscillerà per sempre tra le 80.000 e le 200.000, con la cifra più attendibile di almeno 120.000 morti. È classificato come la più violenta catastrofe naturale che abbia mai colpito la Penisola, il più forte sisma nel Mediterraneo negli ultimi secoli, il quarto evento sismico per distruzioni a livello planetario nel XX secolo e fino ad oggi.

Colpisce al cuore la Sicilia orientale e la Calabria meridionale con un colpo di magnitudo stimata tra 7,1 e 7,5 gradi della Scala Richter che in 40 secondi fa saltare e oscillare e franare quasi tutto il costruito con il rilascio istantaneo di tutta l’energia accumulata nel corso del tempo nelle fasce di crosta terrestre sottomarina. È una Faglia killer attiva da sempre, che corre per 30 o 40 km sotto il fondale marino tra Messina e Reggio ad una profondità ipo-centrale tra 10 e 15 km. Si presenta nelle “ecografie” dell’INGV come una lunga fratturazione inclinata verso est tra la costa calabrese e quella siciliana, con un “tuffamento” di circa 40-50 gradi in immersione sotto lo Ionio. Oggi viene studiata con gli strumenti scientifici più avanzati da team di geologi e sismologi di ogni parte del mondo, e in particolare dal nostro centro d’eccellenza mondiale come l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

La rottura del 1908 potrebbe aver coinvolto anche altri segmenti di faglie attive scoperte con rilievi batimetrici e geofisici come la Faglia di Messina lungo il lato occidentale dello Stretto, la Faglia di Sant’Alessio più a sud presso la costa siciliana, la Faglia di Scilla vicino la costa calabrese, associate ad altri eventi sismici storici.

ponte stretto sesta puntata 9La faglia responsabile del terremoto del 1908 mappata lungo l’asse dello Stretto di Messina e in Calabria meridionale.

Le distruzioni sono talmente impressionanti e mai viste o descritte da spingere Giuseppe Mercalli ad aggiungere altri due gradi alla sua scala macrosismica, portandola al nuovo massimo grado di distruzione: il dodicesimo. Se le confrontiamo con il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 da 5,8 gradi o il terremoto del Friuli del 6 maggio 1976 a 6,4 gradi, abbiamo un’idea del terrificante scossone, tra le più potenti esplosioni di energia sismica della storia mondiale.

ponte stretto sesta puntata 10Carta delle isosisme (il grado del danno) del terremoto del 1908 disegnata da Giuseppe Mercalli nel 1909

E pensare che a Messina la domenica 27 dicembre era trascorsa in un clima di festa grande. A pochi giorni dal Capodanno, si festeggiava Santa Barbara. Gente in strada e il teatro comunale strapieno per la prima dell’Aida, con il tenore Angelo Gamba molto applaudito per la sua interpretazione, per l’ultima volta, di Radames, prima di rimanere sepolto sotto le macerie dell’Hotel Europa insieme a sua moglie e ai due figli. A Reggio, poi, era stato appena inaugurato il nuovo e moderno impianto elettrico di illuminazione stradale, e la città notturna aveva cambiato volto.

L’alba più tragica della storia dello Stretto è squarciata da un terrificante boato. Un rombo indescrivibile. Pauroso. Potentissimo. Agghiacciante. Sveglia tutti di colpo e atterrisce. Un attimo e tutto trema, le pareti e i pavimenti delle case oscillano con sempre più forza e intensità e poi iniziano a squarciarsi, a crollare e a franare portandosi dietro tutto quel che custodiscono tra le urla terrorizzanti di chi è dentro.

La scossa è fortissima e interminabile, dura ben 31 secondi di puro terrore. Quando la terra si ferma concedendo la prima tregua, le due grandi città dello Stretto e le città e i paesi intorno e tutti i casolari nelle campagne sono già in grandissima parte mucchi di rovine. Ogni edificio e palazzo storico, ogni chiesa e ogni ospedale, tutte le caserme e le mura urbane sono abbattute o gravemente danneggiate. Piazze e strade sono accumuli irreali di massi e pietre, e di tutto ciò che resta delle travi e dei mobili fatti a pezzi dalla scossa, e sotto ci sono migliaia di corpi umani dilaniati e migliaia di vivi che gridano, piangono e invocano santi e aiuto.

A Messina sugli 8000 edifici della città solo 2 palazzi non hanno subìto danni, e il sisma che ha distrutto quasi tutto l’edificato lascia in piedi come testimoni dell’orrore circa 2000 scheletri di edifici anneriti e senza più fiancate né tetti. Dei 140.000 abitanti sono già circa 65.000 i morti e altre migliaia moriranno presto. A Reggio sono in piedi solo 176 case pericolanti sulle 3600 sotto le quali ci sono altri 15.000 morti sui 45.000 abitanti. Decine di migliaia sono i feriti. Nessuno ha avuto il tempo di mettersi in salvo. E nubi di polvere avvolgono tutto cancellando anche la luce quando inizia ad albeggiare.

Nelle 76 città e paesi della provincia di Reggio Calabria che all’epoca comprendeva anche le province di Catanzaro e di Vibo Valentia, e nelle 14 aree urbane della provincia di Messina, complessivamente oltre 40mila case risulteranno distrutte, 33mila inagibili e 68mila gravemente lesionate. Dal 70 al 100% delle costruzioni urbane sono crollate o restano pericolanti.

I danni partono dal X e dall’XI grado della Scala Mercalli ma gli effetti sono talmente diffusi e mai visti da far aggiungere a Mercalli un grado in più alla scala delle distruzioni sismiche: il XII. Le vie di comunicazione sono impraticabili con strade e ferrovie distrutte, le linee telegrafiche e telefoniche sono interrotte, sono a terra opifici e stabilimenti industriali.

Ma non è finita. Subito dopo il sisma, si scatena una pioggia torrenziale, un improvviso impietoso diluvio. Le migliaia di messinesi sopravvissuti e i feriti che possono cercano ripari. Tra loro c’è anche lo storico Gaetano Salvemini che si è salvato aggrappandosi fortunosamente aggrappandosi a un davanzale. Insegnava quell’anno a Messina, ed è l’unico sopravvissuto della sua famiglia rimasta uccisa sotto i crolli: la moglie, la sorella e i cinque figli, quattro dei quali furono recuperati dopo settimane di dolorose ricerche mentre il cadavere dell’unico maschio, Ugo, non venne mai ritrovato.

ponte stretto sesta puntata 11Gaetano Salvemini, unico sopravvissuto della sua famiglia al sisma

Ma un altro vero inferno si sta scatenando. Si odono esplosioni, tante, accompagnate da improvvise vampate di fuoco. È l’effetto del gas che si sta sprigionando dalle tubature squarciate ai bordi delle macerie. Il gas esplode facendo divampare le fiamme anche dalle voragini aperte dal sisma. Si alza il vento e soffia sulle vampate di fuoco alimentandole e spingendole ovunque senza pietà. Le lingue di fuoco sono incontrollabili, nemmeno la pioggia riesce a spegnerle e anzi bruciano tutto quel che incontrano, compresi i cadaveri e tanti feriti, animali vivi e carcasse di animali e ciò che resta degli edifici ancora in piedi come alcuni palazzi messinesi tra via Cavour, via Cardines, via della Riviera, corso dei Mille, via Monastero Sant’Agostino.

Con la forza della disperazione in quel momento tanti iniziano a correre verso il mare, cercando sul litorale e sulle rive la più naturale delle salvezze almeno dal fuoco che divampa. Nessuno può immaginare che anche il mare stia per diventare, dopo il sisma e il fuoco, la terza trappola mortale. Quanto vedono le acque marine ritirarsi sbarrano gli occhi. Stanno arretrando come se fossero risucchiate dal largo. Lasciano davanti a loro di almeno 200 metri di una secca mai vista prima e mai raccontata. Restano tutti come ipnotizzati, stupefatti, paralizzati di fronte alla scena biblica. Nessuno si rende conto di cosa accade e di cosa sta per accadere. Passano pochi minuti di sconcerto e poi, in sequenza, vedono partire da lontano la prima colossale ondata alta come i più alti palazzi della città. Non hanno il tempo di reagire e il muro d’acqua si abbatte su di loro e su tutto ciò che incontra.

Saranno alla fine quattro immense e altissime onde di tsunami, indescrivibili e raccapriccianti che piombano con violenza inaudita spazzano via tutto ciò che il terremoto non ha abbattuto e il fuoco non ha distrutto. Investono tutta costa dello Stretto ondate d’acqua alte tra i 6 e i 9,5 metri, con il picco di 11,70 metri su Sant’Alessio siculo nel messinese, mentre sulla costa calabrese le altezze massime sono comprese tra i 6 e gli 11 metri, con il picco di 13 metri a Pellaro.

L’acqua inghiotte nei suoi immensi gorghi migliaia di scampati, risucchia i moltissimi disperati ammassati sulle rive, trascina con sé donne, uomini, bambini, anziani, cadaveri, barche, attrezzature da pesca e imbarcazioni alla fonda.

ponte stretto sesta puntata 12Ricostruzioni dello tsunami dopo il terremoto di Lisbona che il 1° novembre 1755 fece 90.000 morti su 275.000 abitanti

Tutti i paesi dello Stretto sono rasi al suolo: Pellaro, Lazzaro e Gallico sulle coste calabresi, Briga, Paradiso, Sant’Alessio e Riposto su quelle siciliane. A Reggio anche i 600 soldati della caserma Mezzacapo sono morti sotto le macerie, come i 230 ricoverati dell’ospedale. La ferrovia è divelta, e molti vagoni sono spariti nel mare. I crolli si contano a decine di migliaia anche da Bagnara a Palmi, da Maletto a Belpasso, da Mineo a San Giovanni di Giarre, da Riposto a Noto a Caltagirone.

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I PRIMI SOCCORRITORI: I MARINAI ITALIANI, RUSSI E INGLESI

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C’è urgente bisogno di soccorsi e soccorritori, di curare i feriti, estrarre corpi dalle macerie o di recuperarli dal mare, di gestire l’emergenza e dare un ricovero agli sfollati. Quasi tutti i medici sono morti o sono rimasti sotto i crolli o sono feriti, come le autorità cittadine. Ma il governo a Roma, come il resto d’Italia e del mondo sono all’oscuro del dramma.

Lo scalo navale di Messina però è una delle principali basi di rifornimento della flotta navale italiana, e ospita la prima squadriglia torpediniere della Regia Marina. All’àncora al largo ci sono le navi torpediniere Saffo, Serpente, Scorpione e Spica, e c’è l’incrociatore Piemonte. Hanno subito danni dalle ondate di maremoto ma sono rimaste miracolosamente a galla con tutti i marinai e gli ufficiali ancorché terrorizzati da ciò che hanno visto e subìto. Manca solo il comandante della Piemonte, il capitano di vascello Francesco Passino. Aveva raggiunto domenica sera i suoi familiari ed è rimasto sepolto sotto le macerie della sua abitazione.

Alle 8 del mattino la Saffo riesce ad aprire a fatica un primo varco tra i rottami del porto e ad ancorare, seguita dall’incrociatore. Sbarcano i marinai. Sono i primi soccorritori di fronte a un dramma inimmaginabile.

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Ufficiali e marinai fanno quel che possono salvando i sopravvissuti scavando a mani nude tra le macerie, e quando cala il buio operano con le luci dei proiettori delle navi. A bordo dell’incrociatore salgono alcuni ufficiali dell’esercito sopravvissuti al sisma, e tra loro c’è Andrea Graziani, capo di Stato Maggiore della ventiquattresima Divisione militare di Messina, al quale il re concederà la medaglia d’oro per aver coordinato le operazioni di soccorso. A lui, infatti, il Prefetto di Messina, vivo per miracolo, con una lettera di suo pugno consegna i pieni poteri.

Ma servono rinforzi e aiuti, e soprattutto bisogna lanciare l’allarme e allertare il governo a Roma. Al tenente di vascello Belleni viene affidato il compito di salpare alla ricerca di un ufficio telegrafico funzionante lungo la costa funzionante, e con due torpediniere appena riparate e messe in condizioni di prendere il largo fa levare le àncore con a bordo 400 feriti gravi da trasportare in un ospedale, sfidando le pessime condizioni del mare. È di vitale importanza la mobilitazione generale dell’esercito perché anche le guarnigioni di stanza a Messina e a Reggio sono state decimate per oltre due terzi, e ogni ritardo ha conseguenze mortali per le decine di migliaia di feriti e per il rischio di epidemie.

Belleni riesce però a inviare il primo telegramma alle 17 del 28 dicembre. Lo trasmette al Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti da Marina di Nicotera con le prime informazioni. Il testo è questo: “Ore 5.20, terremoto distrusse buona parte di Messina – Giudico morti molte centinaia – Case crollate – sgombero macerie insufficienti mezzi locali – Urgono soccorsi per sgombri, vettovagliamento, assistenza feriti – ogni aiuto insufficiente. Comandante Torpediniera Spica”.

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Appena leggono il telegramma, il Presidente del Consiglio e i suoi ministri e collaboratori sobbalzano dalle sedie. Erano all’oscuro dell’immane catastrofe. Erano stati allertati nel primo pomeriggio da un telegramma giunto alle ore 15.40 al Ministro dei Lavori pubblici Pietro Bertolini, con questo testo: “Affrettare invio Calabria soccorsi danneggiati terremoto odierno [...] con stesse norme applicate occasione terremoti 1906 e 1907”, ma nessuno immaginava la catastrofe mai vista.

La tremenda verità, con le esatte dimensioni del disastro sismico, diventa ancora più chiara con altri dispacci partiti in tarda serata da altre località. È ormai quasi notte quando viene convocato d’urgenza il Consiglio dei Ministri nel corso del quale Giolitti mobilita la gran parte delle unità militari nazionali. Il ministro della Marina ordina a tutte le unità navali della “Divisione Volante” comprese le corazzate “Regina Elena”, “Napoli” e l’incrociatore “Vittorio Emanuele” in quel momento in navigazione tra la Sardegna e le Baleari, di cambiare rotta e dirigersi verso Messina. Il ministro dei Lavori pubblici parte in auto diretto al porto di Napoli da dove salirà a bordo dell’incrociatore “Coatit” che salperà con rotta verso Messina.

Sul campo dell’orrore intanto stanno operando i soli marinai sbarcati dall’incrociatore Piemonte che soccorrono come possono e fino allo stremo delle forze. E l’intera giornata del 28 e la notte passano sotto una pioggia battente tra le fiamme degli incendi per il gas che fuoriesce che tornano persino ad alimentarsi.

Ma, alle 9.15 del 29 dicembre, nella rada di Messina compare l’incrociatore russo Admiral Makarov. Al comando c’è Vladimir Fedorovich Ponomarev. E sulla scia c’è anche l’intera squadra navale della Marina dello zar, impegnata in una crociera di addestramento nel Mediterraneo. Mobilita immediatamente gli equipaggi di tre unità della squadra imperiale russa del distaccamento Baltico: le corazzate Slava e Tzésarévitch e successivamente l'incrociatore Bogatyr fattoi salpare dal porto di Augusta, insieme ai marinai delle cannoniere Giljak e Koreec fatte salpare dallo scalo di Palermo. Subito dopo, alle 9.45, compaiono all’orizzonte anche le navi da guerra della squadra navale inglese che sono state dirottate verso Messina: Sutley, Minerva, Lancaster, Exmouth, Duncan e Euryalus. La corazzata Admiral Makarov accosta per prima, riesce ad ancorare nel porto facendosi largo tra relitti e rottami, e il comandante ordina ai suoi marinai di scendere a terra, spegnere prima possibile gli incendi e aiutare i sopravvissuti.

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Alle 10.20, anche le corazzate “Regina Elena” e “Napoli” ancorano e sbarcano i marinai italiani. Tutte le navi da guerra ancorate vengono trasformate in ospedali galleggianti, e utilizzate per il trasporto dei feriti verso Napoli e altre città. Una riunione organizzativa tra i comandanti italiano, russo e inglese stabilisce che la flotta russa operi a Messina e quella inglese lungo la costa della Calabria dove gli incendi arderanno per parecchi giorni. Anche la nave Napoli salpa con rotta verso Reggio Calabria, con a bordo l’ammiraglio Umberto Cagni che quando sbarca coordina l’allestimento di un ospedale da campo e decreta lo stato d’assedio. Divide Reggio in zone che assegna a reparti della Marina e dell’Esercito, mentre i carabinieri organizzano pattuglie di ronda. In quel dramma saranno anche giustiziati sul posto circa 200 persone sorprese a rovistare tra le macerie degli edifici crollati, e molti di loro erano reggini tornati a recuperare ricordi e altri averi nelle loro case crollate.

All’alba del 30, nell’irriconoscibile molo messinese attracca la lancia con a bordo il re e la regina, accompagnati dai ministri Bertolini e Orlando. Erano partiti dallo scalo partenopeo con la “Vittorio Emanuele” carica di materiale sanitario e di pronto soccorso e generi alimentari.

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Come era sempre accaduto, la gestione dell’emergenza è tutta e solo nelle mani dei militari, con l’assistenza alle popolazioni colpite che impegna comitati di soccorso e enti di beneficenza, e con problemi operativi e di gestione irrisolti.

L’Italia intera è sgomenta. I giornali vanno a ruba e mostrano le agghiaccianti prime immagini di città totalmente distrutte, di cadaveri e volti di sopravvissuti nella desolazione più totale. La catastrofe unisce nel dolore tutti gli italiani e fa il giro del mondo. Nei resoconti di giornali e riviste si illustrano scene strazianti e ritardi, ma anche episodi di eroismo dei soccorritori. Ai medici e ai sanitari dell’Esercito e della Marina, della Croce Rossa e dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, si aggiungono i comitati spontanei di soccorritori che nascono nelle città o nei luoghi di lavoro e raccolgono denaro, viveri, indumenti, medicinali. Partono verso lo Stretto squadre di volontari medici, ingegneri, tecnici, operai, sacerdoti e insegnanti. La solidarietà si autofinanzia anche con raccolte di fondi effettuate con le “Passeggiate della beneficenza” organizzate nelle città, annunciate da tamburini e trombe. Da ogni parte del mondo arriveranno poi aiuti per i terremotati italiani. Papa Pio X invierà un milione di lire, da Montecarlo arrivano gli incassi del casinò, da Berlino Guglielmo II invia i primi ricoveri in legno, dagli Usa il presidente Roosevelt stanzia 100.000 dollari chiesti e subito ottenuti dal Congresso.

Come ricostruisce il volume “Il terremoto e il maremoto del 28 dicembre 1908” - a cura di Castenetto, Sebastiano, Pizzaroni, edito da Protezione Civile e INGV nel 2008 - il 3 gennaio del 1909 Vittorio Emanuele III firma il Regio Decreto con il quale proclama lo stato d’assedio e nomina come Commissario di Governo responsabile di tutti gli interventi di soccorso il tenente generale Francesco Mazza, comandante del XII Corpo d’Armata di Palermo. Tra i suoi compiti c’è anche quello, non scritto, di impedire a giornalisti e deputati dell’opposizione di entrare nelle aree più colpite. Con lo stesso provvedimento istituisce un “Tribunale Straordinario di Guerra” con poteri sull’intero territorio. Tra i compiti del generale c’è anche quello del coordinamento tra le forze militari straniere e i reggimenti nazionali mobilitati con i soldati del Genio militare con i “reparti zappatori” delle divisioni di Messina, Palermo, Catanzaro, Bari, Napoli, Torino e Roma. L’ordine perentorio è quello della ricerca e del salvataggio dei sepolti vivi sotto le macerie, delle prime cure per le decine di migliaia di feriti, del seppellimento dei cadaveri. Il Governo istituisce con Regio Decreto anche il “Comitato Centrale di Soccorso” per gestire le decine di migliaia di profughi da smistare in altre Regioni.

IL FALLIMENTO DEI SOCCORSI DEL GOVERNO. RITARDI, CAOS, INCAPACITÀ

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Passano i giorni e il ritardo dei soccorsi è evidente, e questo scatena proteste e polemiche che rimbalzano anche all’estero. I comandanti delle flotte inglese, francese e russa inviano rapporti molto duri ai rispettivi governi mettendo alla berlina l’operato fallimentare del Governo Giolitti. Il presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Interno sono accusati dai socialisti di aver gravemente sottovalutato la catastrofe e anche i primi telegrammi, ritenendoli “troppo allarmistici”.

L’8 gennaio del 1909, il Parlamento si riunisce in seduta straordinaria. Giolitti presenta un programma di spesa per la ricostruzione da 30 milioni di lire. Siamo a ridosso dello scioglimento delle Camere per le elezioni previste a marzo quando Giolitti sarà eletto proprio nel collegio di Messina.

Anche i giornali accusano il governo di aver permesso la costruzione di edifici “eccessivamente fragili” per l’uso di materiali meno costosi e di pessima qualità. Goffredo Bellonci sul “Giornale d’Italia” dell’11 gennaio 1909 scrive: “A guardare queste case di tre e quattro piani, edificate su fondamenta malcerte, di pietre piccole, di canne e di piccoli travi tenuti insieme da una calce che crea barriccio, ricorre piuttosto alla bocca la parola: suicidio”. Altri reportage dimostrano sprechi e cattivi utilizzi dei fondi stanziati o raccolti in occasione dei terremoti negli anni precedenti. Attaccano i comandi militari per “incapacità” nella gestione dei soccorsi, per il caos e la lentezza nella distribuzione dei viveri e dei beni di prima necessità, per i ritardi nel recupero e nel riconoscimento delle salme.

L’immagine della Marina Militare italiana è poi sovrastata dal plauso corale tributato alla “maggiore efficienza e tempestività delle squadre navali straniere”. Giolitti, in Parlamento, non nega disfunzioni e disorganizzazione ma si giustifica con “l’immensità della tragedia”, supportato da giornali filogovernativi che incolpano la “malvagità della natura” e la “fatalità”, e ricordano le folle plaudenti di terremotati durante le visite dei ministri e del re.

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Il problema degli sfollati è drammatico, è l’emergenza nell’emergenza.  Non bastano più le tendopoli militari ormai allagate o inadatte ad ospitare a lungo decine di migliaia di persone. Il Governo decide quindi di avviare la costruzione di baracche di legno nelle aree a ridosso dei centri crollati. Alla fine se ne conteranno 36.000 che, man mano, sostituiscono o si aggiungono alle tendopoli. I nuovi “Quartieri di legno” di Messina sono donati anche da altri Paesi e battezzati come “Villaggio Americano” o Lombardo, Svizzero, Tedesco, Regina Elena…Ma anche il loro allestimento procederà con estrema lentezza. A febbraio è la “Domenica del Corriere” ad attaccare Giolitti illustrando la tragedia in pieno svolgimento con una delle tavole disegnate da Beltrame. La rivista “Critica Sociale”, diretta da Filippo Turati, accusa l’intera macchina organizzativa e chiede le dimissioni dei responsabili.

La costruzione delle baraccopoli viene affidata da Giolitti al Ministero dei Lavori Pubblici che crea “Uffici speciali per i baraccamenti dal carattere semi-stabile”. I “Villaggi Baraccati” prevedono una tipologia costruttiva che ricorda il “Sistema Baraccato” borbonico, cioè casette intelaiate con strutture portanti in legno per garantire maggior sicurezza e rapidità nella costruzione. Il reperimento del legname viene affidato all’”Ufficio approvvigionamenti delle Ferrovie dello Stato”, e il trasporto viene gestito via nave con il trasferimento a terra su enormi zattere di legno trainate da piroscafi e barche di pescatori. Complessivamente i “Villaggi Baraccati” ospiteranno circa 68mila famiglie e 200 “padiglioni” ad uso pubblico. La distribuzione di acqua potabile, lo scolo delle acque piovane e i pozzi neri è a carico della “Direzione Generale della Sanità”.

Il 13 luglio del 1910, con legge n. 466, tutti i “baraccamenti” costruiti e le aree sulle quali sorgono saranno ceduti dallo Stato ai Comuni, e il governo inizierà a farsi carico della prima ricostruzione di edifici pubblici finanziata da una nuova tassa addizionale sulle imposte, lasciando all’iniziativa privata con “il concorso dello Stato” la ricostruzione delle abitazioni distrutte o danneggiate. Ma, per tante famiglie, quelle soluzioni abitative provvisorie resteranno a lungo definitive.

IL “SOCCORSO” DEI MESSINESI AL COMANDANTE PONOMAREV

ponte stretto sesta puntata 21Il comandante russo Vladimir Fedorovich Ponomarev con i marinai e gli ufficiali


Nell’estate del 1921, una Messina riconoscente destinerà a Vladimir Fedorovich Ponomarev 150.000 lire frutto di una sottoscrizione promossa dalla “Gazzetta di Messina e delle Calabrie”, a favore del tenente generale della flotta russa comandante dell’Admiral Makarov, al comandante russo che portò i primi soccorsi nella città terremotata.

Di Ponomarev si persero le tracce. La città lo cercò ma senza esito. Si seppe che nella Rivoluzione russa del 2017 fu oggetto, con la moglie Alexandra Ponomarewa e le tre figlie, delle persecuzioni dei bolscevichi. Trovò asilo a Costantinopoli vivendo in uno stato di estrema indigenza e lavorando come guardiano notturno al porto. Proprio nel porto, nel febbraio del 1921, fu riconosciuto dall’addetto militare italiano in Turchia, Arlotta, che gli suggerì di rivolgersi alla città dove lui e i marinai russi avevano lasciato un ricordo indelebile. Così, il 19 febbraio 1921, il direttore del quotidiano Gazzetta di Messina e delle Calabrie, Riccardo Vadalà, presentò e pubblicò la sua lettera con il suo appello: “…Dopo il terremoto del 1908, ho salvato 1.050 persone come comandante dell'incrociatore russo Admiral Makarov, che fu il primo ad arrivare a Messina. Essendo con mia moglie e i miei figli a Costantinopoli, nella povertà senza il minimo mezzo di sussistenza, mi appello ai vostri cuori, messinesi, questa volta per aiutarmi”. 

Il Sindaco di Messina, Giuseppe Oliva, la lesse in consiglio comunale insieme al testo del telegramma del Console Generale d'Italia Nuvolari che attestava la veridicità delle condizioni critiche dell’ammiraglio, e all’unanimità il Consiglio deliberò: “…che a spese del Comune venga provveduto perché intanto egli e la sua famiglia possano recarsi a Messina, nonché alle spese pel loro mantenimento, fino a che l’ammiraglio abbia potuto trovare fra noi una decorosa occupazione”. Anche il giornale invitò tutti i messinesi a partecipare ad una grande sottoscrizione pubblica e i commercianti a mettere in palio doni per una lotteria i cui proventi sarebbero stati destinati al fondo pro-Ponomarev. I messinesi appresero anche che Ponomarev si ammalò di tifo per l’infezione presa durante i soccorsi nel sisma, e il 20 marzo misero a sua disposizione la somma di 100.235,34 lire. Il comandante chiese di poter raggiungere Messina assieme alla famiglia e il 2 giugno del 1921 arrivarono in città a bordo di una nave italiana e furono ospitati per 6 mesi al Grand Hotel, e molte famiglie organizzarono nelle loro abitazioni feste in suo onore.

LA RICOSTRUZIONE NELLO STRETTO CON L’ANTISISMICA DEI BORBONE

Quando il governo passa alla fase della ricostruzione deve fronteggiare rivolte di superstiti contro l’ipotesi di ri-localizzare paesi e città in siti più sicuri ancorché più distanti delle aree distrutte. Da Messina a Reggio ai piccoli centri cittadini e autorità si oppongono e lo Stato monarchico e il suo governo abbandonano sul nascere ogni ipotesi di “città nuove”, dando il via allo sgombero delle macerie e alle demolizioni degli edifici pericolanti, al ripristino dei servizi pubblici essenziali e alla riparazione delle case abitabili. Vogliono anche recuperare le buone regole anti­ sismiche emanate da Ferdinando IV di Borbone dopo il terremoto del 1783.  

Giolitti e Vittorio Emanuele III incaricano quindi due commissioni di tecnici esperti dello studio di “accorgimenti antisismici” e di “incentivi ai privati” per rafforzare l’edilizia. Vorrebbero ritrovare lo stesso coraggio del passato e, con il Regio Decreto n. 193 del 18 aprile 1909, sono varate: “Norme tecniche ed igieniche obbligatorie per le riparazioni, ricostruzioni e nuove costruzioni degli edifici pubblici e privati nei luoghi colpiti dal terremoto del 28 dicembre 1908”. E, con la Circolare n. 2664 del 20 aprile 1909 vengono definite le relative “Istruzioni tecniche”. Si tratta di un deciso salto di qualità legislativo nella tutela di vite umane. Per la prima volta una legge impone di individuare ed elencare i Comuni a rischio sismico della Sicilia e della Calabria, con l’obbligo di applicare norme tecniche antisismiche. Contenevano rigorose regole per “l’edificazione delle nuove costruzioni e le riparazioni di quelle danneggiate” del tutto simili a quelle varate dai Borbone e già in vigore con il Regio Decreto n. 511 del 16 settembre 1906 varato dopo il sisma del 1905, ma rimaste totalmente inapplicate. Eppure, consentivano edificazioni solo con “una ossatura in legno, di ferro, di cemento armato o di muratura armata, muratura squadrata e listata, telai, cordoli, sbalzi, strutture non spingenti”. Escludevano concessioni di edificabilità “in siti inadatti come terreni paludosi, franosi o molto acclivi”. Limitavano le altezze sotto la soglia borbonica dei 10 metri, vietando sopraelevazioni per non sovraccaricare gli edifici. Imponevano nei centri urbani strade larghe minimo 10 metri.

Le prime case “baraccate” e antisismiche del mondo le fecero costruire proprio i Borbone in Calabria e Sicilia dopo i terribili terremoti del 9 febbraio 1693 e del 5 febbraio del 1783 con effetti da XI grado Mercalli. Erano costruzioni sicure al punto da aver superato senza o con pochissimi danneggiamenti anche il terremoto del 1908 grazie all’utilizzo di una ”intelaiatura lignea all’interno della parete in muratura”, e all’incatenamento di travi e solai alle mura per consentire una buona resistenza alle sollecitazioni sismiche orizzontali. L'ingegner Luigi Pesso sulla rivista "L'Ingegneria Civile e le Arti Industriali", nel 1877 ancora raccomandava con queste soluzioni il “consolidamento delle fabbriche nelle Calabrie contro i danni dei terremoti”,  altezze fuori terra di due o al massimo tre piani, piante rigorosamente simmetriche basate su un corpo centrale di forma quadrata e due ali laterali più basse anch'esse quadrate, solide fondazioni su palificate lignee,  pareti verticali formate da un doppio telaio ligneo collegati da traversi orizzontali,  telaio tamponato con murature in mattoni o pietrame. Buone regole con le quali furono ricostruiti edifici monumentali come il Palazzo Vescovile di Mileto a Vibo Valentia che non a caso ha retto al potente sisma del 1908.

ponte stretto sesta puntata 22Il palazzo vescovile di Mileto a Vibo Valentia che ha retto anche al potente sisma del 1908.

Le stesse norme sono riprese e inserite nel 1911 come obblighi costruttivi nei nuovi piani regolatori di Reggio Calabria e Messina approvati nel 2013 quando ormai, come rileva su “La Stampa” del 20 gennaio 1909 Giuseppe Antonio Borgese in un reportage: “Non è morta Messina. È morto il terremoto di cui non si parla più, che nessuno quasi ricorda se non lo interrogate, che nessuno teme per il domani”. E se il 4 febbraio 1909, dalla città sempre in macerie, Luigi Barzini su “Il Corriere della Sera” spera ancora che “…un grande avvenire si preparerà per Messina”, la vera ricostruzione inizierà solo al termine della Prima guerra mondiale. In quel tempo lontano, nessuno avrebbe immaginato che l’opera di “sbaraccamento” sarebbe durata la vergogna di oltre un secolo. E che la nuova legislazione antisismica, sarebbe stata sepolta sotto l’arrembaggio cementificatorio abusivo, boicottata a furor di popolo e di autorità, con scarsissimi o nessun controllo sull’edificato più rischioso. E che i governi avrebbero dato il primo cattivo esempio investendo appena un decimo delle risorse finanziarie recuperate sull’onda dell’emozione del dopo-terremoto con l’addizionale e con l’aumento delle tasse ferroviarie, nella ricostruzione più sicura di Reggio e Messina.  

LA RINASCITA ANTISISMICA DI MESSINA

ponte stretto sesta puntata 23Le indagini dei sismologi e dei geologi evidenziano i maggiori danni del terremoto e del maremoto nell’area urbana storica e centrale di Messina, la parte di città costruita su terreni alluvionali e meno stabili e con soprelevazioni successive senza adeguati rafforzamenti delle mura e delle fondazioni, e muri poco resistenti a spinte sismiche anche minori perché privi dello spessore necessario e costruiti con impasti con sabbia e ciottoli di fiume o con mattoni tenuti insieme da scarso cemento. Anche l’analisi dei tetti e dei solai crollati dimostra da un lato l’eccessivo peso e dall’altro scarse connessioni con i muri maestri e non a caso furono le prime parti degli edifici a collassare, seguite dalle murature esterne. Gli effetti della scossa furono invece meno disastrosi nella parte più periferica della città, dove gli edifici erano fondati su terreni più stabili e compatti, e con una migliore qualità delle costruzioni, come rileva anche l’analisi di Giorgio Tacconi - su Tecnoring portale delle professioni tecniche - .

Messina inizia però a rinascere dal 2019 con la previsione di larghe strade, grandi piazze e ampi viali sia nell’antico insediamento urbano che nei nuovi quartieri, ingrandita inglobando i villaggi esterni alla città, con il suo nuovo porto e il nuovo sistema ferroviario, e la sua storica e monumentale Palazzata, la cortina di palazzi un tempo nobiliari e di edifici pubblici affacciati sul porto, più volte rimaneggiata dopo terremoti come  quello del 1616 con la progettazione affidata all’architetto Simone Gullì della nuova Palazzata in stile barocco con colonnati e decorazioni, disegnata come una scenografica “quinta teatrale” sul mare. Dopo il violento terremoto del 1783 che la rase al suolo venne poi parzialmente ricostruita senza gli sfarzi seicenteschi. Nell’800, sotto la direzione di Giacomo Minutoli, fu rifatta n stile neoclassico. E quindi, dopo la catastrofe del 1908 toccava al progetto razionalista ma con nuovi criteri antisismici e urbanistici dell’architetto Luigi Borzì. Oggi la Palazzata è il waterfront messinese che la separa dal mare in quel tratto urbano, uno dei simboli della città.

I nuovi criteri per aumentare la sicurezza dalle scosse dei terremoti entrano a pieno titolo nelle progettazioni e nella messa in opera dell’edilizia abitativa. E Messina e Reggio Calabria diventano le prime due città-pilota della ricostruzione più sicura in area fortemente sismiche, due grandi una città-laboratorio della nuova ingegneria e della nuova architettura.

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Il 12 gennaio 1909, il Parlamento nazionale delibera ufficialmente la “rinascita di Messina” sul suo sito storico ma con severe prescrizioni dettate dalla “Commissione tecnica” governativa e con l’adozione obbligatoria di “accorgimenti antisismici”. L’incarico di redigere il nuovo Piano Urbanistico è affidato al dirigente dell’ufficio tecnico comunale, l’ingegner Luigi Borzì, che riprende le linee di sviluppo del “Piano Spadaro” del 1869, e sarà approvato a fine 1911.

Borzì disegna una nuova città razionalista, con palazzi pubblici e privati non più alti di due o al massimo tre piani, con lunghe strade diritte e larghe almeno 14 metri, con una pianta ortogonale e con isolati a scacchiera e con la previsione del raddoppio dell’area urbana pre-terremoto verso nord e verso sud e lungo i torrenti cittadini. Al posto delle mura che chiudevano Messina verso i monti Peloritani c’è la nuova circonvallazione che delimita la città.

Il Piano Borzì, inizialmente, non prevede la nuova “Palazzata” che invece verrà ricostruita di fronte al porto come icona della città con imponenti palazzi in serie e in stile neoclassico e un monumentale colonnato ionico con 37 “porte” di passaggio tra la marina e il resto della città. Evita di realizzare quella sorta di muraglia tra il mare e l’area urbana seguendo alla lettera anche le prescrizioni di sicurezza sismica dettate dalla Commissione governativa che vietano di costruire “edifici destinati ad abitazioni permanenti in prossimità della spiaggia”, imponendo l’obbligo di “una distanza di almeno 100 metri dal ciglio esterno delle banchine o dalla battigia del mare”. Ma nel 1930 fu bandito il concorso per il progetto della nuova Palazzata ancorché dimezzata sia in altezza che in larghezza. Vinse il progetto “Post Fata Resurgo” degli architetti Camillo Autore, Raffaele Leone, Giuseppe Samonà e Guido Viola, con 13 edifici allineati sul fronte del porto tra corso Vittorio Emanuele e corso Garibaldi.

Negli anni ’20 e ’30, al Piano Borzì aggiungeranno costruzioni nel segno del monumentalismo di regime con architetture che evocavano modernismo e classicismo ma pur sempre con tecniche costruttive antisismiche inserite nella nuova normativa edilizia. I 25 anni previsti per la realizzazione del piano con fine lavori al 1936, diventeranno però circa 60 anni poiché i cantieri si conclusero ufficialmente solo a metà degli anni Settanta del secolo scorso, e con l’abbandono scellerato dell’antisismica varata con decreto dopo l’orrore del 1908.

A Messina, peraltro, risultano presentate circa 30 mila richieste di condono edilizio nelle 3 sanatorie dell’abusivismo concesse dallo Stato più il quarto condono mascherato del governo Conte 1 per Ischia inserito furbescamente nelle pieghe della legge 2018 per la ricostruzione del Ponte Morandi di Genova. Se si scorre l’elenco interminabile di cosa risulta “sanato” entriamo nel girone dantesco degli ignavi fatto di sopraelevazioni incoscienti, costruzioni in aree vietatissime sia alluvionali che franose o protette, tramezzi e muri tirati su in una notte e non in grado di reagire alle spinte di un sisma, come denuncia da sempre la Protezione Civile. E se lo Stato nazionale ha preferito chiudere gli occhi e concedere sanatorie amministrative a costruzioni abusive e non conformi agli strumenti urbanistici sottraendole alle misure penali e amministrative, tanta politica locale in nome del consenso elettorale ha lisciando il pelo agli abusivi legalizzando l’accatastamento di costruzioni ad alto rischio crollo.

LA RINASCITA ANTISISMICA DI REGGIO CALABRIA

ponte stretto sesta puntata 25Anche nella ricostruzione di Reggio Calabria, come rilevano studi storici - in particolare Pucinotti, Grillo, Modafferi, De Lorenzo del Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico, Università Mediterranea di Reggio Calabria – furono rese obbligatorie le nuove tecniche costruttive antisismiche a partire dalla “tecnica baraccata”, dalla “muratura confinata o intelaiata” e dalla tecnologia innovativa della “pre-fabbricazione” con utilizzo di “sistemi prefabbricati…formati da travi e pilastri in conglomerato cementizio che conglobavano al loro interno delle travature reticolari metalliche e…dopo opportuna casseratura e realizzazione della muratura…un getto avvolgente di calcestruzzo”. Un esempio di edificio costruito con nuove tecniche più resistenti è la scuola di formazione “R. Piria” - raffigurata nell’immagine sopra - dove oggi si insegna analisi, progettazione, installazione e gestione di sistemi informatici, realizzata con elementi strutturali come pilastri e travi con “armature” di tralicci metallici “annegati” all’interno da getti di conglomerato cementizio.

La ricostruzione della nuova città è nel Piano redatto dall’ingegnere Pietro De Nava, approvato il 5 marzo del 1911. Seguendo le indicazioni della Commissione tecnica del governo, viene rifondata sul sito della città crollata, conservando i suoi caratteri originali nel perimetro dell’area urbana delimitato dai torrenti Calopinace e Annunziata, e con aree esterne destinate all’espansione cittadina. Il progetto urbano ha come asse centrale il sistema rettilineo di Corso Garibaldi, prevede nuovi edifici pubblici con nuove tecniche costruttive antisismiche, a partire dalla “tecnica baraccata”, il sistema combinato legno-muratura utilizzato nell’edilizia privata, la tecnica della “muratura confinata o intelaiata” con membrature aderenti ai pannelli murari, il sistema strutturale misto con muratura confinata da membrature resistenti contro spinte sismiche orizzontali, sistemi prefabbricati formati da travi e pilastri in conglomerato cementizio che inglobano al loro interno “elementi tralicciati metallici” e getti “avvolgenti in conglomerato cementizio”.

Dalla preziosa documentazione edilizia conservata nell’Archivio Storico di Reggio Calabria riemergono le prescrizioni sul “reticolato di muri di fondazione…in muratura listata costituiti da tre strati di muratura di pietrame e malta idraulica…alti ciascuno metri 0.78, ed altri tre strati di conglomerato cementizio alti ciascuno metri 0.30…su detto reticolato di muratura sarà impiantato il telaio di fondazione costituito da un reticolato di travi in cemento armato, dai nodi dei quali sorgeranno i montanti…La trave sarà armata con quattro tondi da 31 mm di diametro e da staffe di millimetri 50 x 6 – I predetti tondi saranno poi legati alle sbarre del traliccio in esse travi annegate; il traliccio costituente il montante, nel tratto che va dal telaio di fondazione al pavimento del pianoterra, sarà costituito da cantonali da 90 x 90/9 e da diagonali di mm 50 x 6 …”

Insomma, tecniche per garantire la massima sicurezza antisismica possibile, poi dimenticate in archivio.

A Reggio Calabria risultano presentate circa 34.000 richieste di condono edilizio nelle 4 sanatorie dell’abusivismo concesse dallo Stato. Anche qui, l’elenco è interminabile di case, casette e palazzi e grattacieli “sanate” abusive o non conformi agli strumenti urbanistici.

MESSINA, LE FAVELAS DEI TERREMOTATI. BARACCOPOLI DI VIRGOGNA

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Questa che stiamo per raccontare sembra la sceneggiatura di uno dei romanzi di Andrea Camilleri, ma non lo è. Anzi, volevamo tanto che fosse una delle sue storie inventate di Vigàta ancorché “tristi e spiacevoli”, strane e misteriose, delittuose e imprevedibili capitate nella quotidianità del suo Commissario Montalbano che alla fine prova sempre a salvare l’onore dello Stato. Difficile farsi ”pirsuasi” che la nostra storia sia la verità, tanto per citare letteralmente il grande scrittore siciliano. Tutti dovremmo provare “un misto di raggia e di vrigogna” per ciò che è accaduto e accade. Camilleri, anzi, avrebbe affidato a Montalbano il compito di svelare i fatti e le responsabilità e di avviare “Il giro di boa” finora mai arrivato. Oggi la “lurdia è dintra di noi” per il desolante imbarazzo assoluto per una storia vera, di profondo disonore e di immoralità per un fallimento nazionale, regionale e locale di cui soprattutto la politica dovrebbe stravirgognarsi.

Accade in Sicilia, Italia, Europa nell’anno 2025, non in un’area poverissima del mondo più disperato. Accade che, passato un intero secolo più altri 17 anni, gli amministratori di Messina e della Regione oggi si pongono ancora il problema di come far sgomberare le favelas fatte di baracche e casette degradate, moltissime delle quali poverissime e totalmente abusive, che ospitano ancora 6.400 eredi della generazione del sisma, i parenti lontani dei superstiti dello schianto del 1908.

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In quel tempo lontanissimo, lo Stato sistemò i sopravvissuti in 36 mila “baraccamenti” di legno, alloggiamenti precari e “a tempo” e finanziati dalla beneficenza privata e da altri Stati, e per questo divisi in quartieri di sfollati battezzati con i nomi dei donatori: “Americano”, “Lombardo”, “Svizzero”, “Tedesco”, “Regina Elena”. Con appena 110 anni di ritardo, solo nel 2018 l’allora sindaco di Messina Cateno De Luca e l’allora presidente della Regione Nello Musumeci chiesero al governo nazionale una urgentissima “Dichiarazione del gravissimo stato di emergenza igienico-sanitaria-ambientale” delle baraccopoli di Messina rimaste ancora in piedi come relitti del sisma epocale. La supplica riportava in elenco di squallori per condizioni disumane e si concludeva così: “La baraccopoli di Messina costituisce una vergogna per la politica nazionale e regionale. Per cento anni non sempre ai buoni propositi hanno fatto seguito i fatti. Va cancellare questa pagina disonorevole. Ora la palla passa a Roma, certi che non mancheranno al governo centrale sensibilità e celerità”. Celerità? Dopo 110 anni di vita in casette di lamiera con tetti in eternit tramandate da famiglia in famiglia? Nessuno ha mai controllato le condizioni di abusivismo e di pura sopravvivenza che richiedevano sgomberi sanitari immediati per la convivenza con scarichi fognari a cielo aperto, ratti, discariche di rifiuti abbandonati, miasmi, rischi mortali di asbestosi?

La richiesta che stratificazioni di autorità locali avrebbero semmai dovuto inviare al re o alla regina, a Giolitti o a Mussolini, ai governi della prima e della seconda Repubblica in nome dell’umanità e della civiltà, l’hanno indirizzata invece al Governo Conte nell’anno 2018. Che ha risposto con il silenzio. Cosicché, due anni dopo, la Regione ripropose la stessa supplica al Governo Draghi chiedendo di cancellare “la vergogna della baraccopoli nella città dello Strettoil governo Conte, come è noto, si è rifiutato di condividere la nostra richiesta di dichiarazione dello stato di emergenza per Messina. Perché Messina non può più aspettare: lo fa da oltre cento anni”. La giunta regionale aveva appena deliberato la dichiarazione del “gravissimo stato di emergenzaper 6 zone di Messina: Annunziata, Giostra-Ritiro-Tremonti, Camaro, Fondo Saccà, Bordonaro-Gazzi-Taormina e Santa Lucia.

Da quelle immense baraccopoli donate nella gara di solidarietà nell’emergenza, nel tempo una parte dei baraccati sono stati trasferiti nelle prime case popolari in muratura, con superfici dai 22 ai 42 m2 e giardinetto annesso, fatte costruire a schiera dal regime fascista intorno al 1930 qua e là in una decina di zone della città. Ma, dal dopoguerra, alle baraccopoli preesistenti si aggiunsero via via altre baracche e ricoveri improvvisati dove è nato il 45% degli attuali abitanti, come rileva una indagine dell’Università di Messina, messinesi poverissimi che vivono ancora nella stessa baracca ereditata da bisnonni, nonni e padri. Le baraccopoli, insomma, anziché essere abbattute o quantomeno risanate, nel tempo si sono allargate e ingrandite occupando nuove aree con lamiere e eternit e sfruttando fino all’ultimo centimetro gli spazi tra una baracca e l’altra con costruzioni alla buona con poca calce e tanto legno e lamiere e eternit. Sono sempre state rimaneggiate e rabberciate alla bell’e meglio con l’ingegneria della povertà, sempre riparate e risistemate con aggiunte di teloni plastificati, tendoni e cartoni, e sempre rimaste prive dei servizi minimi di igiene. All’inizio del 1990 a Messina si contavano almeno 80 aree con piccoli e grandi baraccamenti e con quasi 4.000 baracche una attaccata all’altra, in crescita incontrollata e sotto il pericolo mortale di tetti e pareti di amianto.

In questi agglomerati di disumanità tollerati dalla classe politica le famiglie sono state illuse e sono vissute nel miraggio della conquista di una casa popolare. Sono state invece ereditate di padre in figlio, da nipote a pronipote come rifugi poverissimi tra promesse di demolizioni e nuove case mai mantenute. Le famiglie si sono moltiplicate vivendo in condizioni disumane e denunciando deterioramento di strutture portanti, muffa, crepe, problemi alle tubature, elevata umidità per essere direttamente sul terreno senza camere d’aria o fondamenta, infiltrazioni d’acqua per tetti non a norma e autocostruiti in amianto o lamiera.

ponte stretto sesta puntata 28Immagini da sicilians quotidiano indipendente

Lo Stato? Si è voltato dall’altra parte, pur continuando ad incassare le accise sulla benzina per la ricostruzione di Messina imposte dal 1909. Hanno vinto burocrazie, disinteresse, condizionamenti criminali, assuefazione al peggio. Nel 1990, la Regione si svegliò dal lungo sonno e stanziò 500 miliardi di vecchie lire ma spendendone appena 80 in ben 28 anni per abbattere circa 500 baracche con la promessa non mantenuta che dopo la demolizione avrebbe costruito case popolari per le famiglie sfollate. Ancora nel 2004 la investiva altri 70 milioni di euro per “riprendere le demolizioni” e costruire “nuovi quartieri residenziali popolari”. Sono passati altri anni con fanfaluche di progetti di risanamento, ma con le baracche appena sgomberate sempre subito rioccupate o riassegnate.

Oggi, 117 anni dopo, quei ricoveri vergognosi sopravvissuti al re e al fascismo, a 2 guerre mondiali e a 68 governi della Repubblica come monumenti al degrado del dopo terremoto infinito sono ancora parte della città dove si vive, parole dell’allora presidente della Regione Musumeci valide ancora oggi, “in condizione da terzo mondo…condannata a vivere nel degrado”.

Sono ancora 2.200 le famiglie con circa 6.700 messinesi custodi dei baraccamenti. Nel 2021 se ne occupò Mara Carfagna da ministro per il Sud del governo Draghi, assegnando uno stanziamento di 100 milioni per abbatterle e iniziare a costruire casette popolari. Il governo, con decreto legge del maggio 2022, nominò come “Commissario temporaneo” per il risanamento delle baraccopoli il Prefetto di Messina con poteri poi trasferiti a Renato Schifani eletto presidente della Regione, che a sua volta nel marzo del 2023 li trasferì al suo sub-commissario Marcello Scurrìa. Sono poteri veri e straordinari, esattamente come quelli per la ricostruzione del ponte Morandi di Genova. Hanno permesso demolizioni di una parte delle baraccopoli e l’assegnazione di 650 alloggi negli ultimi 6 anni, rispetto ai 532 alloggi assegnati nei 28 anni precedenti. La struttura commissariale opera da un lato facendo demolire le baracche, e all’altro acquistando alloggi sul libero mercato per le assegnazioni o facendo costruire nuovi edifici. Ma tutto procedeva al rallenty.

Oggi, dopo oltre un secolo, la città dovrebbe essere alla nuova svolta del risanamento definitivo. Almeno sulla carta, è stato affidato al nuovo “Piano Città” lanciato però dall’Agenzia del Demanio dello Stato e si spera sia l’occasione buona, come rileva anche Giorgio Santilli, attentissimo osservatore di piani e misure urbanistiche e infrastrutturali su “Diario Diac”, il sito più aggiornato sulle infrastrutture e le costruzioni in Italia. È di circa un mese fa la firma dell’accordo tra la direttrice dell’Agenzia del Demanio, Alessandra dal Verme, tra gli alti dirigenti dello Stato più esperti, efficienti e scrupolosi, e il sindaco di Messina Federico Basile e il presidente della Regione Renato Schifani. La supervisione della struttura operativa è affidata alla struttura del sub-commissario al risanamento guidata fino al 10 febbraio scorso da Scurria oggi però fresco di revoca da parte del commissario Schifani, che lascia il suo ruolo descrivendo il momento come “l’ora più buia per il risanamento soprattutto per le famiglie che vivono ancora nelle aree degradate”. Al suo posto è appena subentrato Santi Trovato, capo del Genio Civile. Un passaggio di scena inatteso. Ma tant’è, il Piano ora rilancia il risanamento dei 2 “baraccamenti” di Camaro - 36mila m2 per 239 nuclei familiari - e di Bisconti - 90mila m2 per 217 nuclei familiari -, e la trasformazione delle 2 caserme Masotto e Nervesa, in un’area complessiva di 211.365 m2.

ponte stretto sesta puntata 29Le aree da risanare nel nuovo Piano dell’Agenzia del Demanio

L’Executive Summary del Piano ha l’obiettivo di avviare un “…grande processo di rigenerazione urbana incentrata sulla riqualificazione delle baraccopoli”. Promette interventi di housing sociale per creare “eco-quartieri rigenerati lungo le principali direttrici urbane”. Per Schifani è “un passo decisivo verso il risanamento”. Per il sindaco è “la restituzione alla città di spazi per troppo tempo rimasti in stato di degrado”. Si aggiunge il PNRR che ha finanziato progetti su 6 baraccopoli demolite affidando al Comune la costruzione di nuovi alloggi popolari per 145 milioni. Vedremo se passerà ancora un altro secolo o se il Demanio finalmente metterà la parola fine alla grande virgogna nazionale.

Nella prossima puntata. Nel 1921 arriva il progetto di sotto-attraversamento dello Stretto con un avveniristico tunnel sottomarino. Nel 1952 fa sognare i “pontieri” l’americano Steinmann, il “Mago dei ponti” che promette al mondo intero: “La Sicilia non sarà più un’isola!”. E il 13 ottobre del 1955 a Palermo nasce la Spa “Ponte di Messina”. Ma soprattutto nel 1969 il Governo lancia il grande “Concorso internazionale di idee per il collegamento stabile viario e ferroviario tra Sicilia e Continente”…

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.