
Il lato oscuro e rimosso dello Stretto

Indagini di paleo-archeologia e studi di sismologia riportano a galla il lato oscuro dello Stretto, la zona d’ombra che tendiamo a rimuovere ma si annida anche nelle profondità tra Reggio Calabria e Messina, uno dei territori tra i più sismici del Mediterraneo e dove l’energia accumulata nel tempo viene da sempre scaricata con effetti e modalità sempre più dirompenti.
Spesso dimentichiamo di vivere in un Paese sismico per la particolare posizione geografica al margine di convergenza tra le due grandi placche africana ed euroasiatica, costantemente sottoposte a forti spinte compressive tipiche di un Pianeta “vivente”. Ma noi italiani continuiamo a distinguerci per le nostre non invidiabili specialità di essere contemporaneamente tra i più esposti e tra i meni difesi dal rischio sismico, di saper perdere facilmente la memoria superata la paura dell’evento continuando ad accumulare edilizia pronta a crollare per l’assenza o la carenza delle minime norme di sicurezza antisismica. Altro che un Paese di furbi! I furbi sceglierebbero la difesa dalle scosse, anche in virtù di una edilizia sicura e con tecnologie e nanotecnologie all’avanguardia e messe a punto dalle nostre capacità e dalla nostra ricerca che produce sicurezza oltre confine. Per questo, mai come oggi, bisogna guardare in faccia il rischio e accettarlo per quello che è, cancellando quella nostra presunzione di potercela sempre cavare toccando ferro o supplicando un santo martire. Ricordare cosa c’è sotto lo Stretto nasce dall’urgenza di voltar pagina per cambiare un destino che non è immutabile.
Da CFTIvisual – Atlante delle fonti visive dei terremoti italiani INGV
Nell’Italia ottava potenza economica mondiale non si può continuare a morire sotto le macerie come in passato, ma si devono applicare prima possibile i progressi dell’architettura, dell’ingegneria, della sismologia e della geologia con campagne di diagnostica degli edifici, investimenti pubblico-privati per la cantieristica anche leggera con tecnologie e nanotecnologie non invasive, sistemi di rinforzo strutturale, isolatori, nuovi materiali per un programma diffuso di adeguamento sismico del patrimonio costruito esistente, pubblico o privato. Conoscere i fenomeni naturali e sapere quanta insicurezza c’è intorno a noi riduce la paura e avvia l’autoprotezione e la prevenzione che devono essere applicate con urgenza e determinazione tra Scilla e Cariddi dove si concentra la sismicità più elevata come lungo la nostra dorsale appenninica.
Non è una scoperta. Il grande Aristotele, il mitico Plinio, l’urbanista Vitruvio, l’enciclopedico Leonardo e i tanti pionieri dell’ingegneria, della geologia, della sismologia hanno sempre messo in guardia in guardia dalle insidie. Nei luoghi dello Stretto l’orrore sismico si è riprodotto da sempre con incredibile brutalità. È una delle case history mondiali per un problema da non dormirci la notte, per la gran parte del patrimonio edilizio di una fragilità impressionante, tirato su alla bell’e meglio negli ultimi settant’anni con una intensa cementificazione anche e soprattutto abusiva che ha innalzato edifici di ogni tipo e sopraelevando ogni piano senza quella sicurezza imposta dal tempo dei Borbone e dell’Unità d’Italia e che oggi è tecnicamente possibile ma è nelle nostre mani. Oggi i fondali e le superfici tra Calabria e Sicilia, oltre le classificazioni sismiche, hanno una base di conoscenza straordinaria delle condizioni geologiche, geomorfologiche e geo-tecniche dell’immediato sottosuolo, gli esperti sono in grado di spiegarci se queste possano alterare, e con quali effetti, le caratteristiche di un’onda sismica amplificandola o deformandola. Informazioni che fanno la differenza.
Per questo, in questa puntata, vale la pena iniziare da un ripasso della nostra storia sismica più antica che oggi non va oscurata perché è una storia che può essere cambiata.
INGV Database delle sorgenti sismogenetiche italiane
Che lo Stretto, da sempre, sia vittima di terremoti lo attestano le prime testimonianze risalenti al I secolo a.C., e la sua storia sismica rilevata da un paio di secoli negli studi approfonditi dei nostri sismologi da Marcello Bonito a Giuseppe Mercalli, da Mario Baratta a Enzo Boschi, da Filippo Bernardini a Carlo Meletti, da Emanuela Guidoboni a Gianluca Valensise e ai tanti esperti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e del Consiglio Nazionale delle Ricerche, della Protezione Civile e di molte università. Hanno catalogato e analizzato eventi storici che, passata la paura e sepolti i morti, sono stati a lungo fatalmente rimossi.
Il libro più completo sul sisma epocale del 1908 - “Il terremoto e il maremoto del 28 dicembre 1908: analisi sismologica, impatto, prospettive”, a cura di Guido Bertolaso, Enzo Boschi, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, INGV-SGA - nella sezione sui terremoti e i maremoti, a cura di Alberto Comastri e Dante Mariotti, riporta il primo evento sismico conosciuto risalente al 91 a.C., con scosse che fecero crollare gran parte del primo abitato di Reggio Calabria. Ma già Strabone, geografo e storico greco nato nel 63 avanti Cristo, al paragrafo 6 del capitolo 1 del libro VI della sua “Geografia”, descrive un terremoto nello Stretto come “seismoi”, al plurale, riferendosi ad un cluster di scosse, riportate anche da un testo del filosofo greco Posidonio, nato nel 135 avanti Cristo, dedicato alle vicende storiche di Reggio Calabria fin dalla sua fondazione: “Poco prima della guerra Marsica anche alcuni terremoti distrussero molta parte dell’abitato”. Anche Giulio Ossequente, scrittore latino vissuto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo dopo Cristo., nel suo “Libro dei prodigi” racconta così quel terrae motus del 91 a.C.: “A causa di un terremoto intorno a Reggio, una parte della città e delle mura crollarono”.
Scavi archeologici nel sito di Torre degli Inglesi a Capo Peloro, presso Torre Faro nel messinese, hanno oggi fornito prove geologiche di depositi marini che gli esperti considerano indizi di un paleo-tsunami che, con tecniche di radiocarbonio, è stato associato a un forte terremoto avvenuto nel 17 d.C.. Lo descrive anche Flegonte di Tralle, lo storico greco della prima metà del II secolo d.C., liberto dell’imperatore Adriano e autore di un compendio storico in 16 libri che copre l’arco cronologico dalla 1ª alla 229ª olimpiade - dal 776 a.C. al 137 d.C. - riprendendo a sua volta le cronache di Apollonio Discolo detto il Sofista, un “grammatico” ovvero insegnante di storia, geografia, fisica e astronomia di Alessandria d'Egitto. Oggi quel sisma antico è classificato come il primo evento con effetti simili al terremoto del 1908 sia per estensione che per energia rilasciata dal sottosuolo, ed è stato studiato in particolare dai sismologi Guidoboni, Muggia, Comastri e Valensise.
Ma nel 374 d.C. colpì lo Stretto anche un altro violentissimo sisma, anch’esso oggi considerato un “evento gemello” dell’ecatombe del 1908, che fu seguito da un maremoto che completò le distruzioni lungo le fasce costiere di Messina e Reggio Calabria cancellando ogni insediamento. L’area fu poi ripopolata man mano con la rarefazione e la scomparsa della memoria storica del terribile evento. Oggi, però, restano come testimonial della tragedia le lapidi e gli epitaffi scoperti in diversi scavi archeologici, le tracce recuperate dalla paleo-sismologia che mostrano non solo distruzioni di abitati iniziali ma anche le dinamiche di quel sisma con significativi sprofondamenti delle coste calabresi e siciliane, poi ripetute nella loro dinamica anche con gli effetti del sisma del 1908.
Altri riferimenti nello studio della sismicità nello Stretto sono il potente sisma che lo colpì nel 650 dopo Cristo con magnitudo 6.3, e altri terremoti segnalati nel prezioso ”Atlante delle fonti visive dei terremoti italiani”, il database dell’INGV-terremoti con oltre 2.000 immagini relative a scosse studiate, georeferenziate, consultabile attraverso una interfaccia WEB-GIS.
Altezza quote di risalita delle onde del maremoto sulle coste siciliane e calabresi con interruzione cavi sottomarini.
LA FAVOLA DEL PONTE DI CARLO MAGNO
Ma ora rientriamo nella nostra storia delle vicende del Ponte sullo Stretto. Erano trascorsi ormai un migliaio di anni dalla stupefacente impresa della costruzione del “ponte a tempo” esteso sul mare per la bellezza di 3 km a pelo d’acqua, ordinata nel 250 avanti Cristo dal futuro Pontifex di Roma e allora Console Lucio Cecilio Metello al termine della vittoriosa prima guerra punica contro i Cartaginesi, e che 2275 anni dopo resta sempre come l’unico guado che unì le due sponde. Fatti passare da una riva all’altra legionari, cavalli, carri e persino gli elefanti, l’attraversamento galleggiante fu poi abbandonato dai costruttori alle correnti marine.
I due territori affacciati sul braccio di mare continuarono così a lungo ad essere collegati solo dal via vai di imbarcazioni di ogni tipologia, ma soprattutto dalle navi di torme di invasori barbarici. Conclusa l’epopea dell'Impero Romano, infatti, l’Italia diventò terra di conquista, e la Sicilia finì nelle mani di Vandali, Ostrogoti, Goti, Bizantini, Arabi, Saraceni. E se nessuno pensò di ripetere l’impresa di Roma sul tempestoso braccio di mare tra Tirreno e Ionio, qua e là nell’Alto Medioevo si sparse la curiosa leggenda della nuova sfida per un secondo Ponte galleggiante esibita da un gran re: Carlo detto Carlo Magno, re dei Franchi dal 768, re dei Longobardi dal 774 e, dalla celebrazione in pompa della messa di Natale dell’800 nella basilica di San Pietro a Roma, incoronato da Papa Leone III come “Imperator et Augustus” d’Occidente per regnare anche sull’Italia “Per grazia di Dio”.
Chissà, forse travolti dall’esagerazione per l’impressionante biografia del nuovo sovrano, ci fu a corte o chissà dove chi tramandò anche il fascino di un secondo attraversamento immaginato dal re carolingio che avrebbe chiesto di verificare le condizioni per la ripetizione dell’ambizioso progetto di attraversamento. Della nuova sfida alle forze della Natura non esistono però prove documentali, non sono emersi carteggi con richieste e ordini perentori agli esecutori, mancano mappe e disegni storici che possano attestare la volontà di riprovare a realizzare l’incredibile impresa. Ma, tant’è, verba volant, e fecero volare parecchio anche la leggenda del Ponte.
Si racconta, dunque, che se re Carlo aveva il suo gran da fare regnando su un impero vastissimo quanto l’intera Europa, se combattè per la conquista di terre da dominare e governare guidando personalmente ben 53 campagne militari e spedizioni di conquista, se non c’è nemmeno un rigo sull’opera di ingegneria civile e marinara scritto dal suo biografo ufficiale Eginardo autore dell’opera “Vita et gesta Caroli Magni”, del secondo tentativo dell’Opera Maxima nello Stretto fu tramandato ai posteri qualcosa di verosimile.
Ci fu una volta, infatti, chi fece girare la suggestione del re dei Franchi pensieroso sulla sponda calabrese con affaccio sul mare e sulla sponda siciliana, che condivise con i presenti la considerazione di quanto in fondo fossero vicine e così “strette” le due rive e, colto dall’enfasi del combattente e avendo il potere assoluto, sognò la costruzione di un passaggio ancorché “mobile”. Si narrava tra le corti e le piazze che il sovrano che fece realizzare strade, ponti e canali soprattutto nell’Italia settentrionale, avrebbe persino incaricato i suoi migliori Meccanici, gli architetti e gli ingegneri di oggi, del progetto galleggiante. Ma che questi, dopo aver provato e riprovato a immaginare ipotesi di fattibilità, non sarebbero andati oltre alcuni schizzi andati però perduti e quindi introvabili ma che, pare, riportassero delle sequenze di ponticelli su imbarcazioni in mezzo al mare. L’idea, insomma, se c’era si sarebbe sgonfiata quasi sul nascere, e il re dei re del Continente europeo avrebbe così abbandonato l’idea, e per la seconda volta Carlo Magno rinunciò ad una impresa sulle acque.
IL FALLIMENTO DEL RE. LA VIA D’ACQUA DANUBIO-RENO MAI CONCLUSA
Carlo Magno visita il sito del canale per collegare il Mare del Nord al Mar Nero. Incisione di Jean Michel Moreau
Già, l’invincibile Carlo Magno aveva alle spalle l’abbandono del progetto di apertura di un canale d’acqua per il trasporto più veloce e sicuro di uomini creando una via navigabile tra il Mare del Nord e il Mar Nero, unendo i bacini del Reno e del Danubio attraverso lo scavo della “Fossa Carolina”o “Canale di Carlo Magno”. L’idea, sorprendente e realizzabile anche in quel tempo, finì in un teatrale e inatteso fallimento.
Si trattava di collegare il fiume Altmühl, affluente del Danubio, con il fiume Rezat Svevo, affluente del Meno attraverso lo scavo di un fossato di una larghezza tra 2 e 3 metri e una profondità di 1,5 metri per una lunghezza di 3 chilometri, all’incirca la distanza tra le due sponde dello Stretto, nel punto in cui la loro distanza era minima, e da dove sarebbero confluite nel Reno. I lavori per una delle grandi opere di ingegneria idraulica dell’Alto Medioevo che dimostrava l’ambizione del re nel voler unificare l’Europa anche attraverso vie di comunicazione fluviale, iniziarono nel 793 inaugurati dallo stesso Carlo Magno. Ma il progetto incontrò insormontabili difficoltà tecniche, forse anche errori madornali, e lo scavi di terreni argillosi e paludosi con forti e incessanti piogge si riempirono inesorabilmente di acqua con crolli di argini che fecero saltare il progetto reale. Per quell’impresa ingegneristica Carlo Magno aveva impegnato migliaia di uomini tra schiavi, contadini servi della gleba e soldati, all’opera con rudimentali zappe, pale e picconi, scavando anche a mano e trasportando terra su carriole e slitte di legno trainate da animali da tiro.
Oggi restano testimonianze dello scavo della “Fossa Carolina” nei pressi della cittadina di Treuchtlingen, in Baviera nella zona di Graben bei Weissenburg, peraltro nata come insediamento urbano sulla riva dell’Altmühl a servizio dello scavo. Il Canale Reno-Meno-Danubio è stato completato solo nel 1992.
IL TEATRO DELL’ATTRAVERSAMENTO. I PUPI E LA LEGGENDA DEL PONTE
Non ci sono quindi prove storiche di tentativi di collegamenti anche instabili nello Stretto durante il regno di Carlo Magno che durò dal 768 all’814, tanto più che l’impero Carolingio non aveva nemmeno il controllo diretto sulla Sicilia, all’epoca parte dell’impero Bizantino e sotto minaccia di incursioni arabe. Possiamo però supporre come suppongono gli storici che solo nell’immaginario popolare navigò per secoli la leggenda del Ponte di Carlo Magno. Rafforzata peraltro, nella Sicilia dell’Ottocento, dall’incredibile successo popolare del “Teatro dei Pupi” che emozionava raccontando le gesta di marionette-eroi medievali animate da abilissimi pupari nel clangore di scudi e spade, e sullo sfondo di scenari immaginari. Raccontava, come racconta ancora oggi, anche le gesta di Carlo Magno e dei suoi Paladini di Francia, primo tra tutti Orlando, disposti a combattere e a morire per un ideale. Tra storie, favole, trucchi scenici, rappresentazioni spettacolari, c’era sempre il re con i suoi abiti sfarzosi e la corona in testa sormontata dalla croce che probabilmente contribuì a trascinare fino a noi anche la “pupiata” della meraviglia di un impegno per collegare le due sponde sognato ma impossibile da mantenere e in fondo mai preso. E a Palermo fa sognare la Compagnia “Carlo Magno” nata per iniziativa di Enzo Mancuso ultimo discendente della famiglia di pupari che ha aperto il teatrino dell’Opera dei pupi nel quartiere Borgo Vecchio.
COME I RE NORMANNI RIPROVARONO A COLLEGARE LE DUE SPONDE
Lo Stretto di Messina disegnato da Gabriel Bodenehr
Altre scosse fecero sobbalzare l’area dello Stretto. In particolare quella del 31 agosto del 853 con magnitudo 6.3 quando il “grande terremoto” devastò Messina. Fu un evento descritto anche nel libro “liturgico” della Chiesa siciliana con la sua cronaca e un testo “apocalittico”. Come il sisma del 10 dicembre 968 con magnitudo 6.0 che colpì lo Stretto quando era sotto il dominio normanno di Ruggero d'Altavilla duca di Calabria e re di Sicilia.
Nel 1060, suo fratello Roberto detto il Guiscardo, da ambizioso condottiero che aveva espugnato Palermo e altre città sconfiggendo le truppe bizantine, per motivi espansionistici e di trasporto militare e logistico pare avesse ordinato lo studio di un progetto di collegamento sul mare tra le due terre siciliana e calabrese. Ma, come per Carlo Magno, mancano fonti storiche che attestino l’ordine e il progetto. Ma la leggenda navigò anche dopo la sua morte, il 17 luglio del 1085 durante l'assedio di Cefalonia, per febbre tifoide. L’idea, se c’era, è rimasta sull’introvabile pergamena.
Nel 1140 arrivò il turno del re normanno di Sicilia Ruggero II, uno di quei sovrani illuminati che amava circondarsi dei più eruditi in ogni campo. Per conoscere in dettaglio anche il suo regno - confini, città e abitati sparsi, strade, isole, porti, fiumi, laghi, passi di montagna, “climi” e altro - commissionò al più illustre geografo del tempo, l’arabo Muhammad Al Edrisi, uno splendido planisfero d’argento con una gigantesca mappa fatta incidere “su un grande e massiccio disco di argento puro, diviso in cinque sezioni, del peso di circa centocinquanta chilogrammi”, affiancata dall’opera geografica che lo descriveva e lo illustrava, il celebre “Libro di Ruggero” in nove tomi completati nel 1154 con descrizioni e resoconti di ogni luogo, dalle distanze alle caratteristiche fisiche e geografiche, uno dei trattati di geografia più antichi e importanti, tradotto dall’arabo in latino agli inizi del Seicento e poi in francese nel 1840. Dell’incredibile Tavola Rogeriana oggi restano copie nelle quali il disegno della Penisola risulta notevolmente deformato.
La capitale della Sicilia normanna del XII secolo era però una Palermo diventata straordinario snodo di bellezza, culture e commerci, che celebrava anche la sua potenza nella gestione dell’acqua quando altrove morivano di sete. I viaggiatori arabi medievali hanno lasciato descrizioni deliziate di fonti, sorgenti, piscine, fontane, peschiere e polle zampillanti dentro e fuori la cerchia delle mura. La pianura agricola era attraversata dalle canalizzazioni reticolari di superficie, le saje, che svolgevano al meglio il loro servizio di irrigazione. Sofisticati sistemi di refrigerazione passiva erano le “torri del vento” e le “camere sotterranee rinfrescate” di origine persiana. L’acqua per veniva prelevata dai pozzi di straordinari sistemi cunicolari di Qanat, grazie ai quali gli arabi introdussero coltivazioni di agrumi, riso, gelsi, datteri, meloni, peschi, aglio, cipolla, canna da zucchero, pistacchi, banani, mirra, zafferano.
In quella città così trasformata il re Ruggero, nel 1154, fu affascinato anche dall’idea di collegare le due sponde dello Stretto. Fece così avviare delle “esplorazioni” preliminari lungocosta per far studiare le direzioni e la forza delle correnti marine e le problematiche legate alla realizzazione di un Ponte stabile o galleggiante tra le due rive. Ingaggiò per queste verifiche i migliori esperti dell’epoca, e questi avviarono persino delle perlustrazioni subacquee oltre ad accurati accertamenti sui due litorali costieri, ma non si ha notizia di lavori avviati. I sapienti ingegneri e architetti normanno-siculi si fermarono agli schizzi su pergamene, e il re si arrese di fronte ai costi proibitivi e probabilmente ai rischi di fallimento.
Il 26 settembre 1172, ore 13.40, l’“ora nona” descritta nei testi religiosi, Messina fu colpita da un nuovo terremoto definito “spaventoso e molto terribile”. Come quelli che fecero tremare lo Stretto anche il 17 novembre del 1255, citato in un antico Codice del monastero del SS. Salvatore, il 17 maggio del 1256, e il 10 novembre del 1429 quando alle ore 16.20 il sisma fu “grande e spaventoso”.
1464, IL MIRACOLOSO ATTRAVERSAMENTO DELLO STRETTO
SAN FRANCESCO DA PAOLA SUL SUO MANTELLO STESO SULLE ACQUE
Cosa è un miracolo? “Una cosa meravigliosa che susciti meraviglia, sorpresa, stupore, in quanto supera i limiti delle normali prevedibilità dell’accadere o vada oltre le possibilità dell’azione umana, un fatto straordinario e superiore alle possibilità comuni”, si legge sull’Enciclopedia Treccani. Miracolo è quel “par che sia una cosa venuta Da cielo in terra a miracol mostrare”, scriveva Dante. Anche oggi c’è chi spera nel “miracolo” della costruzione del Ponte sullo Stretto, e non perde occasione di annunciare: “Sarà un miracolo dell’ingegneria italiana”.
Ma un miracolo c’è già stato sulle acque tra Scilla e Cariddi ed è il miracoloso attraversamento che vide protagonista San Francesco da Paola che navigò davanti a testimoni sbalorditi rimanendo saldamente in piedi sopra il suo mantello che in parte stese sul mare e in parte trasformò in vela legata al suo bastone. Trasportava con sé anche due confratelli nel leggendario passaggio che avvenne il 4 aprile 1464.
Accadde che, sulla riva di Reggio Calabria, con i due confratelli, aveva chiesto a un barcaiolo di traghettarlo gratuitamente all’altra sponda, ma questi rifiutò e allora il santo stese sulle acque il mantello, legò una estremità al suo bastone facendone una vela e così raggiunse Messina. Papa Paolo II, per accertare il miracolo la cui eco raggiunse le corti di tutta Europa, ordinò un’inchiesta che si concluse con l’accertamento del passaggio miracoloso, tanto più che il prelato incaricato da Roma, narrano i resoconti ecclesiastici, fu anche colpito dal santo che prese con le mani dei carboni ardenti da un braciere senza scottarsi. Morto Paolo II, però, anche il successore Sisto IV ordinò una seconda inchiesta, che portò per la seconda volta all’approvazione pontificia nel 1474.
A Catona Calabra c’è un monumento al miracolo del santo che fu beatificato nel 1513 da Leone X, canonizzato il 1° maggio 1519 e proclamato “Patrono della gente di mare della nazione italiana” nel 1943 da Pio XII. È venerato oggi come patrono della Calabria e della Sicilia, e a lui si affidano gli uomini e le donne di mare, i naviganti e i pescatori e anche i bagnini di salvataggio.
La Chiesa tramanda la sua storia come quella di un monaco taumaturgo e sempre accanto ai poveri e agli infermi, ai lebbrosi e ad ogni vittima di angherie e soprusi dei potenti che la giustizia non osava contrastare ma che lui denunciava apertamente minacciando di castighi divini anche il re di Napoli, Ferrante d’Aragona. E, in una Napoli che lo accolse con una folla incredibile, quando il re gli offrì un vassoio pieno di monete d’oro per finanziare un convento in città, lui rifiutò e prendendone una, sotto gli occhi anche del sovrano, la spezzò con le dita facendo sprizzare sangue e gridando: “Sire, questo è il sangue dei tuoi sudditi che tu opprimi e che grida vendetta al cospetto di Dio”.
1693, LA RUINA
SICILIA E CALABRIA DISTRUTTE DAL SISMA DI MAGNITUDO 7.4
IL PIÙ FORTE TERREMOTO DELLA STORIA D’ITALIA
La carta geografica della Sicilia e della punta della Calabria con i luoghi colpiti dal sisma del 1693.
Sotto, la legenda della carta geografica con le zone “ruinate” dal terremoto (fonte Azzaro e altri)
Altri terremoti avevano colpito l’area dello Stretto il 20 maggio 1202, il 5 aprile del 1230 con magnitudo 6.0, nel 1310, il 28 e il 29 maggio 1494 con una sequenza che causò a Messina danni rilevanti e il crollo della parte superiore della porta meridionale della città e di un consistente tratto della cinta muraria, poi dal 25 febbraio al 7 aprile 1509 con una sequenza sismica che fece danni da Reggio a Messina con vittime e l’epicentro stimato sui fondali dalla Piana di Gioia Tauro a Scilla. L’11 novembre del 1561 un evento di notevole intensità interessò sia Reggio che Messina alle 3,40 con una scossa “fortissima” e “terribile e lunga due paternoster”. Dall’8 giugno all’agosto del 1599 un’altra lunga sequenza sismica colpì l’area causando danni rilevanti alle abitazioni di Messina e Reggio e nei paesi intorno e costringendo gli abitanti ad abbandonare le città per un lungo periodo e a rifugiar nelle campagne alloggiando in edifici rurali o in baracche di legno e di fortuna. Il 12 agosto del 1635, mentre era ancora in corso l’eruzione dell’Etna, alle 6,30 una nuova forte scossa colpì Messina lesionando edifici e sentita fino a Catania e ai paesi dell’area etnea.
Ma l’inferno in terra arrivò con la fortissima scossa che partì dalla nostra “Faglia di Sant’Andrea” alle 21 di venerdì 9 gennaio 1693, annunciata da terrificanti boati e che devastò completamente l’area. In un amen, le case di una settantina di paesi siciliani iniziarono a ondeggiare come fondali di un palcoscenico, e poi a crollare sotto gli effetti del sisma al IX grado della scala Mercalli. Ricordarono i sopravvissuti che la prima scossa della lunga sequenza sismica “durò sopra lo spatio della recitatione d’un intiero simbolo de Santi Apostoli”. Ma era solo l’inizio dell’evento che avrebbe portato al Big One seicentesco che sconquassò parte dell’isola allora dominata dagli spagnoli. Lo scrittore e storico palermitano Antonio Mongitore, nella sua ”Istoria cronologica de’ terremoti di Sicilia” descrisse: “…l’orribilissimo terremoto, senza alcun dubbio il maggiore il più pernicioso che tra tanti avesse danneggiato la Sicilia, e sarà sempre l’infaustissima sua memoria luttuosa negli annali dell’isola, tanto per la sua durazione, quanto per la rovina portata dappertutto”. Mario Centorbi, letterato di Avola, annotò: “Non fu persona che da profondo sonno svegliato non fusse; onde con lumi, candele e fiamme accese, verso il ciel gridava: pace, mio Dio, pietà, misericordia! E l’arciprete don Francesco Micciardi, più d’ogni altro atterrito abbraccia e impugna un crocifisso a mano, e a piedi scalzi s’incammina alla chiesa, e con occhi piangenti e voce mesta implora da Dio pace e pietà, corse seguendo a lui ciurma di gente. S’incamminò per le chiese; anzi all’arrivo nel convento de’ padri zoccolanti per adorare Nostra Signora della gratia e l’Immacolata Concettione era con lui quasi tutto il popolo [...] Altro non si vedeva che cantar litanie, rosarij e devote preghiere”.
Il giorno dopo, un sabato senza scuotimenti, diede l’illusione che tutto fosse finito. Ma domenica 11 gennaio, alle 9 del mattino, la morte sismica ritornò sull’intera isola e parte della Calabria uccidendo e straziando uomini e animali sotto i crolli. Dopo il primo colpo, passata un’ora ne arrivò un secondo e poi un terzo fortissimo sisma continuò a distruggere e ad uccidere fino alla più terrificante e catastrofica scossa italiana con magnitudo 7.4 e con distruzioni del XII grado della Scala Mercalli, che l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia cataloga come il più forte terremoto della nostra storia, oltre la scossa distruttiva del 1908 che raggiunse la magnitudo di 7.1, e tra i più potenti che abbiamo mai colpito l’area del Mediterraneo. Fece sobbalzare anche le terre della Calabria e l’intero Sud fino ad Amalfi, provocando soprattutto in Sicilia immani devastazioni e l’innesco di una mostruosa onda di maremoto che devastò le coste dello Ionio. Alla fine contarono oltre 54.000 morti sotto i crolli di quasi tutta l’edilizia nella zona sud -orientale dell’isola, con 45 dei 70 centri abitati trasformati in macabre collinette di macerie a perdita d’occhio sotto le quali rimasero intrappolati cadaveri e carcasse di animali e anche decine di migliaia di feriti agonizzanti. Fino a un secondo prima erano palazzi nobiliari, chiese e poverissime case di Catania, Acireale, Sortino, Ragusa, Modica, Melilli, Lentini, Avola, Augusta, Noto, Caltagirone, Vittoria, Comiso, Palazzolo Acreide, Ispica, Occhiolà, Carlentini...
I danni furono impressionanti anche a oltre 150 chilometri dall’area epicentrale. La sequenza sismica, analizzata dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Sismologia dai sismologi Filippo Bernardini e Carlo Meletti con Emanuela Guidoboni, ebbe un devastante impatto anche sull’ambiente naturale con fenditure nel terreno con fuoriuscite di gas, acqua calda e materia fluida, centinaia di frane e crolli di spezzoni di montagne su strade e sentieri, deviazioni dei corsi d’acqua. Anche l’Etna eruttò lava, lapilli e piogge incandescenti. E ondate di mostruosi tsunami fecero strage lungo la costa da Messina a Siracusa con onde alte anche 15 metri che fracassarono imbarcazioni e edifici travolgendo con furia aree urbane e campagne e poi, ritirandosi, trascinando al largo anche i superstiti.
IN SICILIA LE PRIME “CITTÀ NUOVE” E ANTISISMICHE D’EUROPA
I Borbone inviarono in Sicilia anche il loro luogotenente Giuseppe Lanza, Non solo per seppellire i morti e per evitare epidemie e “ristorare i superstiti”, ma per progettare una ricostruzione con tecniche che oggi definiamo “antisismiche”, mai vista prima in quelle dimensioni, imponendo “Città Nuove” e i primi Piani Regolatori con una straordinaria innovazione urbanistica.
Lanza ha dovuto fronteggiare l’opposizione istintiva di religiosi, baroni, proprietari terrieri e anche di sfollati che non vollero essere trasferiti lontani dalle proprie macerie, ancorché su aree più sicure. Le nuove città furono indicate da alcuni come “un sopruso imposto dagli spagnoli”, e da Catania a Lentini e da Siracusa a Caltagirone l’opposizione riuscì persino a fermare alcune progettazioni. Ma architetti e ingegneri disegnarono i nuovi insediamenti di Noto, Avola, Scicli, Buscemi, Ferla, Giarratana, Sortino, Biscari (Acate), Monterosso, Fenicia Moncata (Belpasso). Realizzarono aree urbane mai viste prima con strade ampie e edifici più robusti, al massimo di due piani. Sui ruderi di Occhiolà prese forma la Città Ideale di Grammichele, l’armonico equilibrio di simmetrie con il suo impianto rinascimentale perfettamente esagonale e la meraviglia della piazza centrale. Ragusa, invece, fu sdoppiata con un nuovo abitato. La rete delle città di impianto medievale che punteggiavano il Sud-Est della Sicilia, fatta a pezzi dal sisma, vide il più diffuso cantiere che i Borbone fecero diventare il più grande laboratorio europeo di edilizia sicura e di estetica barocca. Un caso unico anche per la qualità architettonica e urbanistica, frutto di una cultura progettuale avanzata per l’epoca che riconfigurò gli spazi con le nuove costruzioni tirare su nella massima sicurezza allora possibile. Tutto questo grazie a squadre di architetti, ingegneri, capimastri, artigiani, decoratori, stuccatori, operai.
Ai Borbone va riconosciuto il merito di aver creato bellezza e architetture nuove, di aver ridotto la vulnerabilità dell’edilizi. Diversi palazzi rimessi in piedi allora sono ancora oggi monumenti all’edilizia più resistente, testimonianze eloquenti della fattibilità e della necessità di costruzioni e ricostruzioni antisismiche.
Grammichele, la "città perfetta" nata dopo il terremoto del 1693 per gli sfollati di Occhiolà. Unica al mondo per le caratteristiche architettoniche della sua pianta esagonale
1783, L’ORRIBILISSIMO TIRRIMOTU FA CROLLARE I PROGETTI DEL PONTE
LA CASSA DEI BORBONE VA ALLE “CITTÀ NUOVE” E ANTISISMICHE

Dopo un 1747 segnato da un altro terremoto che causò crolli e lesioni nei muri delle case di Reggio e dintorni per 130 scosse in 4 mesi che costrinsero la popolazione a riparare nelle campagne, e dopo un’altra micidiale sequenza sismica che iniziò l’8 giugno e durò fino all’ottobre del 1770, nella zona dello Stretto arrivò la catastrofica scossa, l’ecatombe che arrivò nel mercoledì festivo dedicato a Sant’Agata e che raggiunse l’impressionante magnitudo 7.1.
Colpì alle 12.50 del 5 febbraio 1783. Seguita da altri quattro terrificanti terremoti che insieme fecero scempio della gran parte dell’edilizia di 180 centri abitati, con effetti da XI grado Mercalli e la carneficina di almeno 60.000 morti. La descrisse così uno dei testimoni, il letterato Tiberio D’Aquino: “...dal Profondo si sentì sparare un grosso cannone sotterraneo, fece tal scoppio che il soglio della finestra s’aprì, la Casa tremante ora alzava in aria, poi buttava a destra e poi a sinistra, che le mura tutte l’aprì e fracassò delle fondamenta”. I sismologi Filippo Bernardini e Carlo Meletti hanno studiato la sequenza che Andrea Gallo, accademico e terremotato messinese raccontò con queste parole: “Mugghia la terra e rimbomba collo scoppio di un quasi cannone che nel suo seno si scarichi”.
Messina, le rovine del Palazzo Reale (dall’Atlante iconografico allegato alla “Istoria” di M. Sarconi, 1794
Dalla faglia sotto Polistena partì l’onda sismica peggiore che scaricò tutta la sua potenza squarciando montagne, deviando fiumi, facendo scomparire case con strepiti di pareti ed esplosioni di tetti e pavimenti, riducendo in polvere i paesini sulle alture e le città di mare, ammazzando all’istante chi ci viveva, lasciando tronconi di mura scoperchiate e montagne di detriti e pietre. Il primo sterminio si compì in nemmeno sessanta secondi, e solo molti giorni furono estratti migliaia di corpi mutilati, insanguinati, deformati, maciullati sotto crolli e frane da Bagnara a Scilla, da Reggio a Messina. I corsi d’acqua furono ostruiti da enormi frane e crearono 52 aree paludose e 215 acquitrini focolai di malaria. In molte voragini aperte precipitarono uomini, animali e case, come a Plaesano, dove lo squarcio si aprì per una lunghezza di 8 chilometri e con un abisso profondo 75 metri.
Danni ingenti e diffusi furono causati dalla scarsissima qualità delle costruzioni sottoposte al tremuoto fatto di tanti tremuoti. In soli due giorni contarono 949 scosse! Chi trovò rifugio tra gli anfratti della costa e sulle barche dei pescatori ormeggiate a riva, nella prima notte di terrore dopo la distruzione di Scilla vide mezza montagna scivolare con inaudita velocità verso il mare. L’impatto sollevò un’onda di tsunami enorme, che in pochi secondi si infranse sulla costa e sulle macerie travolgendo case, imbarcazioni, una filanda e uccidendo 2.473 tra donne, uomini e bambini rapiti dalla massa d’acqua e sbattuti chissà dove.
E sempre il 5 febbraio i sopravvissuti videro il mare che iniziò a ritirarsi per decine di metri dopo il terremoto e poi arrivarono le altissime onde di tsunami che colpirono il litorale messinese a partire dalla località di Torre Faro e le coste di Reggio Calabria tra Scilla e Cenidio, oggi Faro Punta Pezzo in località Villa San Giovanni. Tutto fu coperto di acqua per tre volte nel giro di 10-15 minuti, distruggendo dalle banchine dei moli agli edifici vicini e facendo perdere le tracce di migliaia di persone.
Il terremoto del 6 febbraio colpì invece di notte con la scossa più forte che causò ancora gravi danni a Messina e dintorni e innescò anche un'enorme frana lungo la scogliera occidentale del Monte Campallà a Scilla che, cadendo in mare generò un’altra disastrosa onda di tsunami. Il giorno dopo, alle 20, una nuova tremenda scossa ebbe come epicentro Soriano Calabro e, nel giro di due ore, arrivò la replica. E altri due colpi sismici devastarono ancora l’1 e il 28 marzo.
Le cinque faglie sotto lo Stretto nella zona di Villa San Giovanni a “Cannitello”, il fondale dove dovrebbe essere collocato il pilastro calabrese del Ponte, sarebbero il risultato del devastante sisma del 1783, con 8 fronti di montagna tra Scilla e Punta Pezzo crollati, e la collina spaccata a metà.
In una Polistena che piangeva 2.261 morti su 4600 abitanti, rimase sotto choc il geologo francese Déodat de Dolomieu, che avrebbe dato il suo nome alle nostre Dolomiti. Era stato inviato dal re di Francia, e annotò nel suo diario: “Avevo veduto Reggio, Nicotera, Tropea [...] ma quando vidi Polistena, quando contemplai i mucchi di pietra che non han più alcuna forma, né possono dare un’idea di ciò che era il luogo [...] provai un sentimento di terrore, di pietà, di ribrezzo, e per alcuni momenti le mie facoltà restarono sospese”.
Goethe, che giunse a Messina nell’aprile del 1787, stregato dalla bellezza dei paesaggi, scriverà: “Per un quarto d’ora non vedemmo intorno che file e file di macerie [...] Non si scorgeva che un deserto di rovine sconvolte [...] Non c’era traccia né d’uomini né d’animali; il silenzio notturno era spaventoso, l’orripilante visione di una città distrutta”.
LO STRETTO DIVENTA IL PRIMO LABORATORIO AL MONDO DI CASE SICURE
Ferdinando di Borbone inviò in Calabria e in Sicilia insieme ai soccorsi anche Giovanni Vivenzio, il suo medico di corte a Napoli ma soprattutto studioso e “conoscitore” di fenomeni naturali. Quanto ritornò riportò la contabilità impressionante di 29.451 morti: 10.041 uomini, 10.829 donne, 8265 ragazzi e 316 religiosi, ai quali si aggiunsero 650 cadaveri estratti dalle macerie di Messina e altri 6.000 morti dissanguati o per fame, stenti e malaria. Vivenzio descrisse la cruda realtà: “Oltre il totale sterminio de’ rispettivi Paesi, con la grandissima mortalità degl’Individui, le loro Campagne patiscono una quasi totale sovversione della loro superficie, son divenute spaventevoli voragini, aperture, e Laghi; ed in altri luoghi saltati dal basso in alto i letti de’ fiumi, e pezzi di terra con alberi, e case di Campagna [...] Le acque torbide, e di color cinericcio con puzzo di solfo, o fosforeo, ed uscite fuori del letto inondarono i campi. Nella superficie della Terra comparvero innumerevoli fenditure, e molte elevazioni di terreno di varie altezze. In alcuni luoghi si divisero, o caddero in parte de’ monti. Pezzi di montagne hanno travolto borghi come Oppido Mamertina. La sella di Marcellinara è sprofondata, alcune vette si sono aperte a metà come mele”.
Inviò poi il Tenente Generale Francesco Pignatelli nominandolo Vicario generale delle Calabrie. Pignatelli organizzò truppe, personale sanitario, carri carichi di alimenti e beni di prima necessità, e anche un gruppo di ingegneri militari guidati da Antonio Winspeare e Francisco La Vega. La spedizione trasportò anche un forziere con 100.000 Ducati, e stabilì il quartier generale a Monteleone. Predispose in zona i primi soccorsi e tutti rimasero sconvolti dalle devastazioni e dalle condizioni di vita di estrema arretratezza delle popolazioni colpite. Con piglio autoritario, e senza guardare in faccia né all’aristocrazia locale né agli ecclesiastici, fece “recuperare” con le buone e con le cattive gli arredi d’oro e d’argento delle chiese crollate. L’ordine era di fonderli e venderli per investire i proventi nelle riparazioni e nelle ricostruzioni. I soldati, aiutati dalla manodopera del luogo, costruirono baracche per i senzatetto, ripristinarono vie di comunicazione e riattivarono mulini e forni. Fu concessa la libertà ai carcerati “più buoni” e disposti a lavorare.
I Borbone avevano progetti ambiziosi: una riforma agraria senza precedenti in Europa, fondata sull’esproprio delle proprietà incolte della Chiesa e dei feudatari per essere assegnate a famiglie di contadini nullatenenti. E la rinascita delle città sulla base delle tecniche dell’edilizia siciliana del secolo precedente. Anche la Calabria diventò un “caso di studio” per le ricostruzioni antisismiche.
Ferdinando IV inviò in Calabria, il 5 aprile, anche una spedizione della “Reale Accademia delle Scienze e Belle Lettere”, coordinata da Michele Sarconi con Nicolò Pacifico, Angiolo Fasano, padre Eliseo della Concezione Teresiano, il domenicano Antonio Minasi e tre architetti e disegnatori come Ignazio Stile, Bernardino Rulli e Pompeo Schiantarelli. Molte delle conoscenze su quella catastrofe le dobbiamo alla loro indagine a tappeto con percorsi a dorso di mulo o a piedi raggiungendo tutti i centri colpiti da “infiniti scuotimenti di una perpetua alterazione, da cima a fondo rabbiosamente scorticati”.
Una fonte di documentazione è anche la “Relazione” di 80 pagine firmata da Sir William Hamilton, l’ambasciatore Britannico presso i Borbone e membro della Royal Society, molto colpito dalle devastazioni, che scrisse: “[...] non v’era Città o Villaggio, tanto sulla costa che dentro terra, il quale non fosse rimasto o totalmente distrutto o grandemente danneggiato, contandosi i luoghi distrutti in numero di circa 400 [...] Nella nobile Città di Messina il Molo è talmente sprofondato; la Cattedrale erasi rovesciata: in una parola, Messina più non esisteva…nobili e poveri: [...] attendati sotto specie di case di legno [...] molte però di quelle che io vidi, si rassomigliavano più alle nostre stalle da majali”.
L’area colpita fu divisa in 5 “Ripartimenti” sul modello della ricostruzione siciliana del secolo precedente, e fu avviata la prima pianificazione di edilizia sicura anche in Calabria. Intere città come Reggio, Mileto, Palmi e anche Messina furono riprogettate rispettando le “Istruzzioni sul metodo da tenersi nella riedificazione dei paesi diruti della Calabria”, diventate legge il 20 marzo 1784. Fu quella la prima legge antisismica al mondo che imponeva alle nuove case un’altezza limitata a due piani e la demolizione dal terzo in su per quelli esistenti, la rimozione di elementi sporgenti che sarebbero potuti crollare, strade larghe dai 6 ai 13 metri, larghezze dei muri in relazione alle altezze, spazi liberi e ampi in ogni quartiere per far fronte a ogni emergenza.
E soprattutto imponeva la costruzione delle nuove “case baraccate”, una costruzione molto più sicura al punto che alcune, sopravvissute nel tempo, avrebbero superato indenni anche il terremoto del 1908. La differenza la faceva l’utilizzo di una “Intelaiatura lignea all’interno della parete in muratura”, e l’incatenamento di travi e solai alle mura per una buona resistenza alle sollecitazioni sismiche orizzontali. La progettò Francisco La Vega, riprendendo l’idea dai primi scavi di Ercolano e Pompei dove rimase affascinato dagli elementi strutturali delle Domus ricomparse con le loro intelaiature di legno inserite nelle pareti. Era la tecnica dell’Opus Craticium, “a graticcio”, utilizzata dai Romani dopo il terremoto del 5 febbraio 62 e raccomandata da Vitruvio.
Per otto città iniziò subito la rinascita: Briatico, Mileto, Polia, San Leo, Filadelfia, Bianco, Cosoleto e Palmi. Furono messi in cantiere 33 nuovi centri urbani, e tra questi la nuova Reggio, e altri 120 paesi devastati furono oggetto di ripristini, ricostruzioni di strade e torri costiere, opere di bonifica. Con squadroni di manovali e capimastri, ingegneri e architetti, e controlli molto seri riuscirono nell’impresa che resta ancora oggi, per molti aspetti, un altro modello del nostro Sud all’avanguardia dell’antisismica.
Ma le norme, già nella loro applicazione locale, iniziarono nel tempo a subire varianti e variantine. Il Senato di Messina, ad esempio, affidò all’accademico Andrea Gallo la “rifabrica della città”, ma i costruttori locali anziché attenersi al rispetto di altezze limitate per i fabbricati, alla corretta “regola d’arte dell’apparecchio murario”, all’utilizzo del legno per le “case baraccate” e di “catene metalliche e miglioramenti delle connessioni tra tutte le membrature costituenti i palchi e le coperture”, preferirono risparmiare tempo, materiali e denaro. Chi doveva controllare spesso non controllava errori, trucchi e truffe.
Risultato: quando la Commissione della Regia Accademia di Napoli inviata “nella desolata Calabria” rientrò dopo un anno di indagini a tappeto, nella loro Relazione al re era annunciarono il futuro disastro italiano, e scrissero: “Avvezza la popolazione di Reggio e della provincia alle scosse di tremuoti, sembra ad ognuno che avrebbe dovuto pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso. Or qui si vedeva precisamente il contrario”. Di quella tragedia, però, restano le costruzioni borboniche, quelle ben fatte, che hanno sfidato i terremoti più devastanti e salvato vite. Dove le regole sono state applicate, gli edifici sono ancora in piedi. Lo dimostra il palazzo o meglio la “baracca” del vescovo di Mileto, rifatto con muratura di pietre e malta rinforzata da un’intelaiatura in legno di castagno, ancora oggi resistente alle scosse.
In quel periodo, anche Vivenzio propose un suo prototipo di “casa formata di legno”. Nel 1781, uno dei padri del classicismo, l’architetto Francesco Milizia, ne progettò un’altra. Poteva essere un bel momento di svolta. E invece no. È il 1798 quando l’armata francese sbaragliò l’esercito borbonico. Caduti i principali fautori dell’antisismica, caddero anche le norme che testardamente vollero.
Nella prossima puntata tutto sull’ottocentesca idea del Ponte sullo Stretto dei Borboni e sull’annuncio del primo governo La Marmora: “Fatta l’Unità d’Italia si farà l’unità delle due sponde con il Ponte nello Stretto”, e sull’ecatombe sismica del 1908.
