Comunque vadano le elezioni, per la transizione ecologica serve una battaglia più efficace
Se davvero si verificasse, come pare probabile, una affermazione delle forze di destra e destra estrema alle prossime elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimi, alcune tematiche, già non di facile governo in questa legislatura, dall’immigrazione, alle riforme democratiche e al funzionamento della Ue (in particolare per ciò che riguarda il diritto di veto), fino alle questioni di bilancio e del debito comune nonché di politica estera e di sicurezza e naturalmente al Green deal, promettono di diventare ancora più divisive e conflittuali, dato che le posizioni delle varie forze sovraniste divergono fra loro, e che le maggioranze saranno ancora più incerte sia al Consiglio dei ministri che al Parlamento e alla Commissione.
La conseguenza è un rischio reale, se non di blocco, almeno di grande difficoltà nel raggiungimento di decisioni comuni, come anche nel lancio di nuove iniziative comuni.
Più che un cambio di rotta, si prospetta dunque una macchina europea inceppata e impotente: questo soprattutto se il Parlamento europeo perdesse la sua funzione di stimolo del processo di integrazione europea e dello stato di diritto, e se la Commissione indebolisse ancora di più la sua funzione di “guardiana” dei Trattati.
In questo senso, le dichiarazioni di Giorgia Meloni, che punta legittimamente ad avere un ruolo di maggiore influenza non solo al Consiglio europeo, ma anche all’Europarlamento per il suo partito Ecr, sono molto chiare; ripete da settimane quali sono i punti sui quali intende “cambiare l’Europa”.
In particolare, ha fatto una breve lista dei punti comuni con Marine Le Pen (che nel frattempo le ha proposto di fare un “grande gruppo” insieme, che potrebbe aspirare addirittura a diventare il secondo gruppo dopo il Ppe): freno alla transizione verde, lotta all’immigrazione clandestina, difesa dell’identità europea in salsa di salvaguardia degli stati-nazione; non a caso ha detto in più occasioni che essere “europeista” non significa volere far fare “tutto” alla Ue, con buona pace di coloro che pensano che abbia cambiato atteggiamento rispetto al suo tradizionale nazionalismo e incapacità di comprendere una democrazia sovranazionale.
Non è certo l’unica, ahinoi, a sostenere queste posizioni, che ormai hanno contaminato una parte importante di alcuni partiti mainstream che fanno parte del Ppe e di Renew (liberali).
Ricordiamoci peraltro che il partito di Giorgia Melonie i suoi alleati hanno più volte e in più Paesi presentato proposte per eliminare la primazia del diritto europeo su quello nazionale; forse non ci riusciranno, dato che si tratta di una modifica dei Trattati sui quali non ci sarà unanimità, ma fa parte della loro cultura politica una concezione che non accetta che la Ue o qualsiasi altro ordinamento internazionale possa definire autonomamente e imporre delle regole, se uno Stato non le approva o non le vuole applicare.
Ci sono naturalmente dei temi che spingono a un maggiore coordinamento che il governo italiano vede chiaramente: dalla difesa, al sostegno all’economia (o a certi settori dell’economia affini politicamente, dall’agroindustria al gas), ai fondi europei o la migrazione, ma di questi non fa certo parte il Green deal, che è il punto contro il quale tutte le destre, estreme e non, paiono concordare.
Il governo Meloni è particolarmente solerte in questo senso e da quando è arrivato non ha fatto che boicottare e indebolire tutte le normative del Green deal, agendo con una certa efficacia e alleandosi con tutte le lobby anti-verdi possibili, incurante degli interessi di altri settori economici, cercando di formare alleanze con governi da sempre eco-scettici, approfittando anche del fatto che parecchi paesi in Consiglio hanno cambiato governo e sono oggi molto meno sensibili ai temi legati alla lotta al cambiamento climatico.
Peraltro, poiché il suo interesse è di rispondere alle lobby amiche e non all’interesse pubblico e poiché i media mainstream in Italia non sono interessati a trattare di questi temi se non in modo superficiale quando non manipolatorio, il governo non si cura affatto né paga alcun prezzo politico se rimane isolato, come dimostrato dal voto negativo insieme all’Ungheria sull’accordo finale sulla performance energetica degli edifici (o case green), dall’astensione (caso unico) sull’ecodesign o dal voto contrario alla legge sul ripristino della natura, posizione che purtroppo contribuirà molto probabilmente ad affossarla definitivamente nel Consiglio dei ministri previsto dopo le elezioni.
In questo contesto politico e ideologico, è evidente che se i sondaggi avranno visto giusto, l’applicazione concreta e l’ulteriore sviluppo delle normative adottate e previste nell’ambito del Green deal saranno a rischio, pur se nessuno parla di rimettere in questione gli obiettivi della legge sul clima e c’è addirittura un accordo di massima sulla fissazione di un target intermedio di riduzione delle emissioni del 90% per il 2040.
Anche la riapertura tout court delle normative pare improbabile, a parte forse alcune normative “simbolo” e che hanno previsto una revisione entro pochi anni come quella che fissa al 2035 la fine della vendita delle auto a combustione; il paradosso però, è che anche se questo termine fosse riaperto o addirittura abolito, il suo effetto sarebbe limitato, dato che la maggior parte delle imprese automobilistiche ha già deciso di andare in quella direzione.
Insomma, pur in assenza di azioni di rottura drammatica, che in questo momento non è ritenuta credibile, è più che probabile che la strategia seguita dall’Italia e dalla destra in caso di vittoria potrebbe essere semplicemente quella della non applicazione corretta e nei tempi delle norme del Green deal e dello stallo sulle nuove.
Se la nuova Commissione sarà più accomodante di questa sulla violazione delle regole il gioco sarà fatto, e il rischio di frammentazione non toccherà solo le norme che molti insistono a chiamare ambientali e che avevano l’intenzione di accompagnare un cambio epocale di modello economico, ma avrà un inevitabile impatto su investimenti, lavoro e imprese.
L’Italia è peraltro da tempo campione europeo per infrazioni (74), specialmente in campo ambientale; nel corso degli ultimi anni sono stati buttati al vento più di 830 milioni di euro dal 2012 al 2021 in multe per violazione o mancata applicazione delle normative Ue, denaro perso a cui nessuno pare interessare granché, perché molte di queste procedure sono aperte dal 2007/2008 e non c’è alcun segnale che verranno chiuse.
Il Green deal nasce come un grandioso piano di preparazione al futuro. Chi vuole mollare adesso ci prepara a rimanere fossili, inquinati, marginali e poveri. C’è molto “green”in Italia. Imprese, lavoratori e lavoratrici, agricoltori agricoltrici accademici/associazioni e autorità locali che hanno ben capito che si tratta di una grande opportunità di sviluppo che deve essere accompagnata da regole chiare, investimenti massicci e concentrati.
Ma queste voci sono poco coese, e in un sistema mediatico fortemente condizionato da un dibattito politico di poco contenuto e da interessi economici che lo influenzano sempre di più, dovrebbero organizzarsi e farsi sentire. Questo governo ha una cultura corporativa. Non agisce per logica o sulla base dell’interesse pubblico. Solo sulla base di rapporti di forza e visibilità. E allora facciamoci sentire e vedere. Votando per il futuro l’8 e il 9 maggio e preparandoci, comunque vada, a una battaglia molto più efficace dopo.