
Battere il terremoto è possibile. La scossa 7.7 nel Myanmar deve spingerci a mettere in sicurezza il nostro patrimonio edilizio. Il tempo è tutto e dal sisma del 1908 nello Stretto con magnitudo 7.2 abbiamo norme non applicate. Non perdiamo altro tempo

Il terremoto è la catastrofe per eccellenza. A differenza di una eruzione vulcanica che lancia segnali premonitori con scosse e deformazioni nel terreno e boati, o di una frana che può essere intercettata e monitorata nella sua evoluzione e persino fermata, o di uno tsunami anticipato da reti di sensori sismici e di pressione posati sui fondali oceanici e marini in corrispondenza delle faglie attive, o delle alluvioni annunciate in anticipo dalla meteorologia e dall’idrologia fluviale, il tempo per salvarci da un sisma oggi non riusciamo ad averlo.
I sismologi e gli scienziati ancora non sono ancora in grado di “vedere” una faglia attivarsi nella fase sismogenetica, all’inizio del processo che produce la scossa. La ricerca tuttavia non molla. Dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia al Consiglio Nazionale delle Ricerche, dalle università ai centri di ricerca, i maggiori esperti provano ad aprire il più possibile “finestre” ipertecnologiche anche sul terremoto, anche utilizzando la più performante tecnologia dell’Intelligenza Artificiale con le sue connessioni e integrazioni nel campo del monitoring predittivo. Ma in questa fase purtroppo non abbiamo certezze scientifiche. L’unica certezza, in una Penisola altamente sismica come la nostra con una pericolosità medio-alta per frequenza e intensità dei fenomeni, con una vulnerabilità molto elevata per fragilità del patrimonio edilizio, infrastrutturale, industriale, produttivo e dei servizi, per una esposizione altissima per densità abitativa e presenza di un patrimonio storico e artistico, è la possibilità di sostituire la domanda “Si possono prevedere i terremoti?” con altre due più utili domande: “Dove si possono prevedere?” e “Cosa bisogna fare?”.
Il dove, infatti, a differenza del quando, si può indicare in anticipo, e non è cosa da poco. I terremoti, ci insegnano i sismologi e la storia del nostro passato costellato da grandi massacri sismici, tendono a riprodursi sempre nei medesimi luoghi, come spiegava già nella metà del Settecento il naturalista francese Georges-Louis Leclerc de Buffon: “Là où il a tremblé, il tremblera”. E se il sisma distrugge senza preavviso in pochi lunghissimi secondi tutto ciò che stabile non è, nei 4.88 luoghi dove il sisma ha colpito con incredibile brutalità dal Medioevo ad oggi, la spinta al crollo facile l’ha sempre data la nostra radicata inclinazione al fatalismo con omissioni e violazioni reiterate delle leggi dall’inizio del Novecento, clamorose rimozioni del rischio. Eppure, più della scossa quasi sempre uccidono le modalità con cui costruiamo le nostre case, e su quali terreni le costruiamo.
l nostro terremoto epocale del 28 dicembre del 1908 nello Stretto di Messina poteva essere il terremoto-spartiacque e non è andata così. Fu tra i più distruttivi del mondo e sbriciolò alle 5.20 con magnitudo 7.2 tutto il costruito tra Sicilia orientale e Calabria meridionale, lasciando l’ecatombe che in 37 secondi fece contare oltre 120.000 morti tra Sicilia e Calabria, l’“inferno in terra” che spinse il sismologo Giuseppe Mercalli ad aggiungere altri due gradi alla sua già impressionante scala macrosismica, portandola al dodicesimo. E aggiungendo il terrore di 4 colossali ondate di tsunami che si abbatterono sulle coste con le acque sollevate dai 6 ai 12 metri.
Dopo quella catastrofe, lo Stato monarchico recuperò le prime norme antisismiche del mondo emanate da Napoli da Ferdinando IV di Borbone dopo altri due tra i più devastanti terremoti del Sud - in Sicilia il 9 e 11 gennaio 1693 e in Calabria il 5 febbraio 1783 - con almeno 60.000 morti per evento sismico, trasformando il nostro Sud nel primo laboratorio mondiale di pianificazione urbanistica con regole antisismiche nelle “città nuove”. Inventarono le “case baraccate” resistenti al sisma, ordinarono “accorgimenti antisismici” per rafforzare l’edilizia in tutto il Regno delle due Sicilie, e il Regio decreto del 18 aprile 1909 n.193 riprese quelle leggi varando “Norme tecniche obbligatorie" e obbligando ogni nuova abitazione italiana ad avere “una ossatura in legno, di ferro, di cemento armato o di muratura armata, muratura squadrata e listata, telai, cordoli, sbalzi, strutture non spingenti”. Vietarono l’edificabilità “in siti inadatti come terreni paludosi, franosi o molto acclivi”. Limitarono le altezze nello Stretto a 10 metri, esclusero sopra-elevazioni, imposero strade larghe minimo 10 metri. Risultato? Tra Calabria e Sicilia oggi parte degli edifici sono stati tirati su alla meglio con 4 condoni edilizi e non sono in grado di resistere alla forza di un sisma non importante, troviamo grattacieli e aree urbane con edilizia del tutto priva di sistemi e tecnologie antisismiche.
La drammatica ciclicità dei terremoti italiani è nei database della Protezione Civile e dell’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia. Dal Medioevo ad oggi sono stati rasi al suolo oltre 4.800 centri abitati, molti più volte ricostruiti “dove erano e come erano” e cioè fragili e sulle stesse faglie più rischiose. Dall'Unità d'Italia, anno 1861, abbiamo subìto 36 grandi terremoti, uno ogni 4,5 anni, con 170 terremoti minori che nei soli ultimi 30 anni hanno colpito 1.760 aree urbane, dimostrando sempre la facilità delle devastazioni. Oggi, delle 14.515.795 costruzioni sul territorio nazionale con 31 milioni di abitazioni, il 40% è in aree sismiche a rischio più elevato. Oltre metà risalgono a prima del 1974, cioè quando si edificava anche senza regole e spesso nemmeno piani regolatori. Tra 4 e 5 milioni di costruzioni sono a rischio lesioni o crolli parziali o di collasso. Il Sud presenta il carico edilizio peggiore con lo stock più scadente condonato da 4 sanatorie edilizie: 1985, 1994 e 2003, più il 2018 nel furbesco decreto per Ischia. Con queste premesse è evidente che è bastata la scossa di 3.9 di magnitudo a Ischia il 21 agosto 2017 per lasciare 2 morti e 42 feriti sotto case crollate come burro.
Cosa servirebbe? Urgentissime campagne di diagnostica degli edifici, investimenti pubblico-privati per cantieristica anche leggera e con l’uso di tecnologie e nanotecnologie non invasive per un programma diffuso di adeguamento sismico. Ma siamo nel Paese che avendo avuto 117 miliardi da investire nell’edilizia ha preferito finanziare i rifacimenti delle “facciate” e l’abbellimento esteriore piuttosto che le fondamenta e la resistenza strutturale. Bonus e superbonus hanno del tutto oscurato il più utile e vitale sismabonus.
Che fare allora? Recuperare prima possibile l’orgoglio di un Paese che può vantare di avere avuto la prima città al mondo interamente ricostruita con criteri antisismici dopo un forte sisma: Ferrara, distrutta nel 1570 sotto il regno degli Estensi con il duca Alfonso II che ingaggiò il geniale architetto napoletano Pirro Ligorio che era già a corte per farla ricostruire. E Ligorio applicò le regole dell’edilizia dell’antica Roma dettate da Plinio il Vecchio e Vitruvio che avevano già capito tutto, come peraltro dimostra ad abundantiam la resistenza della loro edilizia: dai Mercati di Traiano al Colosseo a un complesso di opere dell'antichità arrivate fino a noi sostanzialmente intatte sul piano strutturale. La resistenza del calcestruzzo dell'antica Roma è superiore a quella di molti cementi utilizzati nelle nostre case crollate, un cementizio più resistente alle sollecitazioni meccaniche.
E l’Italia può vantare anche la prima area vasta al mondo diventata laboratorio di città antisismiche: il nostro Sud. Dopo l’Apocalisse del terremoto distruttivo tra Calabria e Sicilia da circa 60.000 morti del 9 febbraio 1693, i Borbone imposero la costruzione di “città nuove” con l’edilizia più sicura e la bellezza del barocco. Così dopo il sisma del 5 giugno 1688 che distrusse in Irpinia Cerreto Sannita lasciando circa 10.000 morti, quando ci fu il miracolo antisismico della nuova città rilocalizzata a valle e su terreni più stabili, con case di muratura alte al massimo 1 o 2 piani, fondamenta e mura spessi, staffe di rafforzo e strade larghe. Cerreto non a caso è rimasta in piedi dopo la botta sismica del 1980. Onore al regio ingegnere pontificio Giovanni Battista Manni, incaricato all’epoca dal conte Marzio Carafa. E ancora nel 1783, dopo i crolli totali del tragico 5 febbraio sotto scosse da 7.1 di magnitudo e l’ecatombe di circa 50 mila morti tra Calabria e Sicilia, il governo borbonico fece progettare la “Casa Baraccata”, la prima casa antisismica, e varò il primo regolamento antisismico del mondo.
Quanta memoria abbiamo perso! E proprio nel Sud che era l’avanguardia della sicurezza edilizia. Perché quando arrivò l’inferno in terra alle 5,20 di lunedì 28 dicembre 1908 con il terremoto epocale nello Stretto tra Messina e Reggio Calabria e l’ecatombe di circa 120.000 morti per la violenza di 7.1 gradi della scala Richter, e effetti che spinsero Mercalli ad aggiungere altri due gradi alla sua scala macrosismica portandola al massimo grado di distruzione al XII, lo Stato monarchico recuperò dal passato le buone regole antisismiche di Ferdinando IV del 1783. Giolitti e Vittorio Emanuele III incaricarono due commissioni di esperti di studiare tutti gli «accorgimenti antisismici» e gli «incentivi ai privati» utili a rafforzare l’edilizia nell’intero Regno. Con il Regio decreto n. 193 del 18 aprile 1909, vararono «Norme tecniche ed igieniche obbligatorie per le riparazioni, ricostruzioni e nuove costruzioni degli edifici pubblici e privati», e definirono le relative «Istruzioni tecniche». Ma quelle regole rimasero nel Novecento totalmente inapplicate, sepolte sotto il disinteresse generale.
La gran parte del nostro fragile patrimonio edilizio è poi stata tirata su negli ultimi settant’anni, quando, in un’intensa e febbrile cementificazione abbiamo triplicato il costruito dei duemila e passa anni precedenti in un fiorire di edilizia abusiva, graziata 4 volte da scandalosi condoni o sanatorie, anche in zone sismiche. La regola è stata la violazione di norme tecniche antisismiche.
L’Italia non è un Paese di furbi. Perché i furbi si difendono molto meglio dai terremoti, anche in virtù di tecniche e tecnologie all’avanguardia messe a punto dagli scienziati italiani e messe in opera da ditte e maestranze italiane.
E allora, guardiamo in faccia il rischio, voltiamo pagina, cambiamo un destino che non è immutabile. Nell’Italia europea e ottava potenza economica mondiale per Pil, non si può continuare a morire come nel passato, sotto i colpi di scosse anche minime come è accaduto a Ischia nel 2017 la sera del 21 agosto 2017 con una scossa di magnitudo 3.9 che ha provocato il crollo di numerose case facendo 2 vittime e 42 feriti.
Serve reagire, disinnescare rischi sismici e smetterla di buttare al vento i progressi dell’architettura, dell’ingegneria, della sismologia e della geologia. Ma bisogna colpire il terremoto nei suoi punti deboli, spendendo cento volte meno dei costi delle sue scosse.
Due storici dei disastri naturali come Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, con due geologi dell’Ingv Gabriele Tarabusi e Graziano Ferrari, studiando i terremoti del 2016-17 in Centro Italia, hanno elaborato un modello scientifico di riduzione della vulnerabilità partendo dalla constatazione della differente risposta sismica di Amatrice e di Norcia. Le due località sorgono quasi alla stessa distanza dalla faglia che ha generato il terribile cluster sismico, e i livelli delle scosse sono quasi del tutto confrontabili. Non però gli effetti. Ad Amatrice, la cannonata di magnitudo 6.0 del 24 agosto ha prodotto crolli tra il X e l’XI grado Mercalli, con l’abbattimento pressoché totale dell’abitato. A Norcia, invece, i danni si sono fermati al VI grado. Con il successivo terremoto del 30 ottobre, di magnitudo 6.5 ed epicentro nelle vicinanze di Norcia, le distruzioni sono salite all’XI grado per Amatrice e all’VIII-IX per Norcia. Se la cittadina laziale è stata rasa al suolo con 249 morti, la cittadina umbra ha resistito e non ha contato vittime. La differenza l’hanno fatta l’elevatissima vulnerabilità del costruito di Amatrice e la bassissima vulnerabilità di quello di Norcia salvata dalla maggior consapevolezza di vivere in una zona ad alto rischio sismico e dove l’obbligo dell’antisismica è stata fatta rispettare dopo i crolli della scossa del 1979. Ma quante Amatrice abbiamo in Italia?
L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia registra ogni anno circa 20.000 casi di magnitudo inferiore a 2.0, in grandissima parte non percepiti, e tra i 1700 e i 2500 superiori a magnitudo 2.5. Sappiamo che metà colpiscono il Sud, e in particolare Sicilia, Calabria e Campania. Circa un terzo soprattutto Abruzzo e Toscana, e i restanti sul Nord, specie il Friuli, seguito da Liguria, Lombardia e Veneto. La contabilità sismica di ogni secolo, negli ultimi 2500 anni, riporta uno o 2 fortissimi eventi di magnitudo intorno a 7.0, dai 5 ai 10 con magnitudo oltre 6.0, e un centinaio con magnitudo superiore a 5.0. Nell’ultimo secolo e mezzo, 43 eventi hanno ucciso e distrutto con la drammatica ciclicità di uno ogni tre-quattro anni. E magnitudo 5.0 è la soglia-limite che da noi è già sufficiente a provocare crolli e vittime per debolezze strutturali dell’edilizia, con perdite di vite umane e danni sempre direttamente proporzionali alla vulnerabilità delle costruzioni.
Il tempo è tutto. La mappa dell’edilizia nazionale mostra l’accumulo l’impressionante di uno stock immobiliare tra i 4 e 5 milioni su circa 13 milioni edifici - dove vive e lavora e studia oltre un terzo della popolazione italiana - che potrebbero non reggere a scosse importanti e la quota più scadente, insicura è quella illegale e graziata da 4 condoni anche in zone sismiche. Continuiamo con la quasi inesistente copertura assicurativa privata, caso unico in Europa, che vede sui 12.187.698 edifici italiani con 74,3 milioni di immobili con oltre 31 milioni di abitazioni, con appena il 4,9% di coperture assicurative contro terremoti nonostante l'esposizione del 75% delle abitazioni?
Adeguare il nostro patrimonio edilizio in zone sismiche 1 e 2, le peggiori, alle norme antisismiche con un vasto piano d’interventi sugli edifici stima un investimento complessivo pari a circa 100 miliardi di euro nell’arco di 20 anni di utilissimi cantieri edili. È la cifra indicata dal “Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri”, i cui esperti hanno assunto come parametro la difesa dall’impatto del terremoto con magnitudo L’Aquila 2009. Sono troppi? È fuori portata? Beh, la spesa in corso per le ricostruzioni dei soli tre peggiori disastri sismici degli ultimi 15 anni è questa: L’Aquila 2009 per 17,4 miliardi, l’Emilia 2012 per 13 miliardi e il Centro Italia 2016-2017 che costerà 23,5 miliardi. È più della metà del costo di un piano di prevenzione antisismica per tutta l’edilizia a rischio. Anche chi è digiuno di matematica capisce al volo qual è l’investimento buono e qual è la spesa cattiva. E che la mancata prevenzione non solo uccide e distrugge ma è anche il vero salasso per la finanza pubblica.
