
La guerra commerciale «più stupida della storia» entra nel vivo, ma rispondere a Trump con nuovi dazi generalizzati significa peggiorare le ricadute economiche. L’alternativa? Colpire l’oligarchia Usa

A partire da oggi entra nel vivo quella che il Wall street journal ha definito la «guerra commerciale più stupida della storia», iniziata per mano di Donald Trump: dopo averli sospesi per un mese, il presidente Usa ha deciso di mantenere la promessa di nuovi dazi del 25% sulle merci in arrivo da Messico e Canada (per quest’ultimo i dazi ai prodotti energetici si fermano al 10%), raddoppiando inoltre dal 10 al 20% i dazi annunciati verso i prodotti cinesi.
Si tratta di una scelta autolesionista, in quanto i dazi sono a tutti gli effetti una tassa sui consumatori e sulle imprese americane che acquistano prodotti e materie prime dall’estero, causando un aumento dell’inflazione interna con effetti negativi sulla crescita e sulla creazione di posti di lavoro. Si tratta di una consapevolezza già radicata non solo tra gli esperti di economia, ma anche nel mondo ambientalista: l’approccio di Trump ai dazi viene definito «caotico» dalla principale organizzazione ambientalista statunitense, Sierra club, secondo la quale il loro impiego «per obiettivi come la sicurezza dei confini o per invadere la sovranità canadese ne mina l'uso legittimo, come strumento per una politica commerciale responsabile». Quello di Trump è dunque un approccio alla politica commerciale da bullo, pensato più per sortire effetti sul consenso del proprio elettorato – che andranno però soppesati man mano che salirà il costo vita per gli statunitensi – che per sostenere la crescita economica statunitense.
Una simulazione del Peterson institute for international economics, richiamata dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani, mostra che «i dazi americani sono un danno per gli Stati Uniti perché ne riducono il Pil, fino a circa 0,3 punti percentuali, e ne aumentano l’inflazione fino a quasi mezzo punto percentuale. E tuttavia fanno più danni agli altri due Paesi. Nel caso del Canada, il Pil scende fino 1,2 punti percentuali e l’inflazione sale fino 1,6 punti. Nel caso del Messico, il Pil scende ancora di più, fino a 2 punti percentuali, e l’inflazione sale fino a 2 punti e mezzo. Le cose peggiorano per tutti e tre i Paesi nel caso di ritorsioni contemporanee in Canada e Messico, ma il peggioramento, in termini sia di minor Pil sia di maggiore inflazione, sarebbe più forte per Canada e Messico che per gli Stati Uniti. È evidente che lo scenario cambierebbe se i dazi colpissero contemporaneamente anche grandi aree economiche come l’Unione europea, la Cina, il Giappone, il Sud-est asiatico e l’intera America Latina».
A prescindere dai futuribili sviluppi, è già chiaro che rispondere ai dazi di Trump con nuovi dazi contro le merci statunitensi – già annunciati da Canada e Cina, oltre che dalla Ue quando sarà la volta del Vecchio continente – non farò che peggiorare ulteriormente la situazione. Al contempo, è chiaro che assistere inermi allo sviluppo della guerra commerciale statunitense non è un’opzione sul tavolo. Ci sono alternative?
Una strategia più efficace di ritorsione potrebbe nascere da quanto sta suggerendo un crescente numero di intellettuali europei di area progressista, come gli economisti Gabriel Zucman e Andrea Roventini o il giurista Alberto Alemanno. Ovvero, non rispondere ai dazi Usa varandone a nostra volta di generalizzati contro l’import di merci statunitensi, ma concentrando la ritorsione su quanto davvero conta per Trump – ovvero il sostegno dell’oligarchia tech di cui si è circondato – limitando l’accesso al mercato europeo per i vari Musk, Bezos e Zuckerberg, subordinandolo a standard fiscali minimi. In altre parole, si tratta di una nuova forma di protezionismo per colpire le aziende e gli oligarchi che distruggono il clima senza neanche partecipare a criteri di equità fiscale.
Zucman porta un esempio pratico guardando a Tesla: immaginando che la casa automobilistica di Musk non paghi in patria alcuna imposta sulla società (o carbon tax), ma che realizzi il 5% delle vendite di auto nel mercato europeo, gli Stati Ue potrebbero calcolare quanto Tesla avrebbe dovuto pagare negli Usa se le leggi europee fossero lì applicate, e riscuotere il 5% di tale importo; allo stesso modo, potrebbero tassare lo stesso Elon Musk con una patrimoniale in proporzione alla quota parte della ricchezza sgraffignata dall’oligarca in Europa (poiché tale ricchezza arriva prevalentemente da azioni Tesla, ancora una volta l’esempio punta al 5%).
«Gli Stati Uniti hanno una debolezza – conclude Zucman – la loro oligarchia strisciante e altamente internazionalizzata. Perché è una debolezza? Perché si tratta di un numero esiguo di persone che, per la loro ricchezza, fanno affidamento sull'accesso ai mercati esteri, dando così ai Paesi stranieri un notevole potere su di loro È ora di usare questo potere».
