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La prima mano a poker di Trump sui dazi si è chiusa con un bluff. Ora tocca all'Europa: è l'occasione per tassare oligarchi e responsabili della crisi climatica

 |  Editoriale

Si è rivelato poco più di un bluff il primo giro della partita di poker avviata da Donald Trump coi propri partner commerciali, brandendo l’arma dei dazi come una clava per poi rinfoderarla subito sia col Canada sia col Messico.

Nel fine settimana, il 47esimo presidente degli Usa ha infatti annunciato in pompa magna dazi – ovvero nuove tasse sui prodotti importati dall’estero – pari al 25% del prezzo di vendita su merci provenienti da Canada e Messico (ad eccezione dei combustibili fossili canadesi, per i quali è stata annunciato un dazio 10%) e un ulteriore dazio del 10% sugli importatori americani di beni dalla Cina.

«Donald Trump sta di nuovo facendo la mossa sbagliata che causa ancora più dolore alle famiglie americane – ha subito dichiarato Ben Jealous, direttore esecutivo della più importante associazione ambientalista statunitense (Sierra Club) – La costosa guerra commerciale di Trump danneggerà i lavoratori e i consumatori americani facendo aumentare i costi per produrre acciaio, alluminio, veicoli e prodotti energetici americani puliti. Invece di chiedere agli americani di pagare di più, Trump dovrebbe sostenere le politiche che faranno crescere la produzione nazionale, ridurre i costi e aiutare le famiglie lavoratrici».

I dazi generalizzati di Trump renderebbero infatti più difficile per gli Stati Uniti ottenere materie prime essenziali alla transizione ecologica, ma soprattutto incrementerebbero l’inflazione innalzando così il costo della vita per famiglie e imprese statunitensi. Infatti, i dazi annunciati per ora non partiranno.

Il Canada ha minacciato di ripagare Trump con la stessa moneta (25% dazi su prodotti Usa) e gli Usa hanno subito dichiarato la sospensione dei propri dazi per almeno un mese, come annunciato dal primo ministro canadese, Justin Trudeau; lo stesso risultato è stato ottenuto anche dalla presidenta del Messico, Claudia Sheinbaum.

«L'amministrazione Trump era pronta a imporre dazi del 25% a Canada e Messico ieri sera. Ciò sarebbe stato autodistruttivo (e anche una violazione degli accordi passati) anche se i nostri vicini non avessero reagito – commenta lo statunitense Paul Krugman, premio Nobel per l’economia – Ed entrambi hanno chiarito che avrebbero reagito. Questi sono Paesi veri, con vero patriottismo e orgoglio, e non erano pronti a farsi intimidire. E Trump si è piegato.  Si suppone che sia il Messico che il Canada abbiano fatto delle concessioni in cambio della sospensione dei dazi. Ma in realtà non c'è niente; nessuno dei due Paesi sta facendo qualcosa che non avrebbe fatto senza la minaccia delle tariffe. Gli Stati Uniti, d'altro canto, hanno accettato di reprimere le spedizioni di armi in Messico. Trump lo farà passare come una vittoria; gli elettori poco informati e alcuni organi di informazione intimiditi potrebbero accettare la bugia. Ma fondamentalmente l'America ha fatto marcia indietro. Quindi Trump è il classico bullo che scappa quando qualcuno gli si oppone? Sembra proprio così.  Tuttavia, sia chiaro: questo non è un caso di nessun danno, nessun fallo. Agitando la minaccia dei dazi, Trump ha chiarito che gli Usa non sono più una nazione che onora i suoi accordi. Cedendo al primo segno di opposizione, si è anche mostrato debole. La Cina deve essere molto soddisfatta di come si è evoluto tutto questo».

E infatti, stamani la Cina ha varato d’emblée dazi sul carbone e il gas naturale liquefatto (Gnl) provenienti dagli Usa con aliquote del 15%, più un'ulteriore tariffa del 10% su petrolio, attrezzature agricole e alcune automobili. In attesa che partano le trattative tra Trump e Pechino, in questa guerra commerciale fatta di stop and go il prossimo bersaglio designato è l’Europa, che però può ancora evitare di trasformarsi in vittima mostrando altrettanta compattezza tra i propri Stati membri.

Al momento dagli Usa si ventila l’ipotesi di dazi pari al 10% sulle merci europee, e la risposta arrivata dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è stata indiretta ma chiara: «Saremo pronti a negoziati difficili e a trovare soluzioni dove possibile, risolvere controversie e gettare le basi per un partenariato più forte. Saremo aperti e pragmatici su come raggiungere questo obiettivo. Ma sarà altrettanto chiaro che tuteleremo sempre i nostri interessi – in qualsiasi modo e in qualsiasi momento – come e quando sarà necessario».

In teoria, l’Ue si trova in una posizione negoziale anche migliore rispetto a Canada e Messico, dato che l’impatto dei dazi trumpiani sul Pil europeo sarebbe minore rispetto a quello sul Pil statunitense.

«I dazi Usa sono una minaccia non credibile ed autolesionista, utilizzata per aumentare potere contrattuale attraverso la prepotenza e raggiungere altri scopi – commenta l’economista Leonardo Becchetti – Se fossero veramente applicati creerebbero inflazione (aumento costi raffinazione greggio e assemblaggio auto, tra l'altro) e deprimerebbero le borse. Due fenomeni che l'amministrazione Trump non si può permettere e vuole assolutamente evitare. La risposta corretta alla prepotenza di Trump è quella del Canada, perché fare concessioni alla prepotenza rende la strategia di Trump vantaggiosa e rischia di vederla ripetere. L'Ue deve avere la stessa fermezza».

Come? Un’opzione può essere replicare quanto già fatto con successo da Canada e Messico. Ma una forma più creativa quanto efficace di ritorsione potrebbe nascere da quanto sta suggerendo un crescente numero di intellettuali europei di area progressista, come gli economisti Gabriel Zucman e Andrea Roventini o il giurista Alberto Alemanno. Ovvero, non rispondere ai dazi Usa varandone a nostra volta di generalizzati contro l’import di merci statunitensi, ma concentrando la ritorsione su quanto davvero conta per Trump – ovvero il sostegno dell’oligarchia tech di cui si è circondato – limitando l’accesso al mercato europeo per i vari Musk, Bezos e Zuckerberg, subordinandolo a standard fiscali minimi. In altre parole, si tratta di una nuova forma di protezionismo per colpire le aziende e gli oligarchi che distruggono il clima senza neanche partecipare a criteri di equità fiscale.

Zucman porta un esempio pratico guardando a Tesla; immaginando che la casa automobilistica di Musk non paghi in patria alcuna imposta sulla società o anche carbon tax, ma che realizzi il 5% delle vendite di auto nel mercato europeo, gli Stati Ue potrebbero calcolare quanto Tesla avrebbe dovuto pagare negli Usa se le leggi europee fossero lì applicate, e riscuotere il 5% di tale importo; allo stesso modo, potrebbero tassare lo stesso Elon Musk con una patrimoniale in proporzione alla quota parte della ricchezza sgraffignata dall’oligarca in Europa (poiché tale ricchezza arriva prevalentemente da azioni Tesla, ancora una volta l’esempio punta al 5%).

«Gli Stati Uniti hanno una debolezza – conclude Zucman – la loro oligarchia strisciante e altamente internazionalizzata Perché è una debolezza? Perché si tratta di un numero esiguo di persone che, per la loro ricchezza, fanno affidamento sull'accesso ai mercati esteri, dando così ai Paesi stranieri un notevole potere su di loro È ora di usare questo potere».

Luca Aterini

Luca Aterini, toscano, nasce settimino il 1 dicembre 1988. Non ha particolari talenti ma, come Einstein, si dichiara solo appassionatamente curioso: nel suo caso non è una battuta di spirito. Nell’infanzia non disegna, ma scarabocchia su fogli bianchi un’infinità di mappe del tesoro; fonda il Club della Natura, e prosegue il suo impegno studiando Scienze per la pace. Scrive da sempre e dal 2010 per greenreport, di cui è oggi caporedattore.