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Nuvole nere. In Italia sono 971 gli stabilimenti industriali a “rischio incidente rilevante” per attività e utilizzi di sostanze pericolose. E i 5 morti di Calenzano si aggiungono alla nostra Spoon River per incidenti industriali

 |  Editoriale

Il primo pensiero è ai 5 operatori straziati dal fuoco e ai feriti e ai coraggiosi soccorritori della Protezione Civile con gli eroici vigili del fuoco che in cinquanta minuti hanno evitato il peggio e soprattutto che saltassero per aria i silos, gettandosi nell’inferno del cuore dell’esplosione del deposito Eni terminale del fiume nero di petroli e benzine che dalla raffineria di Livorno sbocca alle porte di Firenze, nella piana di Calenzano. I sistemi di isolamento fortunatamente hanno funzionato e il terrore dell’inquinamento è stato disperso dai venti nell’atmosfera caricandola di altri gas serra.

Cosa ha causato la scintilla che ha causato l’esplosione? Un errore umano o una falla omicida nelle procedure di sicurezza? Lo sapremo. Ma Calenzano come la siciliana Ravanusa con il quartiere saltato in aria per squarci nelle condutture del gas causa saldature farlocche o il ponte Morandi, mostrano falle nella prevenzione.

L’Italia ha tante Calenzano. Era il 1956 quando decisero di investire nella periferia fiorentina con larghe aree in gran parte dell’anno ancora impaludate e con una piccola pista aeroportuale per atterraggi di piccoli aerei privati e pochi DC-3 per collegamenti nazionali nella modernità del deposito dell’Eni a supporto dello sviluppo industriale e trasportistico. E nel 1971 fu inaugurato l’oleodotto che partiva dalla raffineria di Livorno trasportando in sotterranea carburanti. Mentre cresceva il deposito intorno crescevano le aree urbane con fabbriche e servizi e la nuova Calenzano quasi raggiungeva l’impianto. Storie italiane di sviluppo a consumo di suolo senza limiti come sfide all’insicurezza.

Il mega-deposito Eni di benzina, gasolio e cherosene che arrivano attraverso due oleodotti collegati con la raffineria di Livorno per essere stoccati nei silos, in attesa dell’invio alle pensiline per il carico delle autobotti, è due passi dalla ferrovia, dalle autostrade A1 e A11 all’aeroporto di Peretola, dai capannoni di aziende di ogni tipologia, del megacentro commerciale “I Gigli”, a ridosso dell’area urbana. All’interno era tutto un brulicare di operazioni delicatissime per la gestione in sicurezza degli idrocarburi liquidi con il loro arrivo, lo scarico, lo stoccaggio, il pompaggio per il trasferimento sulle autobotti in fila. E sotto il deposito le serpentine di tubazioni fanno viaggiare benzine, petroli e gasoli trasferiti dall’oleodotto Livorno-Calenzano lungo 87 chilometri con due tubazioni e il terminale collocato sotto l’area industriale estesa per 170 mila metri quadrati. Per lo stoccaggio si utilizzano 24 serbatoi cilindrici che inviano i carburanti alle 10 pensiline di carico delle autobotti fornite di sale pompe, impianto antincendio, impianti di recupero vapori e di trattamento delle acque. E ci sono gli edifici per gli uffici e per la gestione delle operazioni di riempimento serbatoi e carico autobotti supervisionate da una sala controllo con una squadra di emergenza interna.

Per il sindaco di Calenzano, Giuseppe Carovani, l’azienda è tra quelle a “rischio di incidente rilevante” e Maurizio Marchi, di Medicina Democratica, nell’ottobre 2020 metteva in guardia da “incidenti catastrofici, esplosioni, anche a catena, incendi, in una area urbanizzata tra i comuni di Calenzano, Sesto, Campi con oltre 100 mila persone”. E per Marco Caldiroli, presidente nazionale di Medicina Democratica: “La morte di lavoratori dimostra un’inadeguata protezione dei lavoratori e insufficienti misure di sicurezza”.

Con i suoi 170mila metri quadrati di aree con impianti e serbatoi, sale pompe e terminal dell’oleodotto, pensiline di carico di benzine, gasoli e jet-fuel, per le sue attività e per essere a due passi da strade e autostrada, dalla ferrovia e dai centri commerciali, dalla piscina comunale e dal centro abitato, è classificato tra le 25 “aziende a rischio di incidente rilevante in Toscana”.

I rischi insomma erano noti, e l’impianto è sottoposto alla direttiva Seveso apriva i cancelli alle ispezioni dell’Arpat ogni tre anni come prevede la normativa in caso di trattamento di sostanze pericolose per l’uomo e per l’ambiente. L’agenzia regionale per la protezione ambientale ha quindi effettuato i controlli previsti per legge nel 2017, 2020 e nel 2023, richiedendo sempre ulteriori misure integrative sulla sicurezza, per “l’identificazione e valutazione dei pericoli rilevanti”, per “l’adozione e applicazione di procedure e istruzioni per l’esercizio di condizioni di sicurezza, inclusa la manutenzione dell’impianto”, per la “pianificazione di emergenza”.

Ogni azienda a rischio in Italia è classificata sulla base della sua pericolosità per le sostanze trattate ed ha l’obbligo del rispetto della normativa garantito dai controlli costanti delle Agenzie regionali di protezione ambientale. Tutti sappiamo però che il rischio zero non esiste. E il rischio incendi, esplosioni, fuoriuscite di nubi tossiche, è disciplinato dalla normativa europea varata dopo la tragedia  dell’esplosione del reattore chimico che coprì con una nube tossica Seveso e parte della Brianza nel 1976.

disastro SEVESO 1976

Seveso divenne il simbolo dell’incubo diossina da quel terribile 10 luglio del 1976 quando, era da poco passato mezzogiorno. In quell’istante esplose una valvola di sicurezza del reattore B nell’impianto di produzione di triclorofenolo, un componente dei diserbanti dell’industria chimica ICMESA di proprietà della multinazionale svizzera Hoffman-La Roche. Si innescò la reazione chimica anticipata da un sibilo acuto e dalla successiva fuoriuscita della spaventosa nube altamente tossica che i venti spostarono dalla cittadina  di Meda, sede dell’azienda, verso i vicini comuni di Cesano Maderno e Desio ma soprattutto lasciandola stazionare su Seveso. Era una nube carica di diossina o TCDD altamente tossica e nociva, ma nessuno allora lo sapeva. Anzi, tutti la guardavano stupiti e impauriti e man mano terrorizzati per il fortissimo odore acre e poi per le violente infiammazioni agli occhi e i primi effetti degenerativi sulla pelle con le dolorose e terribili conseguenze della “cloracne”. Ma la contaminazione da diossina causava gravissimi danni anche al cuore, ai reni, al sistema linfatico, gravi tumori del fegato e disfunzioni agli organi riproduttori sia maschili che femminili. Anche sui campi coltivati il veleno si sparse ovunque. E solo dal 1997 inserirono la diossina nel gruppo 1 tra le sostanze “cancerogene per l’uomo in grado di avvelenare il suolo, le falde acquifere, le piante, gli animali con danni quasi sempre irreversibili”.

L’Italia, per la prima volta, veniva messa di fronte al dramma di una estesa contaminazione chimica. Seveso, con i suoi 20mila abitanti, fu colpito al cuore, con i coltivi di ortaggi e frutta avvelenati, stragi di animali che fecero contare carcasse di oltre 4000 animali domestici e altre migliaia abbattuti per precauzione. Mancavano però informazioni e anche i soccorsi. Per giorni tutti continuarono a respirare aria intossicata dalla diossina, e i primi provvedimenti furono presi solo a cinque giorni dall’esplosione. Ma solo dopo altri due giorni la notizia finì su giornali, radio e televisioni. E solo il 26 luglio iniziò l’evacuazione di migliaia di abitanti dell’area più colpita: la “zona A”. Ci volle poi quasi una settimana perché venisse convocata la prima “Unità di crisi”. E guai a nominare la parola diossina. I manager dell’azienda chimica sapevano che l’esplosione del triclorofenolo, sostanza base per produrre il tranquillante Valium, aveva sviluppato e liberato diossina ma non lo dissero, lasciando i medici italiani e gli esperti a interrogarsi su quelle strane macchie che intanto avevano deturpato in maniera atroce i volti di 447 persone, soprattutto di bambini, lasciando danni permanenti. Quando finalmente la verità venne a galla, le famiglie furono evacuate e le loro case abbattute. E i volti di due sorelline straziati dalla cloracne diventarono il simbolo di ferite ancora aperte.

Il maxiprocesso sulla nube tossica dimostrò che l’Italia era diventata un paese-discarica di produzioni chimiche senza controlli, dove erano possibili “lavori sporchi” e ad alto rischio, e dove era impossibile conoscere i cicli produttivi e le sostanze utilizzate nei processi industriali, e i possibili rischi. Furono accertate le gravissime omissioni della Hoffman-La Roche che aveva speso 800.000 franchi invece dei 7 milioni previsti dagli accordi firmati tagliando fondi per controlli e misure di protezione che, se ci fossero state, avrebbero evitato la fuoriuscita di diossina. L’omertà dei manager aprì il caso di 41 fusti riempiti con diossina scomparsi e ritrovati stoccati in una discarica francese.

Oggi, al posto dell’Icmesa c’è un campo di calcio e il “Parco naturale bosco delle querce”, l’area verde di 62 ettari nata con la bonifica.

seveso 1976 disastro

L’Italia deve soprattutto a due scienziati del calibro di Laura Conti e Giulio Maccacaro, la durissima battaglia contro chi sottovalutava e minimizzava il disastro di Seveso eludendo le responsabilità dei rischi industriali. Il loro lavoro e la documentazione scientifica portò negli anni Settanta del Novecento i problemi del rischio industriale al centro del dibattito pubblico e poi al varo delle prime normative europee e nazionali con i primi vincoli e controlli. Ma la strada della sicurezza e della prevenzione rimase tutta in salita. Solo nel 1985 in Italia fu compilata la prima mappa delle industrie invitate ad “autodenunciarsi” dal Ministero della Sanità come “aziende a rischio di incidente rilevante”. Un quarto di quelle fabbriche non aveva nemmeno il piano di sicurezza in caso di incidente.

Rientrava nell’elenco anche la Farmoplant di Massa, l’azienda chimica di insetticidi chiusa dopo un referendum cittadino a seguito dell’incidente del 17 luglio 1988 che causò uno dei più gravi disastri ambientali italiani. L’esplosione e l’incendio di un reparto di lavorazione causarono la fuoriuscita di una immensa nube tossica che in poche ore coprì un’area di circa 2.000 km2, tra Massa, Forte dei Marmi e il litorale verso la Liguria, e mise in fuga la popolazione.

La Farmoplant, azienda  Montedison, fu messa subito in liquidazione e poi chiusa nel 1991. Lo stabilimento era stato inaugurato nel 1976 per produrre insetticidi e altri prodotti chimici per l’agricoltura, sotto il marchio Farmoplant. Nonostante le rassicurazioni di Montedison, i sindacati denunciarono carenze nella gestione della sicurezza. Nel 1980 un incendio in un magazzino non autorizzato all’esterno all’impianto aveva già prodotto un nube solforosa, e il ministero della sanità incaricò una commissione di verificare la sicurezza interna. Dopo circa cinque mesi di controlli, riaprirono lo stabilimento “per garantire i posti di lavoro” tra le proteste per i rischi nella produzione dei prodotti chimici.

La sensibilità ambientale prevalse dopo l’incidente a Bhopal, India, nel 1984 per l’isocianato di metile fuoriuscito da uno stabilimento dell’Union Carbide che avvelenò e uccise migliaia di persone. Farmoplant utilizzava per le sue lavorazioni alcuni composti simili, e partì una campagna per la chiusura del reparto con quelle lavorazioni. Su pressione della Regione Toscana, che inserì la Farmoplant tra le aziende “ad alto rischio”, nel 1986 la Montedison dopo tanti impegni disattesi si impegnò, ma a parole, ad investire 10 miliardi di vecchie lire per ristrutturare gli impianti di Massa. Ma, nell’autunno del 1987, il referendum consultivo, il primo in Europa organizzato nei comuni di Massa, Carrara e Montignoso indicò la strada della chiusura con una schiacciante maggioranza del 71,69%. Il comune di Massa revocò quindi i permessi per la produzione, ma Farmoplant ricorse al TAR della Toscana che a sorpresa graziò lo stabilimento incredibilmente definito: “Sicuro al 99,999 per cento”.

Alle 6:10 del 17 luglio 1988 però esplose l’impianto per i formulati liquidi della Farmoplant. Alla prima fortissima esplosione ne seguì un’altra dopo circa cinque minuti che fece saltare in aria il serbatoio che conteneva oltre 50mila litri di insetticida dimetoato, il Rogor. L’esplosione produsse un gigantesco incendio sprigionando fumi e vapori tossici che causarono altri incidenti a catena con altre due esplosioni nelle tubazioni in cui si erano accumulati gas e nuovi incendi. La nube tossica prodotta era visibile a distanza. Trasportata dai venti, si diffuse in un’area di circa 2mila chilometri quadrati. L’Unità sanitaria locale di Massa raccomandò di non consumare frutta e verdura prodotta nella zona, e fu disposto il divieto di balneazione. Decine di persone furono ricoverate per intossicazioni.

Partì una nuova campagna con  i lavoratori, per la chiusura della Farmoplant. E il governo infine decretò la chiusura per 6 mesi “in attesa delle verifiche tecniche”, finché tra manifestazioni, blocchi stradali e scontri con la polizia nel 1991 lo stabilimento fu chiuso definitivamente.

I lavori di bonifica della zona iniziarono nel 1991 e proseguirono fino al 1995, e all’inizio del 2000 il reticolo di acque della zona finalmente venne fatto nuovamente confluire nel torrente Lavello. Iniziò però la lunga vicenda legale che contrapposte la Edison, nuovo marchio di Montedison, e la Provincia di Massa-Carrara con i suoi comuni che chiese risarcimenti per danni ambientali. Nel 2010 fu accettato un risarcimento ritenuto però “al ribasso”: il comune di Carrara ottenne 600mila euro, Massa 750mila e la provincia altri 250mila.

Corteo per la chiusura di Farmoplant 1980

In quegli anni Ottanta, altre 14 fabbriche finirono nel mirino delle contestazioni ecologiste e in particolare di Legambiente, e molti comitati promossero referendum locali che chiedevano la chiusura di aziende chimiche come l’Acna di Cengio, Vedril, Agip di Rho, Sisas in Lombardia; Sti, Sariaf e Distilleria Neri in Emilia Romagna; Enichem e Isab di Augusta in Sicilia, Stoppacci e Centrale elettrica di Vado Ligure, Siderurgica lucana, Siderpotenza e l’inceneritore di Potenza. Mancavano qualsiasi trasparenza sui processi produttivi, sulle lavorazioni e sui prodotti utilizzati. Top secret totale al punto che l’allora associazione “Ambiente e Lavoro”, presieduta dall’indimenticabile Marcello Buiatti, scienziato toscano tra i “padri” del moderno ambientalismo, denunciò molte aziende italiane dopo un lungo braccio di ferro ingaggiato con il governo che appose il “segreto di Stato”. Ma non solo sui fascicoli delle industrie a rischio e rientranti nell’elenco “A” della legge Seveso, le più pericolose, ma anche sulle 2.225 inserite nell’elenco “B”, le meno pericolose. Le proteste portarono, nel 1986, all’eliminazione del segreto sulla localizzazione delle aziende chimiche più rischiose, e sulla tipologia e la quantità di sostanze stoccate nei depositi e utilizzate nelle lavorazioni.

Per la prima volta si rendeva pubblico l’elenco e si concludeva una storia di omertà.  

L’evoluzione della normativa per i controlli arrivò il 24 giugno del 1982, a sei anni dall’incidente al reattore dell’Icmesa di Seveso, con l’emanazione della direttiva del Consiglio europeo 82/501/CE sui rischi di incidenti rilevanti connessi con attività industriali, la cosiddetta “Direttiva Seveso”.

Fu recepita nella normativa italiana solo dopo altri 6 anni con il decreto del Presidente della Repubblica n.175 del 1988, che introdusse il “rischio di incidente rilevante connesso all’attività di stabilimenti industriali” che detengono sostanze pericolose (infiammabili, esplosive, carburanti, tossiche per l’uomo o per l’ambiente) oltre determinate soglie quantitative; il controllo del rischio da parte dell’autorità pubblica e il controllo dei piani di sicurezza che gli impianti devono redigere e aggiornare periodicamente.

Dieci anni dopo, la legge 19 maggio 1997, n.137, introdusse una nuova normativa in materia di ispezioni con il decentramento a livello regionale delle competenze e rimuovendo almeno in parte una delle principali cause di gravi ritardi nell’esame dei piani di sicurezza. La nuova normativa quadro sulla prevenzione di incidenti rilevanti arrivò con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, che recepì la “Direttiva Seveso II”.

I gestori degli impianti a rischio dovevano adottare tutte le misure necessarie per prevenire eventi e limitarne le conseguenze per le persone e l’ambiente con la redazione di un rapporto contenente l’analisi dei rischi, il sistema di prevenzione degli incidenti rilevanti, la predisposizione di un piano di emergenza interna, l’obbligo della comunicazione alle autorità in caso di incidente rilevante. I gestori furono sottoposti a controlli, ispezioni e valutazioni da parte di Ministero dell’Ambiente e Regioni. Ulteriori competenze finirono poi in carico alle prefetture per la predisposizione dei piani di emergenza esterna; ai sindaci per l’informazione alla popolazione sui rischi e i comportamenti da assumere in caso di incidente; alle Regioni e ai Comuni per il controllo dello sviluppo del territorio nelle aree circostanti gli stabilimenti.

Con la direttiva 2003/105/CE, la “Seveso II bis”, recepita in Italia il 21 settembre 2005, gli obblighi furono estesi a settori non previsti dalla “Seveso II” come le aziende galvaniche e pirotecniche. La direttiva comunitaria del 4 luglio 2012, la “Seveso III” sanciva poi l’obbligo di garantire ai cittadini un miglior accesso all’informazione sui rischi dovuti alle attività dei vicini impianti industriali e sulle azioni in caso di incidente, nonché per un’efficace partecipazione alle decisioni relative agli insediamenti a rischio e la possibilità di avviare azioni legali.  È evidente che i piani di sicurezza e di emergenza devono essere sempre aggiornati con le procedure di gestione in grado di fornire chiare indicazioni operative a tutti i soggetti coinvolti, evitando di costituire solo semplici adempimenti formali.

Quante sono oggi le industrie a rischio? Sono 971 quelle “sotto osservazione”. Oltre il 50% si concentra in 4 regioni del Nord: Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. I comuni interessati sono 756. Ravenna guida la classifica delle città più esposte con 26 stabilimenti, seguita da Venezia (15) e Genova (14). Sono presenti anche nel Centro-Sud, in Sicilia, Lazio e Campania (ciascuna con circa il 6%), in Toscana (5%), Puglia e Sardegna (4%). La distribuzione geografica degli impianti che detengono sostanze eco-tossiche e prodotti petroliferi è concentrata vicino ai poli petrolchimici e di raffinazione come Trecate, Porto Marghera, Ravenna, Ferrara, Gela, Priolo, Brindisi, Taranto, Porto Torres e Sarroch. L’Ispra ha analizzato i “territori di prossimità” alle aziende a rischio incidente rilevante, identificando tra i 514 stabilimenti “Seveso” che utilizzano o detengono sostanze pericolose per l’ambiente quelli ubicati entro una distanza di 100 metri da un’asta fluviale, da un lago o bacino o dalla linea di costa.

Per garantire più elevati standard di sicurezza all’interno di aziende pericolose, fronteggiare il rischio da incidente rilevante, ridurne o mitigarne gli effetti, la normativa oggi impone attività di previsione e prevenzione. Sono individuate le sostanze pericolose che possono dar luogo a incidenti rilevanti ed esporre al rischio di emissioni, incendi o esplosioni di grave entità. Sono definiti quali impianti industriali devono essere sottoposti al controllo di un responsabile della sicurezza. I gestori hanno molti obblighi da rispettare, a partire dalla compilazione di schede informative con tutte le notizie riguardanti la fabbrica, il processo produttivo, le sostanze pericolose trattate o stoccate, le loro caratteristiche, i possibili incidenti, gli effetti sull’uomo e sull’ambiente, nonché i sistemi di prevenzione, le zone a rischio, le misure di protezione da adottare.

Inoltre, è un obbligo di legge predisporre piani di emergenza interni che comprendano tutti i sistemi di protezione per evitare al massimo, in caso di incidente, effetti esterni. Tutti gli adempimenti devono essere notificati ai lavoratori e anche alla Regione, al Prefetto e al Comune.

Vedremo, anche nel caso di Calenzano, se tutte le normative sono state applicate.

lutto cittadino calenzano

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.