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Il secondo tragico Trump: l’Accordo di Parigi è la prima vittima del 47esimo presidente Usa. Nello stadio di Baku da oggi 198 nazioni si giocano il futuro del pianeta alla Cop29. Ma nell’anno più caldo il mondo rischia l’autogol

 |  Editoriale

L’asteroide Trump, ingrossato dalla seconda investitura di commander in chief dei negazionisti climatici, colpisce ancora. A 32 anni dall’inizio dell’andirivieni della diplomazia climatica, iniziato con la prima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro con lo speranzoso “Summit della Terra” che dal 3 al 14 giugno del 1992 riunì capi di Stato e organizzazioni ecologiste, il lato peggiore dell'America ritorna e mina ogni accordo per raffreddare la febbre sempre più alta del pianeta. Si abbatte sull’unica leva possibile per la riduzione delle emissioni killer, mandando in tilt prima del fischio d’inizio la 29esima Conferenza delle Parti che inizia oggi nello stadio di Baku, capitale dell’Azerbaijan, trasformato in un mega centro congressi per 50 mila partecipanti.

Il tycoon, come ha anticipato il Wall Street journal, nel primo giorno del suo nuovo insediamento alla Casa Bianca da 47esimo presidente Usa, esporrà lo scalpo dell’uscita dall’Accordo di Parigi ai suoi vecchi fan e ai nuovi ceppi istituzionali e industriali del negazionismo climatico. A quelli che nel mondo insistono nel negare l’evidenza nell’indifferenza totale di fronte all’escalation di catastrofiche alluvioni, a ghiacciai che scompaiono, a colossali incendi fuori controllo, alle prime isole sommerse, a siccità sempre più prolungate, alle ondate di calore mai subite dal Pianeta dalla comparsa degli esseri umani.

È il secondo abbandono del tavolo delle trattative per la riduzione delle emissioni di gas serra, un altro strappo clamoroso mentre il resto del mondo che vuole provare a ridurle e ad adattarsi dopo la prima clamorosa uscita dall'accordo il 4 novembre 2020 nel corso del suo primo mandato. Dall’isolamento Usa di allora rientrò Joe Biden con il suo ordine esecutivo del 21 gennaio 2021. Ma Trump promette di più, che abrogherà l’Inflation reduction act che finora ha consentito a Biden investimenti complessivi pubblici e privati da circa 450 miliardi di dollari nel settore energetico statunitense. Per Bloomberg NEF un autogol per un calo del 17% di nuovi impianti di energia rinnovabile nel decennio 2025-2035, con l'eolico offshore a meno 45%, regalando il business di tutto il comparto delle nuove energie soprattutto ai cinesi. Ma, complessivamente, calcolano i centri di ricerca, la retromarcia di Trump aumenterà di 4 miliardi di tonnellate le emissioni di CO2 entro il 2030: un disastro con quantità annuali di carbonio pari a quelle di Giappone e Unione europea messe insieme.

La delegazione americana, guidata da John Podesta - consigliere di Biden sull’energia dopo l’uscita di John Kerry - dovrà oggi resettare il quadro e provare a fare i salti mortali per rassicurare che l’America potrà anche rallentare la decarbonizzazione ma non bloccare la transizione verso le rinnovabili e il taglio di emissioni. Ma a Baku il mondo riparte senza ovviamente Joe Biden e coi forfait per vari motivi anche di leader europei - dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen a Emmanuel Macron al tedesco Olaf Scholz -, del leader cinese Xi Jinping e dell’indiano Narendra Modi, e nemmeno arriverà Luiz Inacio Lula, che però rinvia la vera resa dei conti climatica alla prossima Cop30 che sta organizzando nel cuore dell’Amazzonia, a Belém nel novembre 2025, proprio nel decennale dell’Accordo di Parigi. Arriverà, invece, Giorgia Meloni e interverrà da presidente di turno del G7 in plenaria.

Senza i maggiori leader inquinatori del globo e con l’uscita di Trump, la conferenza annuale delle Nazioni Unite più che salvare il Pianeta e raccogliere più fondi per la finanza climatica, dovrà evitare la totale debacle.

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Trump boicotta le azioni per il clima in nome delle promesse elettorali di mani libere nel settore trivellazioni e degli slogan a tutto Oil & Gas

L’asteroide Trump aveva indirizzato già in campagna elettorale la sua traiettoria. Ricordate lo slogan trumpiano martellante "Drill, drill, drill!" e “Frack, frack, frack!”, quel continuo “perforare e fratturare” terreni per entrare nell’età dell’oro succhiando però oro liquido e nero di petrolio e gas, condito da bugie colossali quanto i business promessi alle compagnie trivellatrici? Mandava però in delirio i fan adoranti e votanti del “Make America great again” vincente. Trump li ha convinti e spinti al voto anche su questo, e se poi gli oceani si innalzano who care friends, chissenefrega; tanto così “avremo più villette con vista sull’oceano”.

Il prossimo due volte presidente degli Stati Uniti ha però già dimostrato come si peggiora il clima, ringalluzzisce negazionisti e boicottatori di ogni latitudine planetaria e getta sgomento tra i partecipanti del 29esimo summit del clima delle Nazioni Unite a Baku, che si apre oggi sotto il segno dello sconforto per il clamoroso secondo “ordine esecutivo” del ritiro degli Usa dall’accordo di Parigi, faticosamente negoziato dai rappresentanti di 196 Stati e sostenuto e firmato anche da Barack Obama il 12 dicembre 2015.

L’effetto Trump 2 la vendetta è piombato sulla kermesse climatica dell’Onu nel petro-Stato dell’Azerbaijan, dove il clima tra i partecipanti è già sotto i tacchi. L’ex paese satellite sovietico peraltro è sotto accusa delle associazioni ambientaliste per l’utilizzo della Cop29 ai fini di “una narrativa di greenwashing” per oscurare violazioni di diritti umani e nella salvaguardia di ecosistemi naturali e una economia fossile con export di combustibili da pozzi petroliferi e di gas.

La Cop29 deve fare i conti con le guerre in corso, con l’aggressione russa all'Ucraina e i massacri mediorientali, e con proiezioni da brivido condivise da tutti gli enti scientifici del mondo a partire dal Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici dell’Onu, che indicano a fine secolo, senza correzioni di rotta, l’exploit della temperatura tra 2,1 e 2,8°C in più sulla media del periodo preindustriale 1850-1900, facendo saltare “l’invalicabile” e temibile “punto di non ritorno” di +1,5 °C ormai già all’orizzonte. Deve reagire all’aumento di emissioni globali di gas serra dell'8,8% sul 2010, e al pianeta che brucia record di calore uno via l’altro, con questo 2024 già nella storia come l’anno più caldo mai rilevato. Dovrà concordare obiettivi di riduzione di emissioni e di aumento di finanziamenti strategici e urgenti per le politiche di adattamento e per sostenere i Paesi in via di sviluppo. Ma con gli Usa platealmente fuori dagli accordi sul “phasing out” dai combustibili fossili deciso nell’ultima Cop28 di Dubai, rischia il nuovo flop la rete diplomatica climatica incaricata di trovare soluzioni per compensare i paesi poveri e più esposti ai danni del clima. La stessa delegazione Usa che rappresenta ancora l’amministrazione Biden, a questo punto non si sa con quale mandato della Casa Bianca, può entrare in gioco nelle partite dei negoziati che iniziano oggi.

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Al 29esimo summit o la palla della lotta climatica va in gol o il mondo resta ancora sugli spalti a contare vittime e danni di catastrofi epocali e isole sommerse

Sul campo dello stadio della capitale azera trasformato in mega-centro congressi da oggi sono schierate le delegazioni di 198 nazioni ognuna con tattiche di gioco e mediazioni allo sfinimento, come accade in ogni Conferenza dell’Onu. Da oggi al 22 novembre i grandi e i piccoli della Terra con al seguito 50mila tra delegati, esperti e delegazioni scientifiche dovranno sciogliere nodi aggrovigliatissimi, sbloccare la “finanza climatica”, organizzare le presentazioni e il deposito entro il prossimo febbraio 2025 dei piani nazionali di adattamento e azione climatica da oggi al 2035, e lo faranno in anticipo probabilmente Regno Unito, Brasile, Stati Uniti, Azerbaijan, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Giappone, con l’Italia che ha adottato il suo “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” ma senza renderlo operativo. Dovranno indicare come contrastare le emergenze catastrofali e l’esodo dei profughi del clima e quantificare i contributi nazionali ai paesi in via di sviluppo.

La Cop29 riparte dalle conclusioni insperate della COP28 firmate al fotofinish all’alba del 13 dicembre del 2023 in una rovente Dubai con il record di 70.000 partecipanti sotto i 30 gradi di temperatura. A sorpresa, però, fu avviata la “transition away” dai combustibili fossili, fu deciso di triplicare la potenza energetica da fonti rinnovabili con il colpo di scena del compromesso storico mondiale favorito soprattutto da Usa, Cina, Europa e dall’abile sultano Al Jaber che annunciò “un accordo storico per la prima volta sull’uscita dei combustibili fossili”. Il documento finale impegnava 198 Paesi ad “abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere le emissioni zero entro il 2050 in linea con la scienza… ad accelerare le tecnologie a zero e a basse emissioni, tra cui, tra l’altro, energie rinnovabili, nucleare, tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori difficili da abbattere, e la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio… a triplicare la capacità di rinnovabili e a duplicare gli sforzi per l’efficienza energetica”.

Alzarono i pollici in segno di vittoria John Kerry e l’inviato speciale cinese Xie Zenana che aveva portato la Cina negli Accordi di Parigi del 2015 e la spagnola Teresa Ribeira da ministro per la transizione ecologica e inviato speciale Ue per il clima. Finalmente, dopo 8 fallimentari Cop post Parigi, rilanciarono l'obiettivo indicato nel 2015, ovvero contenere l'aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi. I nuovi business erano come personificati nella figura di Al Jaber poiché, oltre ad essere ministro dell’Industria e ad della compagnia nazionale petrolifera degli Emirati Arabi, è anche fondatore e ad di Masdar ovvero la “Abu Dhabi Future Energy Company”, seconda più grande azienda di energia rinnovabile al mondo, impegnata dal 2006 in mega investimenti per 15 miliardi di dollari in 40 Paesi, e gestore degli impianti solari più grandi del mondo e del primo impianto di cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio da 5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.

La svolta di Dubai mise comunque d’accordo il blocco dei Paesi industrializzati e grandi emettitori come Cina, India, Usa, Ue, Russia, Giappone con le loro economie più inquinatrici che, con il 49,2% della popolazione mondiale, consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile. Si impegnarono a rispettare i tagli di emissioni climalteranti - meno 45% entro il 2030 con target net zero entro il 2050 - su carbone, petrolio e gas, a triplicare le rinnovabili e a duplicare l'efficienza energetica entro il 2030. La Cina, in ogni caso, tra mille contraddizioni sta provando a dominare il business con tecnologie di veicoli a zero emissioni, per batterie di accumulo, per produrre energia pulita con giganteschi investimenti allargandosi parecchio anche sui territori europei.

A Dubai entrarono in scena anche il nuovo nucleare inserito tra le “tecnologie di abbattimento e rimozione”, “la cattura e l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio”, i “combustibili di transizione” come il gas, con l’obiettivo della riduzione delle emissioni di metano entro il 2030 dal trasporto stradale e l’eliminazione progressiva degli “inefficienti sussidi” ai combustibili fossili. Trovarono ascolto le richieste dell’”Alleanza delle piccole isole del Pacifico” condannate ad essere sommerse a fine secolo, e si faranno sentire anche a Baku i 39 rappresentanti dell’Alleanza che chiederanno impegni concreti nella frenata della velocità del riscaldamento globale e nell’accoglienza dei profughi climatici.

I delegati da oggi dovrebbero definire l’attivazione del Global stocktake atteso dal 2015 come “tagliando” alle azioni di ogni nazione per verificare gli impegni solennemente controfirmati per la riduzione delle emissioni di Co2 del 43% entro il 2030. Attivare il meccanismo “perdite e danni”, il fondo loss and damage deciso nel 2022 nella Cop di Sharm el Sheikh da riempire con 100 miliardi di dollari all’anno per sostenere le aree più colpite dall’emergenza climatica ma con danni catastrofali ormai decuplicati prodotti da tempeste e inondazioni, siccità e carestie e dall’aumento del livello di oceani e mari, e solo per un terzo coperti da polizze assicurative. Definire la “Transition away” che significa efficienza energetica, riduzione graduale dell’energia da fonti fossili entro metà secolo e accelerazione delle rinnovabili con la crescita costante dei maggiori “global player” nelle tecnologie green, e del business colto da paesi come la Cina, che incredibilmente oggi stanno puntando forte sull’espansione delle tecnologie in tutti i settori green e salutano da lontano Trump come il loro miglior sostenitore.

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Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.