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Bologna Repubblica Marinara. Quando dal porto si navigava verso Milano e Venezia, Po e Adriatico. Oggi canali e acque tombate esplodono ai primi nubifragi: è l’ora di affiancare ai Prg i Piani regolatori delle acque

 |  Editoriale

Un breve ripasso della superba storia dell’idrologia urbana bolognese, specchio della più vasta idrologia italiana scomparsa per tombamento, serve a capire i perché dello sconquasso dei corsi d’acqua esplosi e fuoriusciti ancora una volta in questi giorni dalle coperture nelle quali sono stati costretti, creando una infinità di emergenze con aree di città devastate e coperte di fango e sovrastate dall’acqua in queste drammatiche giornate. Ma tornano a galla antichi canali, rii, ruscelli, torrenti e fiumi dei quali nessuno più ricordava l’esistenza, né i loro nomi e né le loro traiettorie, dimenticati nel sottoattraversamento urbano in gallerie e tubi incapaci di contenerli in fase di piena e pressione, da dove fuoriescono con tutta la loro potenza distruttiva.

I bolognesi antichi non avevano il Po, ma sentivano scrosciare l'acqua ovunque, udivano il suono delle grandi ruote dei mulini mosse dalla corrente fluviale, guardavano lo sciabordio dei barconi carichi di mercanzie che dai canali della città si muovevano lentamente in direzione pianura padana e poi verso i porti del Nord e dell'Adriatico. Sotto vie e piazze che nascondono ciò che resta della città etrusca e romana, scorrono in questi giorni impetuosi corsi d’acqua. Per un lungo percorso scomparso alla vista scorre tombato il torrente Àposa che, nel corso dei secoli, poco alla volta è sparito per far spazio alla città di sopra. Brutto finale per il torrentello che nasce dalla collina in una piccola verde vallata ed è lungo appena 7.500 metri arrivando in città. Sulle sue sponde s’accamparono gli etruschi fondatori di Felsina nel VI secolo avanti Cristo, poi i romani fondatori di Bononia. Nel 1070 iniziarono a incanalarlo in un condotto urbano in mattoni che tagliava in due il lato sotterraneo della città. Oggi l’Àposa cala dalla sorgente libero e selvaggio per un po’, e dalle porte della città scorre interrato. Possiamo persino ammirarlo in pieno centro storico tra Porta Castiglione e Porta San Mamolo, affacciati dal serraglio medievale dal quale appare lo spiazzante effetto Venezia con le sue acque che testimoniano la presenza antica e dimenticata.

L’Àposa riforniva d’acqua anche il complesso monastico di San Domenico, il macello e il mercato della carne presso le due torri per “funzioni igieniche” e cioè ripuliture e scarichi fognari. Scriveva lo storico cinquecentesco bolognese Pompeo Vizani: “Al tempo delle pioggie scende da i monti vicini con tanta furia, che passando a dirittura per mezzo la città, per certi acquedotti, e chiaviche sotterranee, e discorrenti per la pioggia, porta via, e netta tutte le immondezze, che si trovano in esse”. Le fogne, caso rarissimo tra le città medievali, erano già parte del disegno urbano. Gli statuti medievali cittadini stabilivano di pavimentare strade e piazze con lastre di pietra o in mattoni per l’obbligo della copertura degli scoli a cielo aperto. Nel tardo Quattrocento, Gaspare Nadi, maestro muratore e diarista, descriveva un progetto di strade con fogne, fornendo l’ubicazione di venti “chiaviche” sotterranee, alcune di considerevole lunghezza. Molte sfociavano nell’Àposa, come ricorda Richard J. Tuttle  nel suo testo “Il sistema delle acque in Bologna nel Rinascimento”.

Dante indica, nell’Inferno Canto XVIII, i bolognesi come color che stanno “fra Sàvena e Reno”. Due possenti corsi d’acqua interrati sotto la città

Il secondo torrente bolognese è il Sàvena che dai monti toscani per 55 km giunge in città, e prende il nome etrusco dal significato di "vena d’acqua”. Nel Medioevo era tutta energia per i mulini montani come quelli dell’Allocco, Parisio e Frino, e dal 1176 fu deviato per fornire acqua al nuovo “Canale dei mulini”, la potente idrovia delle ruote idrauliche che muoveva mole per il grano, e irrigava campi e orti in un percorso che lo portava ad incontrare l’Àposa. Il terzo corso d’acqua tombato è proprio il Reno, un grande e impetuoso fiume che sorge in Toscana sui monti del pistoiese da dove, percorsi 212 km, si tuffa nell'Adriatico. Via d’acqua preziosissima che diventò anch’essa parte della città. Era il 1183 quando il “Consorzio dei Mugnai” bolognesi, detti “Ramisani”, lo fece sbarrare a Casalecchio, a 83 chilometri dalla sua sorgente, da una possente pescaia o steccaia di legno e da lì aprirono l’imbocco di un canale che circa 5 chilometri dopo trasportava in città tanta acqua come forza motrice per i canali con mulini e opifici ai lati, e riempiendo anche i 9 chilometri di fossati difensivi intorno alle mura, aumentando l’apporto delle acque dell’Aposa e del Sàvena. Dal 1250, lo sbarramento di Casalecchio diventò sempre più leggendario, e oggi una è delle più possenti e spettacolari chiuse del mondo in lapidibus, cioè interamente in muratura. Uno spettacolo di ingegneria idraulica gestito dai consorzi di bonifica, larga oltre 250 metri e con l'opera di presa con il canale e gli scolmatori lunga oltre 2000 metri. Più volte è stata distrutta dalle rovinose piene del Reno, ma è stata sempre ricostruita. È oggi una meraviglia assoluta.

Dalla prima chiusa in legno duecentesca di Casalecchio, una bella portata d’acqua del Reno entrava in città da un portale a forma di grata, e da lì scorreva fino alla “Sega dell’acqua” da dove partivano due derivazioni, una difensiva verso le mura e l’altra come Canale delle Moline. Sulle sue sponde c’erano chiàviche private con paratie delle famiglie più facoltose e chiàviche pubbliche che alimentavano i lavatoi e diluivano le acque luride delle latrine.

Il canale del Reno con parte delle acque del fiume scorreva parallelo all'alveo del fiume fino all’ingresso a Bologna per 5,3 km dalla Chiusa di Casalecchio. Attraversava la città per circa 3 km a cielo aperto e poi fu quasi completamente tombato dai primi anni del Novecento.

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Dal Medioevo e fino all’inizio del XX secolo, il Reno permise ai bolognesi di costruire e utilizzare al massimo uno dei maggiori porti fluviali d'Italia

Bologna aveva un gran porto urbano e una flotta commerciale che solcava il largo canale navigabile che dal porto, superate le mura, attraversava la pianura bolognese e dopo circa 40 km di navigazione si reimmetteva nel Reno a Passo Segni, per entrare nel Po di Primaro e raggiungere il mare. Il porto fece di Bologna uno dei terminali della vasta e stupefacente rete di idrovie per la navigazione che collegavano tutti gli scali delle città della pianura padana: Milano, Monza, Pavia, Lodi, Crema, Cremona e Mantova in Lombardia; in Veneto collegavano Venezia, Treviso e Verona. In Emilia, Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Ferrara; e Imola, Faenza, Forlì e Ravenna in Romagna.

Una storia che sembra oggi incredibile. Dal 1270, dopo trent’anni di lavori massacranti, il Canale Naviglio o Navile diede inizio alla lunga storia di via fluviale interna che da Bologna portava a Venezia con due viaggi a settimana, il martedì e il sabato. Il canale navigabile collegava la città con il mondo facilitando i commerci, trasportando materiali edilizi anche pesanti come il marmo, e i passeggeri sui barconi. Il boom dal 1490 quando, Giovanni II Bentivoglio allora “Signore di Bologna”, decise che alla città serviva un grande porto fluviale e fece inglobare tra le mura lo scalo esterno di Corticella, allora a circa tre miglia fuori dalla città. Chiese in prestito a Ludovico Sforza il suo architetto Pietro da Brambilla, che progettò e fece realizzare in tre anni saracinesche navali e il prolungamento del canale in città. L’inaugurazione del nuovo Navile avvenne in gran pompa il 10 gennaio 1494, con un corteo di barche. Lo ristrutturarono gli ingegneri di papa Paolo III Farnese sotto la direzione dell’architetto Jacopo Vignola che riprese gli schizzi di Leonardo da Vinci e costruì tre nuove saracinesche navali con bacini, chiuse e ponti e il nuovo porto dentro la città, vicino a Porta Lame. Entrò in funzione nel 1540.

Il Canale di Reno, oltre Bologna, recuperando l’Aposa diventava il “Canale Navile”, l’idrovia principale di navigazione abbastanza ampia da poter essere sfruttata anche come via di trasporto del legname, per condurre “dagli alti monti grandi travi di Abete, e altre legna, si per edificare”, come scriveva Leandro Alberti. Per superare i dislivelli del terreno costruirono, in varie epoche, una decina di “sostegni”, le chiuse azionate dal Genio Civile fino al 1952 quando concluse la sua lunga storia del trasporto passeggeri e merci.

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L’energia idraulica fece grande la città che aveva la celebre università, era tra le più popolate d’Europa e iniziava la storia delle bonifiche

La gran parte dei suoi 60.000 abitanti viveva grazie al successo dell’industria molitoria e della seta. Solo in caso di siccità tutto si fermava, produzione industriale e agro-alimentare e ruote idrauliche. Ma quasi sempre l’acqua era abbondante e arrivava a valanga sulle pale idrauliche. Sul “Canale delle Moline” era tutto un girare di grandi ruote per torchi, macine e filatoi. In quel tratto “industriale” il Reno si sviluppava in una serie di cascatelle con coppie di mulini sui due lati che azionavano industrie meccaniche che lo storico bolognese Leandro Alberti elencava come “stromenti da secare legni, da tritare e polverezzare le spetie, con la Galla, da fabricare armi, con vasi di ramo, d’agguzzare ferramenti, e darli splendore, da fare la carta, follare panni, filare la seta”.

Bologna per 300 anni contese alla Cina il primato della produzione della seta. Tutto nacque dall’invenzione di un “Mulino della seta” che fece arrivare mercanti da ogni parte e la rese capitale della seta in competizione con l’Estremo Oriente. Era accaduto che alcuni monaci riuscirono a trafugare dei bachi da seta e dalla Cina li portarono a Costantinopoli insieme al procedimento per la filatura. La tecnica arrivò in Italia con i bizantini, ma solo Bologna trovò l’idea che cambiò il modo di filare conosciuto. I Mulini da seta erano alti anche quattro piani e davano lavoro a centinaia di operai con ritmi produttivi no stop e filati di migliore qualità. E la tecnologia fu dichiarata “Segreto di Stato”, con gravi pene per chi lo violava. Nel 1538, due uomini furono condannati a morte in contumacia per averla esportata a Trento. A fine Seicento erano ben 119 i Mulini da seta mossi da 353 ruote idrauliche. La maggior parte della seta veniva esportata in Francia, nelle Fiandre, in Germania, in Inghilterra e nell’Oriente turco.

I canali avevano anche la funzione di irrigazione e bonifica fondiaria. Fuori dalle mura, la Congregazione Benedettina creò la “Sacra Congregazione delle Acque” con compiti di bonifiche e costruzione di impianti e canali nel ristagno di oltre 40.000 ettari di terre paludose e malariche. Solo nella seconda metà del Settecento impressionanti lavori di regimazione portarono ad un nuovo assetto idraulico e, agli inizi dell’Ottocento, nel periodo napoleonico, Bologna, Ferrara e Ravenna diventate Province istituirono il “Magistrato delle Acque” per la manutenzione di fiumi e torrenti arginati. In ogni circondario un “consorzio” dei proprietari di terre e immobili aveva il compito della gestione del reticolo idraulico minore, e del riparto delle spese. La riorganizzazione napoleonica diede ottimi risultati, e fu mantenuta anche con il ritorno dello Stato pontificio.

Conclusa l’epoca della navigazione fluviale e cancellato il porto bolognese, il Reno e il Canale di Reno, come altri canali, fu utilizzato per gli usi irrigui nella bassa pianura bolognese e per la gestione delle terre di bonifica affidata ad uno dei più antichi Consorzi di bonifica d’Italia, costituito nella seconda metà del XVI secolo, i Consorzio della Chiusa di Casalecchio e del Canale di Savena, e della Bonifica Renana. Sanno che il Reno è regolato dalle paratie della Chiusa, ma il suo regime torrentizio fa balzare le sue portate medie da 10 metri cubi al secondo a un massimo di 100. Del suo mitico Canale restano le chiuse o sostegni di metà Cinquecento disegnate da Jacopo Barozzi detto il Vignola, realizzate a "porte vinciane” che si aprono controcorrente con la pressione dell'acqua.

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Perché esplodono i corsi d’acqua tombati? Aver pensato di poter “addomesticare” per sempre le acque sotterrandole si è rivelato un rischio

Lo stato di emergenza nelle nostre tante città colpite da valanghe d’acqua impressionanti è dovuto anche a clamorosi errori idraulici de passato. I luminari dell'Ottocento, ingegneri e architetti, certo non potevano sospettare le future mega-espansioni edilizie senza alcun criterio, e diedero tranquillamente il via al tombamento dei corsi d'acqua nei tratti urbani e al loro continuo raddrizzamento con rive cementificate a monte delle città. Era la nuova idraulica italiana figlia del “decoro urbano” che impegnava i primi assessorati ai lavori pubblici comunali nella copertura di tutti i canali con acque perché erano rischi sanitari e perché serviva alla prima espansione urbanistica. Venne innescata così, da Nord a Sud, una fittissima rete di canalizzazioni sotterranee di corsi d’acqua come future bombe ad orologeria, pronte ad esplodere con piogge più consistenti.

La spinta culturale in quella direzione, in verità, l'aveva data Napoleone Bonaparte re d'Italia dal 26 maggio 1805 all'11aprile 1814. Portò con sé le teorie dei suoi ingegneri d'Oltralpe e il gran merito di aver fatto coprire tutte le antiche fognature parigine a cielo aperto a livello stradale costruite nell’11esimo secolo. Furono tutte tombate con “instalations sanitaires” per eliminare odori e spettacoli nauseabondi e ridurre il rischio e il costo delle epidemie di tifo o colera. Miasmi et spurcitie c’erano a volontà anche nelle città italiane per acque nere e sporche con liquami organici che finivano nei corsi d’acqua urbani. Contro le violente e periodiche epidemie c’era una sola ricetta: tombarli e renderli sotterranei, e questo portò man mano alla scomparsa del reticolo idraulico minore cittadino.

Il Regno d'Italia e il fascismo hanno proseguito l'opera nel segno dell'idraulica salvifica e risolutiva, con coperture eseguite una tantum pensando di non doversene occupare mai più. Oggi Bologna, come tantissime altre città, è di fronte alla loro ingovernabilità. Il suo è un sistema idro-circolatorio che collassa coi nubifragi di questo nuovo millennio e il risultato sono le devastazioni per le coperture delle tombature, che esplodono sotto la città edificata.

E l’Italia ha poi continuato a costruire trappole a tempo dagli anni Sessanta del Novecento, quando divenne terra di conquista con cemento a presa rapida e senza limiti. Calpestando leggi, normative e regolamenti con silenzi complici, interessi, intrallazzi e connivenze, sono state tirate su costruzioni di ogni tipologia e interi quartieri triplicando il costruito dei duemila e passa anni precedenti: dal 2,8% del 1956 all’8,3% di oggi, calcola l’Ispra. L’iperconsumo di suolo non si è fermato nemmeno di fronte alle più violente alluvioni del secolo scorso, iniziate la notte del 4 di novembre del 1966 quando le acque dell’Arno a 70 chilometri all’ora devastarono Firenze simbolo di quella alluvione, e anche altri 1.119 Comuni in 34 Province del centro-nord furono travolti dai torrenti e fiumi nei bacini dell’Arno, Po, Tevere, Adige, Brenta-Bacchiglione, Piave, Livenza e Tagliamento.

Passata quell’emergenza epocale, ricominciò l’espansione delle città nel disordine urbanistico e in un brevissimo arco di tempo sono stati cementificati e asfaltati altri terreni e corsi d’acqua. Dagli anni del boom edilizio, in un Paese dove il Parlamento non riesce a fermare o almeno a contenere per legge il consumo del suolo, sono stati “sigillati” suoli naturali e reticoli d’acqua urbani per oltre 20.000 km di lunghezza complessiva.

Oggi va ripensata tutta l’idraulica urbana italiana. Vanno affiancati ai Piani regolatori delle città i Piani regolatori delle acque, e recuperate tutte le informazioni sui corsi d’acqua scomparsi ma sempre scorrenti, mettendo a sistema le conoscenze, creando soluzioni nuove per la sicurezza dei cittadini. Operando a monte delle tombature dove è possibile, e nei percorsi a valle per ridurre le portate di tracimazioni urbane. Un lavoro lungo, non semplice ma necessario, che l’Italia ha il dovere e tutto l’interesse di far partire.

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.