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L’eccezionale testo di Leonardo Sciascia “La grande sete della Sicilia finirà nel 2015” dell’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico, recuperato da Giovanni Taglialavoro. Lo scrisse nel 1968, ma la grande sete continua

 |  Editoriale

È ormai un luogo comune che la Sicilia è terra di contrasti, di contraddizioni, di incongruenze, di paradossi… L’isola ha tanti problemi. Ma quasi tutti si collegano al problema dell’acqua. L’acqua contesa fino alla violenza e al delitto. L’acqua che si perde nei meandri della burocrazia e della mafia.

La gente di ciò ha coscienza: sa, come proverbialmente si dice, dove e come l’acqua si perde. La disponibilità attuale dell’acqua in Sicilia è di 165 litri al giorno contro una media nazionale di 250, media comprendente i depressi livelli del Sud. La disponibilità normale al Nord è di oltre 400 litri al giorno. Nella classifica delle regioni per numero di abitanti con insufficiente disponibilità idrica, la Sicilia è al primo posto seguita dalla Puglia.

Un tempo la Sicilia era celebrata anche nelle sue acque: i poeti greci, i poeti arabi, il poeta Antonio Veneziano che, nel ’500, esaltò l’idrografia siciliana nella marmorea rappresentazione di quella fontana pretoria oggi asciutta nella piazza dove sorge il municipio di Palermo. La Sicilia ricca d’acque è ormai come un miraggio. Un miraggio la Fonte Aretusa nel cuore dell’antica Siracusa, così pure miraggi i fiumi mitici della stessa città, il Ciane e l’Anapo, cantati da Salvatore Quasimodo. In questi fiumi crescono i famosi papiri del tempo classico, piante che hanno bisogno di una grande quantità d’acqua. E ancora miraggio le bagnanti dei mosaici di Piazza Armerina.

Più reale è questa Sicilia arida, percorsa in questa valle dalle acque del fiume Salito, stente e brucianti. Il Salito: un fiume che inaridisce invece di suscitare rigoglio, un fiume che nasce tra i giacimenti di sale – salgemma e sale potassico – di questa zona della Sicilia in cui la tecnica è arrivata soltanto per strappare il minerale e non per desalinizzare le acque che darebbero vita alla terra.

Un itinerario lungo, ossessivo, un viaggio quasi senza speranza. Più di diciotto chilometri sono lunghi i tralicci che permettono alla teleferica di convogliare il materiale allo stabilimento di Campofranco, dove un grande bacino artificiale raccoglie le acque del Platani. Una produzione di 250 tonnellate di solfato potassico.

Ma cosa resta alla Sicilia?

Il sogno dell’industrializzazione, là dove si è realizzato, ha aggiunto aridità all’aridità: e il caso più evidente è quello della piana di Catania. Dalle dighe Pozzillo e Ancipa la piana doveva essere irrigata, mutata da granaio in giardino. Ma l’industria aveva bisogno di acqua, e subito l’acqua destinata all’agricoltura è stata sacrificata a questo sogno, a questo mito. L’acqua non scenderà mai più per questa rete di canali.

Uno dei tanti sprechi, e forse il più imperdonabile che siano stati consumati in questi anni da una classe di potere impreparata e imprevidente.

La mancanza totale di acqua ha spopolato quasi del tutto di abitanti il villaggio Capparini, costruito nell’Eras – l’ente per la riforma agraria in Sicilia – non lontano da Roccamena. La famiglia che abbiamo avvicinato, una delle otto superstiti, è di Sancipirrello. Uno dei casi estremi della povertà e dell’incuria del governo nazionale e regionale è quello di Licata. Ma non è purtroppo il solo. Tutta la provincia di Agrigento soffre di una penuria di acqua addirittura inverosimile.

Licata è la città più assetata d’Italia: la sua dotazione massima arriva a 35 litri al secondo, ma in questo periodo non supera i 22, con punte frequenti fino a 14 litri al secondo. Talvolta l’acqua viene a mancare perfino trenta giorni di seguito. Nel luglio del 1960 la popolazione esasperata per la mancanza di acqua bloccò la stazione ferroviaria. Intervennero reparti speciali di polizia che fecero fuoco sulla folla. Un giovane rimase gravemente ferito.

Anche Favara, grosso centro minerario, il cui nome arabo vuol dire sorgente, è fra i paesi più assetati della provincia di Agrigento. Anche Agrigento, che non ha acqua nelle case, ma ne abbonda invece nel cimitero: paradosso che assurge a simbolo di soluzione metafisica di un problema che resta per i vivi insoluto. A prova che il problema può anche essere sottratto alle soluzioni metafisiche e risolto con concreta buona volontà e competenza, abbiamo questa zona di Vittoria, in provincia di Ragusa, dove gli agricoltori, senza godere di quei contributi di solito generosamente elargiti a chi specula e inganna, si sono affaticati a trasformare un’agricoltura estensiva in colture intensive.

Tutta la costa meridionale della provincia di Ragusa è ricoperta di serre. L’iniziativa ha cambiato il volto socio-economico della zona. I prodotti pregiati delle coltivazioni comportano affari nell’ordine di miliardi. Il boom è recente: nel 1964 le serre coprivano un migliaio di ettari, oggi oltre 5000. Furono i braccianti di Vittoria che con il solo capitale delle proprie braccia impiantarono le prime serre sui terreni sabbiosi della costa. Il problema dell’acqua lo risolsero ugualmente con le proprie forze, scavando dei pozzi alle volte con mezzi rudimentali, senza aiuti di nessuno genere dallo Stato.

Una zona agrumaria fra le più importanti della Sicilia è quella intorno ai centri di Lentini e di Francofonte. Ma anche qui la mancanza d’acqua diviene di giorno in giorno più grave. La situazione invece di migliorare peggiora sensibilmente, e la produzione di agrumi rischia di essere seriamente compromessa. Pare che il famoso biviere di Lentini, il biviere della malaria verghiana, debba essere di nuovo ripristinato in questa valle oggi coltivata da piccoli proprietari. Ma l’acqua sarà destinata all’industria e non all’agricoltura. Lentini è diretta da un’amministrazione di sinistra. Il sindaco e gli amministratori si consultano sul problema dell’acqua.

A tanta sete, della terra e degli uomini, rispondono delittuose incongruenze: questa diga del Disueri, a monte di Gela, è rimasta abbandonata e va in rovina. La diga Disueri fu iniziata nel 1939 e portata a termine nel 1949, con un’interruzione a causa della guerra. La capacità iniziale di invaso era di 14 milioni di metri cubi di acqua, ora ridotta a otto milioni per il progressivo interramento del bacino dovuto all’insufficienza e al ritardo del rimboschimento.

Finalmente si costruisce la diga sullo Jato, anche se si è arrivati ai lavori dopo tante lotte, tanti digiuni e tante marce per sensibilizzare l’opinione pubblica e per far tacere l’opposizione mafiosa. L’ultimo digiuno fu fatto a Partinico e durò otto giorni. Quando la diga sullo Jato sarà in funzione si potranno irrigare 8500 ettari con un aumento della produzione per il valore di un miliardo e 700 milioni rispetto all’attuale, con un incremento di circa 850.000 giornate lavorative all’anno.

La diga sul Carboi, al lago Arancio, irriga circa 6000 ettari delle pianure di Menfi e di Sciacca. Domenico Messina, organizzatore e dirigente dei contadini, Vincenzo Saladino della cooperativa “Madre terra” di Sciacca, e il dr. Michele Mandiello, agronomo, ci parlano di questa diga.

E siamo a Palermo, città in anni non lontani sufficientemente rifornita dell’acquedotto di Scillato e oggi paurosamente povere di acqua, specialmente nei quartieri popolari. Sembra incredibile che questa sia la città che gli arabi vedevano circonfusa di acque, specchiata nelle acque, viva del suono e del refrigerio delle acque. E si può dire che dopo gli arabi, nessuno si è mai provato a risolvere il problema dell’acqua in Sicilia. Vale a dire da mille anni. Tutte le acque che si conoscono, sono stati gli arabi a scoprirle e a nominarle. Quelle acque che loro raccoglievano e che noi abbiamo lasciato perdere e disperdere. E siamo nell’era della tecnica, dei più immaginabili prodigi della scienza.

Non si direbbe, a vedere questa disperata aria di arrangiarsi, cui sono costretti gli abitanti della più grande città siciliana per procurarsi quel minimo di acqua per bere, per lavarsi, per lavare. E la devono ai “gattopardi”, a quegli antichi signori e amministratori della città che hanno ceduto ora il passo agli “sciacalli”. Quella poca acqua che c’è ha di questa le ipoteche: speculazione, violenza, il profittevole giuoco della rivendita. Un bene pubblico tra i più indispensabili, è dominio del sopruso, dell’affarismo, del capriccio, della mafia.

Ma la Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ha offerto in questi ultimi tempi un documento della lungimiranza governativa su cui gli italiani e i siciliani possono fondare le più ampie speranze. Si prevedono opere per un importo di 1844 miliardi di lire: sicché nell’anno 2015 il problema dell’acqua sarà completamente e definitivamente risolto. La Sicilia del 2015 sarà ricca di acque quanto oggi il cimitero di Agrigento. Naturalmente si aspetterà il 2014 per cominciare i lavori.

Link al Video: https://vimeo.com/631741318

La scoperta del testo del grande scrittore siciliano

di Erasmo D’Angelis

Sciascia incollò le sue parole alle immagini in bianco e nero del preziosissimo documentario dal titolo amaro: “La grande sete in Sicilia finirà nel 2015”, realizzato nel 1968 dalla Fondazione “Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico”, con la sceneggiatura di Marcello Cimino e la regia di Massimo Mida. In 34 minuti raccontava l’isola assetata, storie di mala-gestione dell’acqua tra pozzi, distribuzione, dighe, acquedotti, dissalatori, che svelavano ritardi, trame, sistemi affaristici in equilibrio tra politica e criminalità.

Oggi, 56 anni dopo, le parole scritte da Sciascia sono incredibilmente attuali. Ci sarebbe da deprimersi per le arcaiche irresponsabilità diventate negli anni fotocopie nell’isola più bella prigioniera di ingiustificabili ritardi infrastrutturali, e di perenni rimpalli di colpe e clamorose omissioni.

Se il titolo del documentario del 1968 sembrava allora paradossale con il posticipo della fine delle crisi idriche, con una certa dose di prudenza, di quasi mezzo secolo, un tempo infinito per poter lasciare nell’album degli incubi la “grande sete”, oggi siamo nel disperante 2024. La Sicilia è sempre più inchiodata all’incapacità di far tesoro della fortuna dell’acqua di cui è beneficiata (35 miliardi di metri cubi di precipitazioni annue a fronte di 1,7 miliardi di consumi per ogni utilizzo), nelle mani dalla Protezione Civile regionale guidata da Salvo Cocina che riesce a fare il massimo e spesso anche l’impossibile di fronte alla costante subalternità politica alla rincorsa delle emergenze continue. E i soliti rimpalli di responsabilità tra governo e la regione autonoma ma che autonoma non è. E ancora ieri abbiamo assistito all’ennesimo scontro sull’ennesimo piano anti-siccità che ora prevede 130 interventi che valgono 1,4 miliardi di euro, presentato dalla Regione nell’assoluta incertezza dei finanziamenti e con la pagina rimasta bianca dell’applicazione della legge nazionale, la legge Galli, varata nel 1996. Si elencano interventi necessari e urgentissimi per il breve, medio e lungo periodo, dai dissalatori lasciati arrugginire nel mare di Gela e Porto Empedocle e Trapani allo sfangamento dei letti degli invasi artificiali, dal ripristino e manutenzione della rete idrica colabrodo ai depuratori, dai potabilizzatori all’irrigazione delle campagne assetate.

Ma resta l’amarissima verità che, da grandissimo “raccontatore” qual era, Sciascia descriveva nel lontano Sessantotto, anno clou delle proteste giovanili, di scene che si ripetono ancora oggi anche nella sua Racalmuto rimasta sempre senz’acqua, per colpe umane più che atmosferiche.

“Sciascia aveva intuito come anche attraverso l’acqua la classe dirigente siciliana, sia mafiosa che politica, poneva un’ipoteca sullo sviluppo dell’isola”, scrisse Giovanni Taglialavoro nel 2008 sul coraggioso sito web www.suddovest.it creato a metà degli anni Novanta ad Agrigento insieme a un gruppo di intellettuali e studiosi - Giovanni di Girgenti, Luigi Galluzzo, Carmelo Sardo, Giandomenico Vivacqua, Onofrio Dispenza, Sebino, Tano Siracusa, Nino Cuffaro, Tano Siracusa e Salvo Castellano - come luogo aperto di riflessioni sulla politica, la realtà siciliana e la più vasta “questione meridionale”. Dobbiamo a Taglialavoro, “agrigentino doc” col giornalismo nel sangue - passato dai giornalini del liceo alle tv locali e alle collaborazioni con il Giornale di Sicilia, L'Ora, il manifesto, il Corriere della Sera, Radio1 Agrigento, la direzione di Teleacras e quindi 23 anni di Rai come autore e capo-progetto di “Uno mattina in famiglia" – la riscoperta dello straordinario testo dell’amatissimo Leonardo Sciascia, mai stampato dall’autore, e da lui recuperato trascrivendo la sbobinatura del commento del documentario e pubblicandolo per la prima volta con questa sua introduzione: “Nel 1968 frequentavo l’Università a Pisa. Durante le vacanze ritornavo ad Agrigento insieme a Tano Siracusa, Maurizio Iacono, Mimmo Vella e altri cercavamo di scuotere la rassegnazione dei nostri concittadini sul tema della penuria di acqua. Organizzammo un sit-in davanti alla prefettura e forse fu per questo che, giorni dopo, gli autori del documentario “La grande sete” mi chiesero una testimonianza. Fu registrata davanti al tempio di Giunone. Non vidi mai quel documentario. Ma il suo ricordo tenue si insinuò con una certa insistenza dentro un mio pomeriggio romano di pochi anni fa...Navigo su Internet e incontro l’Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico: una telefonata e un'archivista disponibile e efficiente (si chiama Serena) scova il documentario in questione. Mi rivedo diciannovenne imbranato, ma soprattutto scopro che il commento del documentario è scritto dal grande Leonardo Sciascia, un testo che a noi non risulta mai pubblicato su carta”.

Non possiamo non ricordare che per l’acqua in Sicilia si sono battuti in tanti. E, tra i tanti, il sociologo e attivista della non violenza Danilo Dolci, il “Gandhi” italiano che scelse di vivere nella Sicilia più disperata e con i suoi “digiuni gandhiani” e le marce di denuncia dal 1952 ebbe il sostegno di personalità e intellettuali come Elio Vittorini e Carlo Levi, Alberto Moravia e Cesare Zavattini, Carlo Levi e Renato Guttuso, Enzo Sellerio e Jean-Paul Sartre, Bertrand Russell e Ignazio Silone, Italo Calvino e Aldo Capitini, l’Abbé Pierre e Erich Fromm e altri. Il suo clamoroso “sciopero alla rovescia” del 30 gennaio 1956, con il lavoro volontario di centinaia di braccianti che riattivarono una strada sconnessa e abbandonata, e le sue proteste condivise con i contadini lo condussero in galera e sotto processo e fu difeso anche da Piero Calamandrei, giurista ispiratore della nostra Costituzione. Riuscì a ottennere la conclusione della costruzione della diga sullo Jato per dare acqua agli assetati e ai campi riarsi dalla siccità.

Un coraggio sconfinato lo ebbero anche tanti giornalisti martiri della verità assassinati dalla mafia sul campo delle loro inchieste anche sulle “mani sull’acqua”: Cosimo Cristina ucciso a Termini nel palermitano nel 1960, Mauro De Mauro sequestrato e ucciso a Palermo nel 1970, Giovanni Spampinato assassinato a Ragusa nel 1972, Peppino Impastato torturato e ucciso a Cinisi nel 1978, Mario Francese ammazzato a Palermo nel 1979, Pippo Fava ucciso a Catania nel 1984, Mauro Rostagno ucciso nel 1988 alle porte di Trapani, Beppe Alfano assassinato nel 1993 a Barcellona nel messinese. Accanto ai coraggiosi magistrati e poliziotti che indagavano sulle mani delle mafie anche intorno alle infrastrutture per l’acqua. Che sono nel “Pantheon” dei Grandi di Greenreport.

Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia (1921-1989) è stato uno tra i principali intellettuali italiani del Novecento, scrittore noto in tutto il mondo attraverso opere che affrontano temi come la giustizia, la mafia e l'identità siciliana. Ha dedicato gran parte del suo lavoro alla denuncia delle ingiustizie sociali e delle connivenze tra potere e criminalità. Tra le sue opere più celebri si annoverano "Il giorno della civetta", "A ciascuno il suo" e "Il treno della vita". Sciascia inoltre scritto numerosi saggi e sceneggiature, dimostrando una profonda analisi critica della realtà contemporanea.