Auto-lesionismo all’italiana. Dietro il crollo di Stellantis c’è l’Italia con l’auto ferma al motore a scoppio. E se il Governo è il più anti-Green Deal d'Europa, il Ministero dell’Ambiente invia a Bruxelles un piano da 6.6 mln di auto elettriche nel 2030
Se sono al tappeto i titoli in borsa delle case automobilistiche più in ritardo sull’automotive, il crollo di Stellantis è quello che fa più rumore. Non solo per il ribasso storico delle azioni e dei margini operativi della holding guidata da Carlos Tavares con sede nei Paesi Bassi, nata dalla fusione Fiat Chrysler-francesi PSA e da tempo in clamorosa confusione e impasse industriale, ma soprattutto perché sotto i tacchi è finita anche la reputazione dell’industria automobilistica italiana che resta piantata sul Novecento e mostra riflessi molto lenti nel cogliere le occasioni d’oro del futuro dell’industria dell’auto. Nonostante molte nostre aziende siano al top delle tecnologie e sfidano i mercati esteri, i nostri ministri e Confindustria non perdono occasione per mostrare il petto in fuori contro il Green Deal ritardando così ogni scelta di politica industriale e tecnologica che potrebbe consentire all’Italia la posizione di leadership strategica sulla transizione ecologica.
Eppure è il Governatore di Banca d'Italia, Fabio Panetta, a spiegare che l’Italia, come i governi delle principali economie mondiali, dovrebbe “aprire la strada" per una transizione energetica ordinata…promuovere gli investimenti a basse emissioni, ridurre i carichi amministrativi e normativi…evitare politiche di stop and go che creano incertezze e frenano i cruciali investimenti privati". E se lo dice anche Mario Draghi che spingere sul Clean Industrial Deal e sull'innovazione e la decarbonizzazione è il fattore competitivo che rilancerebbe l’Europa, e con essa l’Italia, evidenziando con chiarezza che restando inchiodati all’oggi rischiamo “una lenta agonia”, e se si continua così l’Italia è “destinata a declinare“. Servono in tutti i campi investimenti, innovazione, produttività, competenze per recuperare lo svantaggio competitivo nella transizione verde ritrovando “il desiderio di affrontare il futuro, anche prendendosi dei rischi”. Il non agire compromette benessere e ambiente, ammonisce Draghi che conosce bene dinamiche e punti deboli del nostro Paese ma anche le potenzialità.
Basterebbe leggere e meditare anche sull’ultima indagine Symbola-Camera di Commercio di Brescia-Ipsos del marzo 2024, che ha fatto emergere i driver che spingono le economie, e uno di essi è la qualità dei prodotti e delle produzioni sostenibili ormai richieste dal mercato globale. Le nostre imprese eco-investitrici sono le più dinamiche sui mercati esteri e mostrano aumenti nelle esportazioni che si traducono in aumenti del fatturato e assunzioni. E allora diventa incomprensibile il Governo che a Bruxelles rema contro gli obiettivi europei approvati da tutti e anche da noi. Rinchiudersi nella ridotta e perseverare nella difesa dell’indifendibile non fa il bene delle imprese italiane e restituisce l’immagine di un Paese non allineato alle dinamiche del mercato, che rinuncia alla competizione sostenibile, nonostante tante nostre aziende stanno e crescono sui nuovi mercati mondiali green.
Contraddizioni in seno al Governo. Contro il Green Deal ma il Piano Energia Clima prevede 6,6 milioni di auto elettriche e ibride circolanti al 2030
Tra le contraddizioni in seno al Governo in materia di transizione ecologica c’è la consegna del 1° luglio 2024 alla Commissione europea del nuovo “Piano Nazionale Integrato Energia e Clima”, 491 pagine di impegni energetico-ambientali da oggi al 2030 redatto dal Ministero dell’Ambiente della Sicurezza Energetica. Punta sulla crescita delle energie rinnovabili con una produzione elettrica di 237 TWh, e sulla priorità della promozione dello shift modale con il passaggio molto chiaro dalla mobilità privata a quella condivisa-pubblica con la “progressiva diffusione dei biocarburanti e di mezzi caratterizzati da consumi energetici ridotti e da emissioni di CO2 molto basse o pari a zero”. Punta sull’elettrificazione dei trasporti per una clamorosa stima di “diffusione complessiva di quasi 6,5 milioni di veicoli ad alimentazione elettrica al 2030 di cui circa 4,3 milioni di veicoli elettrici puri”. Con questi obiettivi per il sistema-Paese, ha poco senso chiudersi in trincea contro l'auto elettrica o continuare con l’ideologia dei No alla transizione ecologica perché frena soprattutto la crescita e l’impresa italiana.
E poi c’è il paradosso del governo più a destra e più anti-Green Deal europeo che oggi supplica i comunisti cinesi di tappare i buchi produttivi degli eredi dell’ex impero Agnelli, con il ministro delle Imprese e del Made in Italy Urso che spinge per fare dell’Italia l’hub continentale della mobilità a trazione green ma Made in Asia. Stellantis, del resto, cede i rami più innovativi, lascia in panne la filiera dell’automotive nazionale, riduce volumi di produzioni, cancella il megaprogetto Giga-factory di Termoli, lascia 12mila lavoratori nell’incognita dell’esaurimento nel 2025 delle deroghe per gli ammortizzatori sociali senza i quali saranno licenziamenti di massa, con ricaschi sulle migliaia di dipendenti delle aziende della componentistica. E già oggi a Mirafiori la linea di assemblaggio lavora appena cinque giorni al mese, il ciclo Fiat 500 elettrica è fermo, la 500 ibrida è solo una promessa forse per il 2025, la contrazione del numero di auto vendute è di oltre il 60%, la produzione perde mezzo milione di pezzi e resta una chimera 1 milione di veicoli fissato al tavolo ministeriali. A Cassino e Melfi le nuove piattaforme produttive Stla Large e Medium, a Pomigliano la Pandina ibrida, a Mirafiori la 500 mild hybrid, saranno pronte forse nel 2026, ma ci credono in pochi perché tutti gli altri nuovi modelli sono bloccati fino al 2028. Con enormi problemi per l’indotto. Un disastro!
La débâcle della filiera italiana dell’automotive è dovuta anche al No tutto ideologico agli obiettivi del Green Deal Ue votati anche dall’Italia
Le contraddizioni più plateali viaggiano anche sui numeri dei veicoli elettrici circolanti nel nostro Paese. Sono appena 238.986, ma il Ministero dell’Ambiente prevede e promette al 2030 il boom di 6,5 milioni di auto elettriche e ibride plug-in circolanti nella penisola. Benissimo! Da applausi! Peccato restino senza risposta le domande su dove si produrranno, chi e quando le produrrà, come e dove si caricheranno con facilità le nuove auto su strade e autostrade, chi produrrà le batterie di stoccaggio, chi e quando costruirà reti intelligenti e infrastrutture diffuse con colonnine per il pieno di energia in aree urbane. Un Paese che vuole fare sul serio inizierebbe, ad esempio, dai punti di ricarica. Oggi sono oggi appena 26.024. Come pensa il governo di rispettare le previsioni del Piano che prevedono 3 milioni di punti ricarica privati al 2030 e oltre 100 mila punti di ricarica pubblici di cui 31.500 a ricarica veloce da distribuire su autostrade, super-strade e centri urbani?
Certo, sono ritardi accumulati da anni, ovvio, ma se oggi la via scelta dal governo è quella delle missioni impossibili supplicando la Commissione europea di rinviare gli obiettivi di riduzione della CO2, o di rivedere l’obiettivo di divieto di vendita di auto termiche dal 2035 che Ursula von der Leyen lanciò nel gennaio 2020 con la “Legge europea sul clima” che rese vincolante l’impegno alla neutralità climatica tra 25 anni, con la riduzione entro il 2030 delle emissioni dell’Ue di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990 controfirmato dagli Stati membri, Italia compresa, si resta a guardare la decrescita di un comparto nazionale di eccellenza mondiale. Tanto più che le previsioni di vendita delle auto elettriche smentiscono chi sta frenando, e mostrano che è iniziato il crollo di acquisti di auto a benzina e diesel in diversi Paesi, e aumentano le auto elettriche o ibride. Il Belgio, per dire, ha aumentato del 41% le vendite di auto elettriche nel 2024 con una sola mossa: ha eliminato i bonus fiscali per le auto tradizionali aziendali sostenendo la nuova mobilità. L’Italia è in forte ritardo nel creare infrastrutture di ricarica e rifornimento di idrogeno, incentivi fiscali e di acquisto, nelle giga-factory promesse da un decennio e mai realizzate per produrre nuove batterie il cui mercato nell'Unione europea è valutato in 250 miliardi di euro all'anno a partire da oggi. Lasciamo fare la parte del leone a Germania, Polonia e Ungheria, o ai mercati asiatici? Oppure la sostenibilità diventa l'opportunità per competere con una Italia già in campo?
La nuova Commissione europea dovrà certo rendere molto più “attraenti” e “desiderabili” le scelte, spiegare con chiarezza le tante opportunità per tutti. Ma se noi abbiamo perso tempo e terreno, se abbiamo competenze straordinarie e manodopera altamente professionalizzata e in grado di poter sviluppare filiere come quella dei mezzi di trasporto pubblici elettrici o tecnologie a idrogeno, bisogna recuperare terreno. Quando, nel 2030, il 50% delle vendite di auto saranno di auto elettriche, l’Italia cosa potrà offrire se oggi non inizia ad investire fondi pubblici e privati per avviare la transizione verso la nuova mobilità? Perderemo decine di migliaia di posti di lavoro o sapremo creare occupazione nella mobilità più ecologica, sulla quale puntano forte altri Paesi? Ecco perché è un controsenso e un andare contromano continuando a schierare l’Italia contro la transizione green.