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Cronaca del terremoto infinito e della “catastrofe perfetta” nel Centro Italia. Dopo 8 anni di macerie e spopolamento le sfide della ricostruzione nell’Italia smemorata che rimuove il rischio sismico

 |  Editoriale

Per raccontare l’infinito terremoto del Centro Italia che in circa 180 giorni di emergenze fece registrare all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia circa 900.000 scosse minori, in grandissima parte impercettibili, c’è una premessa. Quel che è accaduto otto anni fa nel cuore del Centro Italia racconta la storia di uno dei luoghi della penisola dove il sisma ha colpito più volte con incredibile brutalità. Il terremoto è la catastrofe per eccellenza, ancora imprevedibile e fulminante, e distrugge senza preavviso in pochi lunghissimi secondi tutto ciò che a noi sembra stabile ma stabile non è.

Quanto ancora ci vorrà per capire che noi italiani viviamo in un Paese sismico e sotto la “schiena d’Italia”, la dorsale appenninica, si incontrano e si scontrano piattaforme gigantesche che nella nostra storia nazionale hanno innescato una drammatica ciclicità dei crolli? Dal Medioevo ad oggi hanno raso al suolo oltre 4.800 centri abitati, molti dei quali più volte e poi ricostruiti ma sempre “dove erano e come erano” e cioè con le stesse fragilità costruttive e sulle stesse faglie più rischiose. Dall'Unità d'Italia, anno 1861, abbiamo subìto 36 grandi terremoti, in media uno ogni 4,5 anni, e 170 terremoti minori negli ultimi decenni hanno colpito 1.760 aree urbane, dimostrando sempre l’estrema facilità dei crolli.

Tutti abbiamo l'obbligo di impedire che si possa morire dentro case mal progettate e peggio costruite. Oggi, delle 14.515.795 costruzioni sul territorio nazionale con 31 milioni di abitazioni, il 40% è in area sismica a rischio più elevato. Oltre metà risalgono a prima del 1974, cioè quando si edificava anche senza regole e controlli e spesso senza nemmeno i Piani Regolatori. Tra i 4 e i 5 milioni di edifici di ogni tipologia sono a rischio lesioni o crolli parziali o anche collasso. Il Sud presenta il carico edilizio peggiore, con lo stock più scadente condonato da 4 sanatorie edilizie (1985, 1994 e 2003, più il 2018 nel furbesco decreto per Ischia). Con queste premesse è evidente che la nostra edilizia può crollare anche con botte di magnitudo più basse come il 3.9 di Ischia che il 21 agosto 2017 lasciò 2 morti e 42 feriti sotto le case crollate come burro.

Cosa servirebbe? Campagne di diagnostica degli edifici, investimenti pubblico-privati per cantieristica anche leggera perché oggi è possibile aumentare la sicurezza con tecnologie e nanotecnologie non invasive, un programma diffuso di adeguamento sismico e di informazione sul rischio. Ma l’Italia che rischia grosso ha preferito investire nel rifacimento delle “facciate” con bonus e superbonus più che sulle fondamenta e la resistenza degli edifici. È scomparso il sismabonus e continuiamo a nasconderci dietro il falso alibi dei soldi che mancano. Un clamoroso falso economico.

L’investimento complessivo necessario per mettere nella massima sicurezza possibile l’edilizia italiana più a rischio da una scossa di magnitudo 6.3 come quella che buttò giù L’Aquila nel 2009, varrebbe circa 100 miliardi di euro, calcola il Consiglio nazionale degli ingegneri. Ma è ritenuta impossibile, e tanto basta per rinviare. Nel frattempo, però il PNRR che vale il doppio di quella cifra, scansa il problema, mentre le sole ricostruzioni dei soli ultimi 3 grandi terremoti dei soli ultimi 15 anni stanno costando allo Stato 53 miliardi di euro: L'Aquila 2009 con 17.4 miliardi, l’Emilia 2012 con 13, il Centro Italia 2016-17 con 23,5. E in in media, ogni anno dal dopoguerra ad oggi, lo Stato spende 4,5 miliardi di euro per riparare i danni dai terremoti.

Con questa promessa ci vuole poco a capire che gli assassini non sono solo i fenomeni naturali, ma anche la spregiudicatezza con la quale non li fronteggiamo. Siamo Paese che ha inventato l’ingegneria e l’architettura antisismica ma siamo il più in ritardo nella loro applicazione. E le nostre aziende e i nostri tecnici sono contesi e ingaggiati in Giappone, California, Turchia, Iran o Nuova Zelanda dove il formidabile made in Italy crea sicurezza.

Quel che è accaduto otto anni fa non è stato solo un terremoto, ma la catastrofe perfetta

Non fu non solo un terremoto, ma un cluster di eventi devastanti tra scuotimenti del suolo durati all’incirca 6 mesi, tempeste di neve mai ricordate a memoria d’uomo con slavine, frane e valanghe con strade ghiacciate e impercorribili e black out elettrici e di servizi pubblici, e l’alluvione. Eventi che trasformarono il cuore dell’Italia in un immenso teatro delle crudeltà.

Il primo scossone partì nella calda notte del 24 agosto del 2016. Erano le ore 3.36 quando la botta di magnitudo 6.0 fece accartocciare all’istante tanta edilizia straziando tanti corpi. Svegliò anche l’Italia intera. Fabrizio Curcio, il capo Dipartimento della Protezione civile mobilitò immediatamente l’intero sistema, con Titti Postiglione che divenne la responsabile operativa. Da Amatrice le prime notizie erano impressionanti. “Il paese non c’è più, sotto le macerie ci sono tante persone”, si disperava l’allora sindaco Sergio Pirozzi. Era crollato l’intero centro storico della cittadina laziale, compreso l’Hotel Roma che in quei giorni di festa alloggiava 70 ospiti. Erano crollate le case di vacanza piene anche di turisti. Anche Arquata del Tronto era stata abbattuta come da un bombardamento. Accumoli era una rovina e Stefano Petrucci, il sindaco, al telefono gridava: “Correte, il paese è demolito!”.

Le prime dirette televisive della notte mostravano, illuminati dai fasci di luce delle torce, case sventrate, palazzi squarciati, montagne di detriti, gente sanguinante e stravolta e in preda al panico. Stavano già partendo migliaia di soccorritori organizzati dalla Protezione civile da diverse regioni. Le squadre raggiunsero le prime macerie quando era ancora buio, e insieme agli abitanti iniziarono a rimuovere calcinacci, massi e travi. In un silenzio irreale, guidati dai lamenti, riuscirono a tirar fuori feriti e corpi martoriati. Salvarono circa 300 persone, e portavano all’aperto anche i cadaveri.

I paesi, al chiarore del mattino, erano spettrali tappeti di pietre, polvere, mattoni, tegole, mobili fatti a pezzi, auto accartocciate. Si scavava ancora, e i vigili del fuoco sollevavano altri corpi riconoscibili dai pigiami, da medagliette al collo, da orologi e anelli. Li avvolgevano in lenzuola bianche e poi li adagiavano piano sulle barelle che passavano accanto alle lacrime di chi stentava a riconoscerli. Erano già stato estratti 299 corpi - 237 ad Amatrice, 51 ad Arquata e quasi tutti nella frazione di Pescara del Tronto, 11 ad Accumoli – e 4 erano i morti d’infarto, 388 i feriti gravissimi e migliaia le persone sotto choc in 138 comuni colpiti con migliaia di frazioncine e casolari di 4 regioni: Marche, Abruzzo, Lazio e Umbria. 

Anche le chiese, quasi tutte crollate, erano collinette di macerie, mancavano le mura esterne di molte case e si vedevano cucine, camere con letti sfatti e soggiorni con poltrone e mobili in bilico sul vuoto. Durante la mattinata si tremava ancora per altre scosse, e chi soccorreva doveva scappare in tempo mentre cadevano pezzi di abitazioni rimasti a dondolare.

Crollarono miseramente gli edifici pubblici considerati «strategici» e che dovevano resistere, alcuni erano stati appena «ristrutturati» come le scuole che per fortuna erano vuote o l’ospedale «Francesco Grifoni» di Amatrice. Troppe le mura fatte anche di sabbia e troppe le pareti con dentro anche il polistirolo come si scoprì nella scuola elementare. Solo poche case erano state costruite da bravi muratori con criteri antisismici e avevano retto. Nell’area erano stati dispiegati 500 vigili del fuoco con 20 unità cinofile con i cani addestrati a fiutare i corpi - e a Leo, Black e Hercules tanti devono la vita – e il personale dell’esercito, della Finanza, di Polizia, Carabinieri, Forestale, uomini e donne delle Misericordie, dell’Anpas e della Croce rossa con mense e ospedali da campo, il Soccorso alpino e gli psicologi per sostenere i familiari delle vittime. Dal Ministero dei Beni culturali era arrivata una task force per visionare i danni al patrimonio culturale e censirono alla fine 29.000 beni artistici, 5000 metri lineari di archivi, 10.000 volumi messi a rischio.

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I due violenti terremoti del 26 e del 30 ottobre. All’aria tutti i piani dei soccorsi e gli sfollati diventano 27.000

Dal 28 agosto, a Rieti, diventò operativo il DICOMAC, acronimo di “Direzione di comando e controllo” che sovrintendeva ai soccorsi, alle verifiche dei danni, al reperimento di soluzioni abitative e ai primi sostegni messi a disposizione dal governo Renzi. La Protezione Civile, con le Regioni e i Comuni predisponeva piani di gestione dell’emergenza.

Ma il 26 e il 30 ottobre altri due violenti terremoti mandarono all’aria tutti i piani proprio quando il peggio sembrava alle spalle. Il 26 la prima scossa colpì alle 19.11 con magnitudo 5.4, e poi alle 21,18 con magnitudo 5.9. E il 30 ottobre arrivò la più forte di magnitudo 6.5, mai registrata in Italia degli ultimi trent’anni, decuplicando danni e numero di sfollati, che salirono a circa 27.000. Non fece morti solo perché le persone erano tutti fuori casa dalle 19.10, spaventati dalla prima botta. Il nuovo terremoto colpì in particolare i paesi distrutti 19 anni prima: Norcia e Visso, Ussita e Camerino, dove molta edilizia però era rimasta in piedi grazie alle buone ricostruzioni di allora, evitando un secondo massacro. Ma 38 centri storici, con tutte le loro attività, furono sgomberati nella disperazione generale. «Il mio paese è finito» gridava il sindaco di Ussita, Marco Rinaldi, al buio e sotto una pioggia implacabile. Il suo bellissimo borgo era stato completamente distrutto.

Altre migliaia di famiglie erano senza casa, rifugiate nelle automobili o in ricoveri di fortuna. Piogge torrenziali, fango, temperature molto basse e frane ostacolavano soccorsi e soccorritori e tanti paesini come Preci erano isolati, non si contavano i casolari irraggiungibili per frane e crepati di centinaia di frazioni.

La Protezione civile ricominciò daccapo ancora una volta, riavviando le verifiche tecniche su tutta l’edilizia. La terra continuava a tremare con circa 200 repliche in poche ore, alcune di magnitudo superiore a 4.0. Il numero dei Comuni colpiti salì a 131. Curcio avvertì i sindaci che bisognava trasferire gli sfollati negli hotel sulla costa e si attivò un lavoro di assistenza che impegnava quasi 8000 soccorritori al giorno. L’Italia intera, come è sempre accaduto, in quelle ore si sentiva tutta terremotata e una straordinaria solidarietà affiancò i soccorsi alle popolazioni dell’immenso “cratere” sismico esteso per 8.000 chilometri quadrati dove vivevano circa 600mila persone e dove 320mila edifici erano crollati o erano stati paurosamente lesionati.

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Il “cratere” teatro di crudeli emergenze: sisma, frane e valanghe, tempeste di neve, gelate, alluvioni

Il 18 gennaio del 2017, quando nessuno se lo aspettava, iniziò un’altra micidiale sequenza con altri 4 forti sismi di magnitudo tra 5 e 5.5, con uno sciame interminabile. Quando alle 10.25 del 18 arrivò la botta di magnitudo 5.1, ci furono altri crolli. La successiva, alle 11.14, fu ancora più potente, di magnitudo 5.4, e abbatté anche l’istituto alberghiero di Amatrice. Fece tremare anche Roma, dove furono evacuati uffici e scuole.

Nei paesaggi appenninici disseminati di chilometri di macerie, squadre eroiche della Protezione civile soccorrevano chi era rimasto isolato sui pascoli, chi aveva bestiame morto o morente nelle stalle crollate, chi era rimasto senza scorte di viveri.

Il governo, per accelerare le procedure, nominò Vasco Errani commissario per la ricostruzione, che un anno dopo fu sostituito da Paola De Micheli, a sua volta sostituita poi da Piero Farabollini, a sua volta sostituito da Giovanni Legnini e oggi da Guido Castelli.

Ma in quei giorni, ancora una volta, i piani di gestione dell’emergenza terremoto saltarono. Il 16 gennaio 2017 la Protezione Civile iniziò a fronteggiare una storica tempesta di neve soprattutto sull’Abruzzo rimasto al buio e senza energia elettrica. Molte località erano rimaste isolate, i servizi pubblici erano in tilt e il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, lanciò richieste immediate di aiuto. Si avvertiva un senso d’impotenza nel “cratere”. Mancavano anche l’acqua e il riscaldamento nei lunghi gelidi giorni, mentre uomini e donne dei soccorsi erano impegnati in salvataggi eroici per recuperare dispersi, gente in ipotermia, liberare interi nuclei familiari prigionieri nei casolari ricoperti da barriere di neve alte anche 3 metri.

Molte strade di montagna erano ghiaccio o non si vedevano più i percorsi, iniziava a mancare cibo e benzina, saltarono anche le linee telefoniche. Soprattutto mancavano le turbine spazzaneve, le sole in grado di ripulire le strade e aprire varchi in quell’inferno bianco. L’Abruzzo era impreparato a gestire eventi così estremi, e per tre lunghi giorni la regione rimase in balia di bufere di neve impressionanti. E il 18 gennaio, alle 4.30 della notte esondarono i fiumi Pescara e Saline con strade e ferrovie interrotte e inondazioni anche a Pescara. L’alluvione completò la catastrofe epocale che impegnava allo stremo migliaia di soccorritori.

Per sei giorni migliaia di famiglie subirono il blackout elettrico più lungo della nostra storia recente con 110mila abruzzesi in pieno inverno senza energia elettrica, riscaldamento e aiuti. “Aiutateci” era l’appello lanciato da tanti sindaci di comuni isolati dove mancava tutto, dai generi alimentari alle bombole d’ossigeno per gli anziani malati. Centinaia di allevatori risultavano dispersi o irraggiungibili, tante persone erano in ipotermia, le slavine colpivano ovunque, le strade erano ghiacciate e non si contavano smottamenti e valanghe di neve.

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La strage nell’hotel Rigopiano con 29 morti e tante lezioni per il futuro

Nessuno immaginava che il 18 gennaio  sarebbe iniziato anche un angoscioso conto alla rovescia nel lussuoso Hotel Rigopiano. Era un vecchio rifugio di proprietà del Comune di Farindola, diventato uno stupendo resort a 1200 metri, proprio sotto il Gran Sasso. Era collocato in fondo ad un canalone che dalla vetta all’albergo disegnava una specie di imbuto. Un’area naturalmente molto pericolosa perdipiù soggetta a valanghe e dove, già nel 1954, il rifugio venne travolto da tonnellate di neve e detriti. La struttura, insomma, non doveva trovarsi lì per tanti motivi e anche per i vincoli ambientali e per le condizioni geologiche. Ma l’hotel, anche nei giorni della peggiore tempesta di neve, era aperto ed ha continuato a ricevere i turisti nonostante le previsioni di precipitazioni abbondanti e l’allarme valanghe e le strade diventate accumuli di neve. Nel giorno peggiore, dalle 15 gli ospiti erano tutti nella hall con i bagagli pronti e carichi di paura in attesa dello spazzaneve che avrebbe liberato la strada. “Arriverà alle 19”, tranquillizzarono.

Se davvero fosse arrivato si sarebbero potuti mettere in salvo non solo i 28 ospiti, ma anche i 12 dipendenti della struttura, compreso il titolare Roberto Del Rosso. Ma arrivò prima la slavina da Monte Siella che travolse tutto e tutti con una potenza da 120.000 tonnellate di materiali lanciati a oltre 100 chilometri orari. L’impatto sventrò la struttura, sollevandola dalle fondamenta e spostandola di quasi 20 metri. Ma a valle nessuno lo sapeva.

Alle 17.40 partì una drammatica telefonata. Giampiero Parete, un ospite scampato per un soffio, chiamò il suo datore di lavoro Quintino Marcella, e gli raccontò il dramma. Marcella avvertì la Prefettura di Pescara, ma ebbe difficoltà a farsi credere. Solo più tardi si resero conto che qualcosa di grave era successo. E dodici eroici soccorritori, a mezzanotte, si misero in marcia verso Rigopiano. Li guidava il maresciallo della guardia di finanza Lorenzo Gagliardi, che fece agganciare agli sci le pelli di foca e sui caschi le torce. Procedevano giocoforza lenti e in fila indiana, al buio e sottozero e sotto una violentissima bufera. Avanzavano ad una ventina di metri l’uno dall’altro per evitare che le slavine potessero travolgerli tutti insieme. Il primo “batteva la traccia” sulla neve fresca seguendo il percorso della Provinciale numero 8 sepolta da 2 metri di coltre bianca. Stavano rischiando la loro vita. Ce la fecero, però, a raggiungere l’hotel all’alba e si trovarono di fronte al dramma.

Erano l’avanguardia di altri 400 soccorritori di 25 strutture operative di Protezione Civile di tutte le Regioni che lavorarono per portare in salvo chi era rimasto sotto la slavina e le macerie dell’hotel, dandosi il cambio e sfidando l’altissimo rischio di nuovi distacchi di neve e di roccia. I geologi del team di Nicola Casagli, del Dipartimento di scienze della terra di Firenze, superando ogni ostacolo e rischiando grosso, riuscirono ad installare un radar doppler per monitorare possibili rischi di valanghe e per concedere in caso di allarme un margine di preavviso di 60 secondi: il tempo massimo per mettersi al sicuro sgusciando dalla montagna di ghiaccio e detriti e macerie che pesava come 4000 TIR a pieno carico. I soccorritori alla fine estrassero 29 morti, salvando 11 vite. L’Italia e il mondo seguirono in diretta i soccorsi col fiato sospeso. La Procura di Pescara apri un’indagine su Rigopiano e il 14 febbraio 2024 ci furono 8 condanne e 22 assoluzioni.

Ma il 24 gennaio colpì un’altra tragedia. A Campo Felice precipitò l’elicottero del 118 che aveva appena recuperato un ferito. Morirono tutti: Walter Bucci, medico rianimatore che aveva prestato soccorso a Rigopiano, Davide De Carolis del Soccorso alpino, Giuseppe Serpetti, infermiere, Mario Matrella, tecnico, il pilota Gianmarco Zavoli e il ferito Ettore Palanca. Lo speleologo trentanovenne, Andrea Pietrolungo, impegnato nei soccorsi, fu stroncato da un infarto da fatica.

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Lo svuotamento delle aree interne corre più della ricostruzione: la sfida del Commissario Castelli

Otto anni dopo, l’ansia è per i ritardi nella ricostruzione e per la metamorfosi di un territorio che sta rischiando, come gran parte delle nostre aree interne, la trasformazione in un insieme dimenticato e relegato ai margini. Nelle politiche di investimento degli ultimi decenni, l’Italia ha deciso di investire tutto sulla centralità delle aree metropolitane di pianura, abbandonando al loro destino paesi a torto considerati minori ma veri custodi e scrigni di storia, produzioni tipiche, memorie, bellezza e cultura, Natura.

Oggi andar per monti nel cuore dell’Italia centrale significa fare i conti con territori nemmeno connessi alle reti wireless. Non è ancora arrivata la velocità dell’evoluzione tecnologica senza precedenti, l’occasione della nuova generazione di infrastrutture a banda larga che sono anche potenti acceleratori di insediamenti agricoli o industriali e di maggiore sicurezza da eventi naturali e meteo-climatici e dissesti idrogeologici. È il futuro temuto anche dai 34 comitati di terremotati e associazioni attive nei territori. Giovanni Legnini, oggi commissario straordinario per la ricostruzione nei territori di Ischia devastati da frane e alluvioni e terremoti, ha sicuramente impresso una accelerazione nella ricostruzione del dopo sisma 2016, che trovò ferma al palo da 4 anni, ostaggio di procedure formali e trappole burocratiche e sbrogliando grovigli procedurali, mettendo sui binari giusti progetti e investimenti bloccati anche da migliaia di condoni edilizi non sanati. Già, la ricostruzione privata è stata frenata da piccoli e grandi abusi edilizi mai condonati. La legge stabilisce giustamente il non finanziamento di opere abusive e in alcuni centri le difformità interessano fino al 90% dell’edificato da ricostruire, da tramezzi spostati a finestre allargate, da ampliamenti volumetrici con nuove stanze e terrazzi fino ad abusi non sanabili come intere palazzine costruite peraltro in aree insicure.

Oggi tocca a Guido Castelli, senatore di Fratelli d'Italia ed ex sindaco di Ascoli Piceno, che ben conosce le dinamiche e le problematiche dei territori rilanciare la sfida epocale agendo contemporaneamente sulle due leve: ricostruzione e ripopolamento. Ha fatto i conti anche con il rallentamento della ricostruzione privata per l’impatto del Superbonus 110% che ha visto il “cratere” svuotarsi di ditte edili che hanno preferito interventi più semplici e remunerativi in altre zone del Paese. Ha fatto adottare dal governo misure nel DL 3/2023 “Decreto Ricostruzione” e “Decreto Coesione” per snellire ulteriormente le procedure e “promuovere il rilancio socio-economico dell'area nel segno dello sviluppo sostenibile e per il contrasto del fenomeno dello spopolamento”.

Con il suo sfaff tecnico ha fatto il punto nell’ultimo recente “Rapporto del Commissario Straordinario per la Riparazione e la Ricostruzione Sisma 2016” mostrando i “progressi” nella ricostruzione privata - con circa 20 mila cantieri autorizzati, di cui oltre 11 mila già completati -, con l’avvio del 95% delle opere pubbliche con il 66% degli interventi in progettazione di cui il 25% già approvati. Nel primo semestre del 2024 le erogazioni di Cassa Depositi e Prestiti alle imprese impegnate nei cantieri hanno fatto registrare un +16,64% sullo stesso periodo del 2023 e un +41,71% sul 2022. I nuclei familiari in assistenza abitativa sono oggi 11.182 dai 12.319 del 2023 e dai 14.211 del 2022. Le richieste di contributo per la ricostruzione presentate da soggetti privati per immobili residenziali o produttivi danneggiati sono 31.177, su un totale di circa 50 mila, per un valore complessivo di 13 miliardi e 746 milioni di euro. Di queste, 19.899 richieste sono state approvate - circa il 64% del totale -, con concessioni per circa 8,5 miliardi di euro e la liquidazione di 4,5 miliardi. La ricostruzione pubblica programmata prevede 3.509 interventi, per un valore complessivo di 4,2 miliardi di euro, con il 66% delle opere in fase di progettazione e il 25% dei progetti già approvato e il 16% di lavori in corso e il 12% completati. 

“In questo 2024 – spiega Castelli – stiamo affrontando i nodi più complessi della ricostruzione rappresentati dagli interventi che riguardano i borghi e luoghi più devastati dai quattro terremoti del 2016 e 2017. Anche in questo caso puntiamo a soluzioni progettuali innovative e sostenibili. I progetti di Arquata e di Castelluccio di Norcia sono stati portati anche all’attenzione dell’ultimo congresso internazionale di ingegneria sismica come case histories dove la tecnologia all’avanguardia si accompagna a nuove soluzioni amministrative. L’obiettivo è di assicurare la massima sicurezza”.

Castelli ha predisposto l’ambizioso rilancio delle economie locali con il “Programma NextAppennino” con parte del Fondo Complementare al PNRR per i crateri del sisma 2009 e del sisma 2016. Finanziato con 1,780 miliardi di euro, NextAppennino ha due macro-misure. La prima per “Città e paesi sicuri, sostenibili e connessi” con oltre 1 miliardo di euro destinati a reti e innovazione digitale, rigenerazione urbana, valorizzazione del territorio, comunità energetiche e infrastrutture e mobilità. La seconda, per il “Rilancio economico e sociale” con oltre 500 milioni di euro per quasi 1.400 progetti, ma i progetti presentati sono oltre 2.500, per un valore totale di oltre 2,5 miliardi di euro, con richiesta di contributi per 1 miliardo e 490 milioni di euro. Numeri che dimostrano la potenzialità di un tessuto economico e produttivo dinamico che ha voglia di rialzarsi e ripartire e ripopolare i piccoli centri colpiti. Per Castelli è “una grande questione nazionale e attraverso la ricostruzione e la rigenerazione del territorio stiamo affrontando il rilancio del Centro Italia marginalizzato ma oggi sempre più centrale affinché diventi presidio essenziale sicuro anche per mitigare gli effetti della crisi climatica. Solo un Appennino ripopolato contrasta il rischio idrogeologico”.

Già, la grande sfida del dopo terremoto con l’urgenza di mettere fine alla marginalizzazione della montagna, trasformata nei decenni in una sorta di lontana periferia.

E tra le sfide c’è anche quella della sicurezza delle infrastrutture idriche in zone sismiche. È un vuoto legislativo assurdo l’obbligo della progettazione degli acquedotti nelle aree più sismiche con tecniche e tecnologie antisismiche in grado di assorbire il più possibile i sovraccarichi delle scosse, rendendo più resistenti e stabili tracciati su pendii e scarpate. Nelle Marche è in corso d’opera il primo acquedotto anti-sismico italiano, è “l’Anello Acquedottistico Antisismico dei Sibillini”, un progetto apripista in Italia e dal valore di circa 500 milioni di euro, per un totale di estensione di reti per quasi 300 km. Capofila è l’azienda idrica CIIP di Ascoli che, con uno staff tecnico di altissimo livello sta realizzando la prima svolta strutturale, tecnologica e anche culturale italiana: un acquedotto, per la prima volta, molto più resistente alle scosse che servirà 134 comuni coprendo una superficie di quasi 5mila km2 per un bacino di 778mila cittadini. Finanziato inizialmente dalla norma sugli invasi e gli acquedotti in Legge di Bilancio 2018, è stata oggi presa in carico dal Commissario per la ricostruzione. Un bel messaggio per l’intero Paese.

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Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.