Slow food, in Sicilia neanche le razze autoctone resistono più alla siccità: servono infrastrutture
La Sicilia ha dichiarato lo stato di calamità naturale per siccità a febbraio, e dopo sei mesi senz’acqua – e senza interventi di peso da parte del Governo Meloni –, negli allevamenti non resistono più neanche le razze autoctone, forgiate dalla selezione naturale prima e dalla mano dell’uomo poi.
In epoca di crisi climatica, gli equilibri consolidatisi nel tempo sono saltati, come mostrano i casi portati oggi alla luce da Slow food.
«La produzione di quest’anno? Saremo al 50% rispetto al solito, ma la verità è che di conti non se ne fanno. In questa situazione, non stiamo più facendo impresa: quello che ci interessa è mantenere in vita il patrimonio zootecnico, frutto dei sacrifici di generazioni di pastori prima di noi». Luca Cammarata, nell’azienda di San Cataldo (Caltanissetta), alleva capre di razza Girgentana: taglia media, pelo lungo, folto e bianco, e lunghissime corna a spirale la rendono inconfondibile. La razza Girgentana è tutelata da un Presidio Slow Food nato quando gli esemplari sopravvissuti erano qualche centinaio appena: oggi Cammarata ne possiede trecento, all’incirca. Molte sono gravide. Tutte soffrono per le temperature, che da settimane superano frequentemente i 40 gradi, per la scarsità d’acqua, per mesi interi di siccità che hanno prosciugato il laghetto dove gli animali si abbeveravano e che hanno trasformato un’oasi di biodiversità in una specie di deserto. «È un’estate di tormento – racconta Cammarata –, è da maggio che va così».
Una trentina di chilometri più a ovest vive Liborio Mangiapane: ha sessant’anni e ha trascorso due terzi della sua vita nell’azienda dove alleva centocinquanta pecore e un centinaio di esemplari di bovini di razza Modicana, anch’essa tutelata da un Presidio Slow Food. «La situazione è tragicamente difficile – spiega – perché non si tratta di una settimana o di quindici giorni, ma di una condizione prolungata nel tempo, che provoca moltissime difficoltà dal punto vista alimentare, idrico e anche psicologico. Viviamo in un deserto, continuamente con il pensiero che l’indomani mattina gli animali saranno senza acqua». Doversi occupare dell’approvvigionamento ha richiesto una faticosa riorganizzazione: «In azienda abbiamo bisogno di più di diecimila litri d’acqua al giorno – prosegue Mangiapane –. Ci sono le autobotti del consorzio di bonifica che stanno tamponando la situazione, ma quotidianamente noi stessi andiamo con un’autobotte a caricare l’acqua».
Per resistere, ognuno si attrezza come può: Cammarata sta costruendo in azienda un bacino artificiale per raccogliere l’acqua piovana. Un progetto da duecentomila euro, finanziato in buona parte dalla Regione: «Avrà una capienza da 16mila metri cubi. Però deve piovere». A chi governa, rivolge un appello: «Costruite laghi, fate la manutenzione delle infrastrutture esistenti, aumentate la capacità di invasamento facendo pulizia dei bacini, e curate anche i sistemi di pompaggio». E poi ancora: «Bisogna capire come si può rinverdire zone oggi aride, magari piantumando arbusti in grado di crescere in ambiente siccitoso e che gli animali possano brucare. Servono piante in grado di vivere in suoli nei quali la concentrazione di cloruri, sempre a causa della carenza di piogge, è più elevata».
Allargando il quadro d’osservazione, solo per il primo trimestre 2024 Legacoop Agroalimentare calcola 4 miliardi di euro andati in fumo nelle regioni del Sud e quasi 33mila posti di lavoro persi nel comparto agroalimentare.
In un contesto che vede già la Sicilia in crisi totale per siccità, che fare? Innanzitutto ripartire dai dati a disposizione, che per inciso c’informano anche sulla necessità di rendere più sostenibile l’impiego d’acqua a partire proprio dal comparto agricolo: oltre il 52% del totale dei prelievi nazionali d’acqua – pari a 16 mld di metri cubi d’acqua prelevati all’anno – sono destinati all’irrigazione, cui vanno aggiunti 800 mln mc/anno per la zootecnia.
Basti osservare, ad esempio, che il fabbisogno annuo di acqua indicato dalla Regione per l’intera Sicilia ammonta a 1,75 mld di mc l’anno, e sull’isola sono piovuti nel 2023 circa 15,2 mld di mc d’acqua; oltre la metà è indisponibile in partenza perché soggetta a evapotraspirazione, e molta altra ne occorre per soddisfare i fabbisogni ecosistemici, ma ne resterebbe in abbondanza per soddisfare anche quelli antropici, se la Sicilia si dotasse delle infrastrutture idriche necessarie (da quelle basate sulla natura, come le città spugna, agli invasi) e rattoppasse gli acquedotti colabrodo. Invece su 26 grandi dighe controllate dalla regione, a oggi 3 risultano fuori esercizio, 5 con limitazioni per ragioni di sicurezza e 10 in attesa di collaudo. Un contesto cui si abbina, tra gli altri, quello degli acquedotti ridotti a colabrodo – e non solo in Sicilia, dato che in Italia si perdono per strada circa 7,6 mld di mc d’acqua all’anno.
Serve dunque riportare la gestione dell’acqua all’interno dei bilanci pubblici, per finanziare un maxi piano d’investimenti che vada oltre la logica dell’emergenza. Una prima proposta di Piano nazionale per la sicurezza idrica e idrogeologica per affrontare la doppia minaccia di siccità e alluvioni, c’è già: l’ha elaborata la Fondazione Earth and water agenda – nell’ambito del rapporto Water intelligence promosso proprio da Proger – arrivando a stimare la necessità di investimenti da 17,7 mld di euro l’anno per un decennio, dalle soluzioni basate sulla natura agli invasi, dal servizio idrico integrato agli usi agricoli e industriali dell’oro blu.