I nostri fantasmi. Il 70% dei migranti nel mondo sono profughi climatici in fuga da fame, siccità, carestie, inondazioni. E in Italia sono cittadini senza cittadinanza. Perché è l’ora dei diritti
Sono migranti, ma soprattutto sono migranti climatici o rifugiati ambientali o eco-profughi. È l’umanità senza più patria, messa in fuga dagli effetti del nuovo clima dopo spaventose alluvioni, uragani, cicloni, ondate di calore estreme con terribili siccità e devastanti incendi, carestie e dall’aumento inesorabile del livello oceanico e marino. Condizioni fatali che da tre decenni si sono aggiunte a guerre, violenze e persecuzioni di ogni tipo costringono milioni di esseri umani a migrazioni forzate.
Per l’Onu quella in corso è la più grave crisi dei rifugiati dalla seconda guerra mondiale. L’ultimo “Global Trends”, il drammatico report dell’United Nations High Commissioner for Refugees, il 13 giugno scorso ha calcolato nell’arco di una decina di anni il raddoppio del numero di persone in fuga dai paesi di origine, oltre 120 milioni di migranti con il dato eclatante di 3 su 4 che abbandona aree desertificate o rese inospitali dai più catastrofici impatti climatici. Basta l’elenco degli ultimi uragani più distruttivi che hanno colpito dall’Africa al Nicaragua, dall’Honduras a El Salvador, dal Guatemala al Chiapas lasciando migliaia di morti, milioni di senza casa e senza cibo, ritorni di epidemie, distruzioni di colture agricole e inquinamento delle acque. Oppure l’elenco dei 40 piccoli Stati del mondo oggi nell’”Alliance of small islands”, dove la king tide, la super marea di inizio anno, estende ormai il suo periodo d’azione a tutto l’anno sommergendo villaggi, campi e spiagge di sabbia bianca di atolli e isole esotiche.
Ma l’esodo trasforma milioni di esseri umani in “fantasmi” nei Paesi di approdo. Se non sono respinti restano privi di qualsiasi status di rifugiati e del diritto d’asilo, e con l’unica certezza che non possono tornare più indietro. Come rileva Alessandro Lanni dell’Unhcr Italia, dal punto di vista formale l‘espressione “rifugiato climatico” oggi non si fonda su nessuna norma presente nel diritto internazionale. Non è nemmeno una definizione prevista e riconducibile alla storica Convenzione sui rifugiati di Ginevra che nel 1951 individuava come titolari di diritti di protezione chi attraversava frontiere internazionali “…a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica”.
Eppure, mai come oggi è soprattutto la “guerra del clima” a costringere alla fuga milioni di uomini e donne che vagano all’interno dei loro paesi o si spingono oltre confine soprattutto dai paesi africani e del Sud America, con ogni mezzo, sfidando la sorte e mettendo in gioco le loro vite. Oggi sono i paesi “in via di sviluppo” e tra i più poveri e più vulnerabili, a farsi carico dell’84% dei rifugiati del mondo, avverte l’Onu. Ma gli organismi internazionali non prevedono ancora né forme di riconoscimento né l’assistenza-standard con linee guida generali come è accaduto nel corso di crisi umanitarie come in Somalia, Sud Sudan o Sahel, con concessioni del diritto a forme complementari di protezione internazionale.
Siamo tutti figli di migranti climatici, e l’Italia è terra di migrazioni e immigrazioni
Solo l’ignoranza della nostra epica storia patria può alimentare la plateale rimozione nazionale dei diritti dei nuovi italiani nonostante i “requisiti” con il continuo prendere tempo in attesa di un accordo sullo ius soli o sullo ius sanguinis o sullo ius scholae o su altri ius più o meno temperati, e la linea maginot di stampo leghista che soffia sul nuovo razzismo respingente ci fa dimenticare chi eravamo e chi ha fatto grande l’Italia. Già, basterebbe aprire uno dei testi dei nostri antropologi e demografi, da Luigi Luca Cavalli Sforza a Massimo Livi Bacci, per rendersi conto delle identità nazionali costruite nel tempo, grazie a mescolamenti strepitosi. Per scoprire come si è arricchita la nostra genetica con contaminazioni in millenni di storia di migrazioni e provvidenziali mescolamenti.
Già tremila anni fa gli italici erano un miscuglio di culture e di provenienze. E persino i racconti degli storici greci e latini come Erodoto, Ellanico di Lesbo, Anticlide, Livio, Plutarco o Seneca a rileggerli sembrano oggi testi scritti da moderni geografi e demografi. Narrano arrivi da terre lontanissime e dopo viaggi inimmaginabili iniziati dalle allora “culle” dell’umanità, aree dell’Africa e del Vicino Oriente, isole greche o coste egee dell’Anatolia. Accoglienza o scontri furibondi, conquiste e convivenze complicate, i più forti che soggiogavano i più deboli ma tant’é, in quel tempo antico una popolazione indoeuropea di pastori e agricoltori dall’Illiria si stabilì in Puglia dove diventarono Apuli, una notevole area interna dalla Campania alla Calabria divenne terra di Enotri discendenti dei Pelasgi, in Sardegna si stabilirono i Nuraghi e i Fenici, al Nord dominavano i Liguri mescolati con i Celti o Galli, a est i “Venetici” navigatori su fiumi e lagune confinavano con i Villanoviani e i Terramare emiliano-romagnoli, e al centro il miscuglio di popoli Latini.
L’iniziale melting pot straniero ha formato, generazioni dopo generazioni, le prime grandi civiltà strutturate come la Magna Grecia al Sud o la civiltà etrusca in centro Italia. E con i Romani - altro straordinario mix di popolazioni italiche con innesti africani o di altri mondi come i profughi troiani guidati da Enea -, l’Imperium conquistò il mondo conosciuto accogliendo e includendo popoli sconfitti o alleati e dando a tutti il pieno “Asylum” e assimilando popolazioni fin dai tempi di Romolo, incrementando crescita numerica e potenza culturale e militare.
C’è la bellissima lettera scritta da Seneca a sua madre Elvia quando Claudio lo esiliò in Corsica, che sembra un moderno trattato sulle moderne migrazioni, e racconta come in quel mondo antico “...han cambiato sede genti e popolazioni intere...L'Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po' dappertutto; tutta questa costa dell'Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L'Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l'Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani...”.
Aggiunge che “Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un'altra: alcuni sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni...altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice...”.
Non dimentichiamo poi che noi italiani siamo rimasti popolo di migranti. Solo dal 1876 al 1915 ben 14 milioni di italiani sono partiti con le valigie di cartone per cercar fortuna tra Argentina, Brasile o Stati Uniti. Cercate tra i parenti più anziani o negli archivi comunali dell'immigrazione ricordi, lettere o racconti per riscoprire storie dimenticate in ogni famiglia di italiani che oggi sembrano inventate. Perché partivano in condizioni del tutto simili a quelle delle moderne ondate migratorie. Su imbarcazioni “a perdere”, dentro piroscafi e navi in disarmo e chiamati “vascelli della morte”, senza certezze di arrivare a destinazione. Gli italiani migranti erano "merce" e non si contano naufragi, annegati, vessazioni, violenze, respingimenti, vita durissima. Le "tonnellate umane", cosi chiamavano i carichi di emigranti italiani, spesso affondavano con i navigli più scassati.
E tante tragedie le racconta il museo di Ellis Island, a lungo il lugubre centro di smistamento e di quarantena per italiani in attesa di mettere piede a New York. Venivano lasciati in balìa di schiavisti, truffatori, ladri di bagagli, sfruttatori con tassi di cambio da rapina. E fuori gli "indesiderati" quelli con “malattie ripugnanti e contagiose” e "manifestazioni di pazzia", contrassegnati da una croce bianca sulla schiena e confinati sull’isola per essere reimbarcati verso il porto di origine, in genere Genova o Napoli. Molti però si tuffavano in mare e finivano straziati dagli squali, o si suicidavano e Ellis Island divenne l’“Isola delle lacrime”. Gli immigrati italiani, però, come è sempre accaduto nella storia dei flussi migratori, contribuirono a fare grande altri Paesi e anche gli Usa. E San Paolo del Brasile è oggi la città con più italiani al mondo.
Come trattiamo i migranti? La perenne attesa di uno “ius”
Altri tempi? Altre storie? Certo. Come è certo che i migranti di questo nostro tempo rispecchiano chi eravamo e come siamo diventati trattando la migrazione come un'anomalia, come se tutti vivessimo in un mondo che soddisfa i bisogni di tutti. Migrare, invece, continuerà ad essere una reazione obbligata agli sconvolgimenti delle condizioni di vita.
La nostra perdita di memoria però non ci fa vedere quanta ricchezza oggi i lavoratori stranieri in Italia trasferiscono ogni anno alle casse dello Stato. Non ci fa capire che gli arrivi andrebbero incentivati e ben gestiti per il bene di chi arriva e di tutti gli italiani. Dovremmo agevolarli a stabilirsi in Italia con le loro famiglie. Invece, siamo un Paese paradossale al punto che viene da chiedersi: cosa siamo diventati?
Oggi non siamo tra gli Stati che accolgono più migranti. L’invasione che anche i media contribuiscono a far immaginare non c’è. E tutte le analisi sui flussi migratori dimostrano che gli immigrati non solo non tolgono lavoro agli italiani ma anzi tamponano e coprono le nostre costanti perdite demografiche. Lo ha persino ribadito pochi giorni fa il governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, spiegando al Meeting ciellino di Rimini e ai tanti ministri e politici in platea che mai come oggi all’Italia servono più lavoratori stranieri per arginare la crisi delle nascite che mina “la tenuta dei sistemi pensionistici, il sistema sanitario, la propensione a intraprendere e innovare, la sostenibilità dei debiti pubblici”. Messa così, anche sul piano biecamente finanziario chi arriva e lavora non costa all’Italia più di quanto dá all’Italia.
Non capire questa verità anzi nasconderla indica il naufragio culturale e politico del Paese, quel restare inermi di fronte ai trafficanti di morte che sfuggono ad ogni giustizia. C’è un altissimo e straziante numero di migranti che annegano nel nostro Mediterraneo per mancanza di soccorsi adeguati e per il mancato contrasto internazionale ai trafficanti di esseri umani. Le vittime dei naufragi sono ancora salite in un anno da 1.417 a 2.498, da una media di 9 a una media di 13 annegati ogni 1.000 tentativi di attraversamento. E il numero di scomparsi in mare dal 2014 ad oggi è spaventoso: oltre 22mila, di cui 485 sono bambini.
Nonostante ciò che spacciano xenofobi e razzisti, l’effetto emersione dalla clandestinità e dalle irregolarità inevitabili oggi fa bene all’Italia. E fa molto bene ai comparti già oggi con la più elevata incidenza di stranieri sul totale di occupati e cioè quello dei servizi personali e collettivi (31,6%), seguito dall’agricoltura (17,7%), ristorazione e turismo (17,3%), costruzioni (15,6%). Prevale certo il “lavoro povero”, e per molti lavoratori stranieri e per le loro famiglie spesso le condizioni sono di schiavitù come nei campi agricoli dove la povertà assoluta e lo sfruttamento schiavista sono garantiti dalla clandestinità e dall’assenza perdurante di controlli e di una politica migratoria. Il boomerang clamoroso contro l’Italia.
Per tutto questo Greenreport è con i tanti sindaci come Pasquale Chieco di Ruvo di Puglia che il prossimo 20 novembre con una cerimonia solenne consegnerà la cittadinanza civica a 200 minori figli di immigrati senza cittadinanza italiana e tanti di loro fuggiti per le distruzioni del clima, sigillati in un limbo deprimente. Perché se vivi in un una città ne sei cittadino, sei parte della comunità e per dirla tutta sei un “patriota”. E se solo lo ius scholae diventasse realtà avremmo circa 560.000 giovani italiani in più, ragazze e ragazzi che sono e si sentono italiani, che parlano l’italiano meglio di tanti italiani, che cantano l’inno di Mameli e che di sicuro contribuiranno a fare grande l’Italia.