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Più verde nel deserto: ma non è il cambiamento climatico al contrario

 |  Editoriale

Negli ultimi anni, numerosi studi hanno evidenziato un fenomeno sorprendente: molte aree aride del pianeta, contrariamente alle previsioni di desertificazione imminente dovuta al cambiamento climatico, stanno diventando più verdi. Questo fenomeno, noto come "greening," è stato osservato in regioni come il Sahel africano, l'Australia sud-orientale, e le zone aride della Cina settentrionale e dell'India occidentale. Ma cosa sta causando questa tendenza così controintuitiva? E quali sono le implicazioni a lungo termine?

Le aree aride coprono circa il 40% della superficie terrestre e ospitano più di un terzo della popolazione mondiale. Negli ultimi decenni, queste regioni hanno subito una diminuzione delle piogge, temperature più alte e tassi di evaporazione maggiori. Questo ha aumentato la degradazione del suolo, spesso accelerata da cattive pratiche agricole e sovrappascolo, che rischiano di avviare il circolo vizioso della desertificazione. Tuttavia, le immagini satellitari mostrano che in molte aree aride la vegetazione è cresciuta più rapidamente del previsto e ha addirittura aumentato la sua estensione territoriale. La ragione principale, secondo alcuni studi recenti, è l'aumento del 50% delle concentrazioni di anidride carbonica nell'atmosfera, causato dall'uso dei combustibili fossili - carbone, petrolio e gas.

Con la fotosintesi, il processo mediante il quale le piante crescono, le foglie assorbono la CO2 dall'atmosfera e la trasformano in zuccheri e  materia vegetale. Questo processo richiede acqua, che nelle regioni aride è spesso il fattore limitante per la crescita delle piante. Una concentrazione più elevata di CO2 nell'aria consente una fotosintesi più facile e migliora la capacità delle piante di utilizzare la poca acqua disponibile in modo efficiente. È per questo che gli scienziati parlano di "fertilizzazione" da anidride carbonica.

In effetti, da qualche anno gli ecologi si sono accorti di un "rinverdimento" della superficie terrestre, non solo nelle zone aride. Già nel 2016 un team di 32 ricercatori provenienti da otto paesi ha studiato le immagini satellitari della Nasa degli ultimi 40 anni e ha concluso che tra un quarto e la metà delle aree coperte da vegetazione del nostro pianeta avevano mostrato un aumento del loro indice di area fogliare, una misura standard dell'abbondanza di vegetazione. Successive analisi hanno suggerito che il 60% di questo rinverdimento potrebbe essere dovuto alla fertilizzazione da CO2. Altre possibili spiegazioni comprendono l'aumento delle deposizioni di azoto dall'inquinamento atmosferico, l'aumento delle temperature nelle regioni fredde, e i progressi nelle tecniche agricole e di irrigazione. Questo risultato è stato confermato nel 2021 da uno studio del'Università della California, che ha valutato il tasso di fotosintesi in una gamma di ecosistemi in tutto il mondo. Utilizzando una rete di "torri di flusso" che misurano lo scambio di gas tra la vegetazione e l'aria sovrastante, il team di Trevor Keenan aveva riscontrato un aumento del 12% della fotosintesi a scala globale a partire dal 1982, che avevanella fertilizzazione da CO2la sua causa principale.

Questo rinverdimento è particolarmente evidente nelle zone aride: una valutazione del 2020 del Woodwell climate research center a Falmouth, Massachusetts, ha scoperto che circa il 6% delle terre aride si è desertificato dal 1982 – ma questo rappresenta solo un quarto di quanto ci si aspettasse basandosi sulle sole variabili meteorologiche. Queste aree includevano gran parte del sud-ovest degli Stati Uniti, il nord-est del Brasile e parti dell'Asia centrale. Al contrario, il rinverdimento interessava un'area tre volte più estesa. E nel 2023, Guolong Zhang dell'Università di Lanzhou in Cina ha riportato una "incoerenza" globale tra stress idrico e area fogliare nelle zone aride negli ultimi tre decenni - in altre parole, la superficie fogliare è aumentata nonostante l'aridità, grazie all'effetto fertilizzante della CO2.

Con l'aumento delle concentrazioni di CO2 atmosferica, le piante utilizzano l'acqua più efficacemente e la loro crescita non riflette più la meteorologia. Se i livelli crescenti di CO2 hanno un effetto maggiore rispetto al ruolo disseccante della diminuzione delle piogge, allora l'aridità è accompagnata dal rinverdimento. Ziwei Liu, un modellista idrologico della Tsinghua University di Pechino, ha concluso che, tenendo conto dell'impatto della fertilizzazione da CO2, le terre aride si espanderanno solo del 5% entro la fine di questo secolo, ma la produttività della loro vegetazione potrebbe aumentare del 50%. E lo scorso mese, Burrell, Evans e Xinyue Zhang, dell'Università del New South Wales, hanno previsto che nonostante I "continui aumenti dell'aridità dovuti al cambiamento climatico", "meno del 4% delle aree aride [subirà] ulteriore desertificazione".

Prima di rivedere decenni di scienze climatiche e considerare la CO2 un gas benefico "perché è il cibo delle piante" (uno degli argomenti preferiti dei negazionisti climatici di ogni latitudine), è necessario però capire bene il significato di queste scoperte. Che cosa si è osservato esattamente? E che implicazioni potrebbe avere per il futuro delle foreste e dei benefici essenziali che generano per l'umanità?

Per comprendere bene il fenomeno del "greening", è essenziale distinguere tra diversi termini spesso confusi:

1. Area fogliare (LAI): indica l'area totale delle foglie appartenenti a tutti i tipi di vegetazione (alberi, arbusti, piante coltivate) per unità di superficie del suolo. Un aumento dell'area fogliare suggerisce una maggiore copertura vegetale, ma senza poter distinguere quale vegetazione ne sia protagonista. L’area fogliare è valutabile dalle immagini satellitari attraverso un indicatore basato sulla radiazione rossa e infrarossa riflessa dalle foglie, il Normalized difference vegetation index (NDVI), utilizzato da oltre 50 anni per misurare la "vigoria" della vegetazione. Valori elevati di NDVI indicano una vegetazione densa e sana.

2. Produttività: si riferisce alla quantità di biomassa prodotta dalle piante. Un aumento della produttività suggerisce che le piante stiano crescendo più velocemente. La produttività è direttamente proporzionale alla capacità delle piante di assorbire e immagazzinare CO2 dall'atmosfera, contribuendo così a mitigare le cause della crisi climatica. La produttività si misura rilevando i cambiamenti nelle dimensioni degli alberi a distanza di tempo, misurando direttamente la loro crescita (ad esempio "leggendo" l'ampiezza degli anelli annuali del tronco) oppure misurando direttamente l'intensità degli scambi gassosi in ingresso e in uscita dal bosco, con installazioni sperimentali spesso sofisticate e costose. 

E proprio nella differenza tra queste due grandezze sta il primo punto critico: anche se la vegetazione è in aumento, la sua capacità di fissare il carbonio potrebbe non crescere proporzionalmente se altri fattori, come la disponibilità di acqua o nutrienti, limitano la crescita delle piante. La fotosintesi è un processo che richiede molti ingredienti per avvenire correttamente: come quando cuciniamo un piatto prelibato, se manca anche un solo ingrediente la ricetta non riesce bene, nonostante uno dei fattori sia presente in grande quantità (in altre parole: non basta moltissima farina per fare una buona torta).

In secondo luogo, un aumento delle foglie non vuol dire affatto che le foreste del pianeta stiano sempre meglio. Secondo ulteriori studi, almeno un terzo del rinverdimento globale osservato negli ultimi quarant'anni sarebbe dovuto ai miglioramenti nelle produzioni agricole in aree marginali di Cina e India. Irrigazione, selezione di varietà più efficienti, fertilizzazione e lotta ai parassiti – i pilastri della "rivoluzione verde" che nel mondo occidentale è avvenuta a partire dagli anni '60 – sono certamente in grado di aumentare la superficie coltivabile con successo nelle zone aride di quei Paesi, che si stanno affacciando solo ora ai miglioramenti tecnologici delle tecniche agricole. È il caso della regione del Sahel, ai margini meridionali del deserto del Sahara. Oltre all'aumento della CO2 atmosferica, che si verifica in tutto il mondo, questa regione ha anche visto il ritorno delle piogge dopo le devastanti siccità degli anni '70 e '80. E in alcuni luoghi, gli agricoltori hanno cambiato il modo di coltivare, favorendo la crescita degli alberi nei loro campi per fornire ombra e sostanze nutritive alle colture. Il geografo Chris Reij del World resources institute a Washington ha stimato che in Niger ci siano circa 200 milioni di alberi in più su circa 5 milioni di ettari di terra precedentemente quasi senza alberi, specialmente nel sud del Paese. Ma "se la fertilizzazione da CO2 fosse il fattore determinante del rinverdimento, questo avverrebbe in modo omogeneo, ma non è così", dice. Infatti, il rinverdimento si ferma bruscamente al confine con la Nigeria, dove gli agricoltori mostrano poco interesse a favorire la crescita degli alberi sui loro terreni.

Inoltre, le osservazioni del passato e i modelli di previsione futuri potrebbero non coincidere sempre. Le tendenze osservate potrebbero invertirsi, e i modelli non considerare tutti i fattori in gioco, come l'aumento degli eventi meteorologici estremi (come gli incendi) dovuti proprio all'aumento della CO2 e quindi delle temperature dell'atmosfera e degli oceani a livello globale.

Il "browning" è il fenomeno opposto al "greening" e si riferisce alla diminuzione della quantità di vegetazione. Studi recenti hanno osservato questo fenomeno in alcune regioni, indicando un rallentamento o un'inversione dei trend. Ad esempio, in Artico (una delle zone aride più estese del pianeta, sebbene caratterizzata da basse temperature) la tendenza al rinverdimento sembra essersi già conclusa: nonostante l'aumento delle temperature possa alleviare le limitazioni che il freddo oppone alla crescita delle piante, la fusione precoce della neve ha portato a una riduzione della produttività vegetale e del sequestro di carbonio. Un esempio che testimonia la complessità delle risposte ecologiche ai cambiamenti climatici, e la necessità di considerare tutte le variabili dell'ecosistema per prevedere le dinamiche future della vegetazione e della sua capacità di assorbire carbonio . E spesso gli stessi modelli che prevedono un aumento del rinverdimento fino alla metà del secolo in corso, se estesi su periodi di tempo più lunghi, suggeriscono un'inversione di tendenza, specialmente negli scenari climatici più gravi, in cui la diminuzione dell'acqua e della fertilità del suolo sarà così grave da non poter essere controbilanciata dalla fertilizzazione da CO2.

Un buon esempio è quanto successo nell'anno 2023, il più caldo mai registrato finora a scala globale. Le immagini satellitari relative a quell'anno hanno mostrato che il rinverdimento è continuato in molte regioni, raggiungendo valori record, ma che eventi climatici estremi, come incendi e siccità, hanno portato a segnali precoci di browning in altre aree. Al tempo stesso, secondo uno studio appena pubblicato (e non ancora revisionato da pari) da un team di climatologi di fama mondiale, tra cui Pierre Friedlingstein dell'Università di Exeter, ha dimostrato che in quell'anno l'assorbimento globale di carbonio da parte della vegetazione si è quasi azzerato, diminuendo di oltre la metà nelle aree temperate e boreali e invertendosi addirittura in un flusso significativo di emissioni di carbonio nei territori tropicali – un altro epicentro del "browning" secondo diversi studi recenti, che hanno contraddetto le evidenze relative a un rinverdimento diffuso su scala globale.

In particolare, le foreste tropicali vegetano già al limite della loro temperatura ottimale per la fotosintesi: qualsiasi riscaldamento aggiuntivo avrà l'effetto di diminuire l'efficacia della loro fotosintesi, aumentando invece le perdite di carbonio per respirazione.  Ad esempio, un team di ricercatori forestali indiani ha riscontrato in uno studio del 2023 che le foreste dell'India, pur aumentando la quantità di area fogliare verde del 7% dal 2001 al 2019, avevano contemporaneamente diminuito del 6% la loro capacità di assorbire carbonio, a causa degli stress termini e idrici. Una prova lampante di come rinverdimento globale e salute delle foreste e dei serbatoi di carbonio siano fenomeni assai slegati tra di loro.

Ci sono anche aspetti negativi nel rinverdimento degli ecosistemi. Anche gli ecosistemi aridi sono importanti: si tratta habitat fondamentali per specie adattate alla scarsità d'acqua, come piante in grado di sopravvivere decenni senza pioggia o di coleotteri in grado di raccogliere sui loro corpi le gocce di umidità della nebbia. Queste specie così specializzate potrebbero soffrire un cambiamento rapido nelle caratteristiche dell'ecosistema, che invece rischia di favorire l'ingresso delle specie aliene, meglio adattate a sfruttare i livelli elevati di CO2, crescere rapidamente e spazzare via le specie locali. Studi a lungo termine dell'Università della California mostrano che nel deserto di Sonora arbusti bassi, meglio adattati a piogge scarse e temperature elevate, stanno prendendo il posto delle piante arboree native, creando un'impressione di rinverdimento che segna invece un degrado ecologico. E in effetti, come abbiamo detto, i rilevamenti satellitari non sono in grado di dirci quale sia la vegetazione protagonista del rinverdimento, non riuscendo a distinguere ad esempio tra specie native e specie esotiche invasive, o tra una foresta tropicale primaria, una piantagione a monocoltura, e la vegetazione arborea e arbustiva che si può sviluppare dopo la deforestazione da parte dell'uomo, magari altrettanto efficiente in termini di "verde" ma di certo molto meno favorevole per biodiversità e abbondanza di carbonio conservato al suo interno.

In alcuni luoghi, l'aumento delle siccità e la maggiore continuità territoriale della vegetazione negli ambienti aridi sta aumentando il rischio della diffusione degli incendi boschivi. Nella Black summer del 2019-2020, le fiamme hanno attraversato il sud-est dell'Australia, consumando un quarto delle foreste del Paese. I forestali hanno attribuito i roghi a una combinazione di siccità, alte temperature e un accumulo di vegetazione legnosa combustibile, che le analisi suggeriscono fosse in parte il risultato della fertilizzazione da CO2. Per questi motivi, il rinverdimento delle aree aride potrebbe anche avere effetti negativi, causando una più intensa competizione per le risorse idriche e aumentando il rischio di incendi boschivi, le cui emissioni potrebbero neutralizzare i benefici in termini di sequestro del carbonio da parte della vegetazione aggiuntiva.

Infine, se è vero che la fertilizzazione da CO2 rende le piante globalmente meno sensibili alla scarsità di acqua, riducendo la traspirazione a livello fogliare, nelle zone aride questa riduzione della traspirazione a livello di singola foglia è neutralizzato proprio dall'aumento della quantità delle foglie, a livello di chioma e di foresta nel suo complesso. Uno studio del 2022 dell'Università di Pechino ha infatti rilevato che la sensibilità delle piante alle piogge è diminuita solo nelle regioni umide (-0.6% ogni anno), mentre in quelle aride, dove la traspirazione è più forte, questa sensibilità si è invece aggravata (+0.6%). La maggiore sensibilità delle zone aride globali implica una potenziale diminuzione della stabilità dell'ecosistema e un maggiore impatto della siccità sulla vegetazione.

Il fenomeno del "greening" delle terre aride è complesso e multifattoriale. Non può essere interpretato come una semplice prova contro il cambiamento climatico antropogenico. Mentre la CO2 può stimolare la crescita delle piante, le sue conseguenze a lungo termine e gli effetti secondari, come la diminuzione della biodiversità e l'aumento degli eventi meteorologici estremi, devono essere attentamente considerati. Gli scenari futuri per le terre aride dipenderanno da vari fattori, tra cui il cambiamento climatico, le pratiche agricole e la gestione delle risorse. Il miglioramento degli studi a lungo termine e dei modelli climatici avanzati potrà fornire informazioni cruciali per la gestione e la conservazione delle terre aride.

Se il mondo si sbagliava ad aspettarsi che il cambiamento climatico avrebbe scatenato una rapida e diffusa desertificazione nelle terre aride,  potrebbe essere altrettanto sbagliato immaginare che il drammatico rinverdimento rivelatoci dalle immagini satellitari in molte di quelle regioni sia un motivo sufficiente a dichiarare risolti i loro problemi.

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Giorgio Vacchiano

Giorgio Vacchiano è ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l'Università Statale di Milano, studia modelli di simulazione in supporto alla gestione forestale sostenibile, la mitigazione e l'adattamento al cambiamento climatico e ai disturbi naturali nelle foreste temperate europee. Si occupa di didattica e comunicazione della scienza, ha all'attivo numerose pubblicazioni scientifiche e nel 2018 è stato nominato dalla rivista Nature tra gli 11 migliori scienziati emergenti nel mondo che «stanno lasciando il segno nella scienza».