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Il Mediterraneo è il più grande cimitero di migranti climatici del Pianeta. E noi abbiamo perso la memoria di quando l’Oceano inghiottiva milioni di migranti italiani

 |  Editoriale

Il mare restituisce ogni giorno, dalla notte di domenica scorsa, i corpi straziati dei migranti inghiottiti dopo l’ultimo naufragio di un barcone a vela affondato nello Jonio a 120 miglia dalle coste calabresi.

La guardia costiera ieri ha recuperato e portato a Roccella Jonica altri 12 cadaveri, 8 erano bimbi e 4 le loro mamme. Il conteggio degli annegati nel Mare Nostrum da gennaio è salito a 800, 5 al giorno, calcolano l’Agenzia Onu per i rifugiati, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’Unicef.

E le acque del Mare Nostrum che, scriveva Fernand Braudel, sono “mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi… non una civiltà, ma una serie di civiltà” devono restituire ancora 45 dispersi dell’ultimo naufragio. Il Mediterraneo è oggi il più grande cimitero del pianeta.

E si aggiunge a questo strazio l’orrore della disumanità che ha lasciato morire Satnam Singh, 31 anni, l’immigrato indiano senza diritti, un altro fantasma per lo Stato, solo due braccia per i caporali che lo sfruttavano nelle campagne dell’agro pontino, risucchiato dalla macchina avvolgiplastica di un’azienda dove lavorava in nero che gli ha tranciato un braccio e fratturato le gambe, caricato dal suo “padrone” su un furgone e morto dissanguato davanti alla sua fatiscente abitazione, con l’arto amputato buttato in una cassetta per la frutta. La brutalità.

Ci vuole poco a capire che nel nostro mondo c’è chi è disposto a tutto pur di proteggere l’ultimo spicchio di speranza e di futuro, che tre profughi su quattro sono in fuga dagli impatti devastanti del nuovo clima, che in questo momento sono almeno 120 milioni, certifica l’ultimo report “Global trends” dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite; quelli delle migrazioni forzate, quelli di cui si parla sempre e solo “in negativo”, associando poveri cristi alla criminalità e trattando anche donne e bambini come tali. Umanità senza status giuridico né diritti d’asilo, trasformati in “fantasmi” e costretti a sopravvivere come rifiuti umani.

Quanti sono? Chi sono? Da dove partono? Dove andranno? L’unica certezza è che lasciano tutto e fuggono dalle aree del Pianeta più colpite dalla povertà e da catastrofi meteoclimatiche come alluvioni, mancanza d’acqua e di cibo, degrado degli ecosistemi.

Nei loro confronti gli Stati fanno muro, si gonfiano le paure, si alimentano più che i circuiti di solidarietà le mancate accoglienze, si lasciano sulla frontiera e nelle mani dei trafficanti di esseri umani, non si rafforzano le politiche di integrazione ma si immaginano centri di accoglienza come le finzioni di prigioni in Albania, si consentono condizioni di sfruttamento ignobili.

Sono migranti. E i migranti di ogni epoca sanno cosa li aspetta. Partono e sanno che voltarsi indietro significa guardare negli occhi la fame. E l'Italia dovrebbe ricordare come eravamo, quando eravamo noi i figli della miseria più nera, vittime di malattie, guerre e persecuzioni. Dovremmo fare uno sforzo di memoria e tornare a quando milioni di italiani lasciavano il cuore in Italia, salutati dalle lacrime della disperazione nei tramonti più struggenti e tristi del mondo sui porti da Palermo a Napoli a Genova. Fino alla metà del Novecento, in milioni si sono imbarcati anche su navi-carrette e piroscafi fatiscenti con rotta verso l'Oceano sognando un’esistenza dignitosa, migliore.

Solo dal 1876 al 1915 sono stati ben 14 milioni i nostri migranti che con le loro valige di cartone hanno cercato fortuna soprattutto nell’altra parte del mondo. In quarant'anni di continua emigrazione di massa si sono mossi 7 milioni e 600mila italiani diretti in Argentina, Brasile e negli Stati Uniti.

Le allucinanti traversate cercatele negli archivi comunali dell'immigrazione, nelle lettere, nei racconti dei sopravvissuti. Si scoprono storie raccapriccianti, estreme, barbarie, violenze che a rileggerle sembrano inventate, distanti anni luce da ciò che siamo diventati oggi.

Storie totalmente rimosse nel dibattito pubblico. Partivano, i nostri, in condizioni del tutto simili e a volte addirittura peggiori a quelle delle moderne ondate migratorie. Questo ci dicono le immagini e i resoconti del bellissimo Museo nazionale dell'emigrazione italiana di Genova: «Al trasporto dei migranti venivano assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si trattava di piroscafi in disarmo, chiamati 'vascelli della morte', che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano oltre 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. Nei "vascelli fantasma" la "merce" a bordo arrivava anche priva di vita a causa delle pessime condizioni igieniche e sanitarie».

I morti per naufragi? Tantissimi. Sul piroscafo "Città di Torino" nel novembre 1905 furono 45 gli annegati sui 600 imbarcati; sul "Matteo Brazzo" nel 1884 contarono 20 morti per epidemia di colera su 1.333 passeggeri e li gettarono subito in mare, ma la nave venne poi respinta a cannonate a Montevideo per il timore di contagio; sul "Carlo Raggio" furono 18 i morti “per fame” nel 1888 e 206 i decessi “per malattia" nel 1894; sul "Cachar" elencarono 34 morti "per fame ed asfissia" nel 1888; sul "Frisia" nel 1889 ci furono altri 27 morti "per asfissia" e più di 300 sbarcarono “malati e in fin di vita”; sul "Parà" nel 1889 ci furono 34 morti per l’”epidemia di morbillo”; sul "Remo" 96 morti "per colera e difterite" nel 1893; sulla “Andrea Doria” 159 deceduti su 1.317 emigranti nel 1894; sul "Vincenzo Florio" altri 20 morti, sempre nel 1894.

Le carrette degli oceani navigavano con a bordo la "tonnellata umana", come chiamavano in gergo il carico di emigranti italiani, e affondavano proprio come oggi.

Abbiamo dimenticato la strage di 576 italiani, quasi tutti meridionali, annegati il 17 marzo 1891 nel naufragio della “Utopia”, davanti al porto di Gibilterra. I 549 emigranti che sparirono nelle acque gelide nel naufragio del "Bourgogne" al largo della Nuova Scozia il 4 luglio 1898, i 550 emigrati italiani vittime il 4 agosto 1906 del naufragio del "Sirio" in Spagna, i 600 cadaveri raccolti nel naufragio della "Principessa Mafalda" il 25 ottobre 1927 al largo del Brasile e altre centinaia inghiottiti dalle acque.

Il naufragio della "Principessa Mafalda" è stata la peggiore sciagura della nostra storia di emigranti. La nave era un tempo l'ammiraglia della flotta del Lloyd italiano ed ex prestigioso piroscafo tricolore con la terza classe con servizi igienici e capacità di trasporto fino a 1.200 emigranti. Partì da Genova l'11 ottobre con a bordo 1.259 piemontesi, liguri e veneti. Ma con alle spalle una ventina di anni di scarsa manutenzione e usura. Nel tratto di Mediterraneo verso Gibilterra subì 8 guasti ai motori, alla pompa di un aspiratore, all'asse dell'elica di sinistra, alle celle frigorifere. Il 25 ottobre, a 80 miglia al largo della tra Salvador de Bahia e Rio, procedeva inclinata verso sinistra e possiamo immaginare il terrore puro a bordo. Alle 17.10, l'asse dell'elica sinistra si sfilò e squarciò lo scafo. L'acqua invase la sala macchine e la stiva poiché nemmeno le porte stagne funzionavano. E centinaia di italiani sparirono per sempre nel profondo mare.

Altre tragedie di migranti connazionali le racconta il museo di Ellis Island, il centro di smistamento e di quarantena per italiani in attesa di mettere piede a New York. Progettato per accogliere 500.000 immigrati all’anno, ne ospitava il doppio, con donne e uomini prede di schiavisti, ladri di bagagli e sfruttatori. Le famiglie venivano divise, via "indesiderabili" e malati, i dottori descrivevano “malattie ripugnanti e contagiose” e "manifestazioni di pazzia".

Gli italiani che non superavano gli esami medici venivano contrassegnati con una croce bianca sulla schiena e confinati sull’isola-porta degli States e poi reimbarcati con rotta verso Genova o Napoli. Tanti nostri migranti al ritorno preferivano la morte suicidandosi o tentare la sorte tuffandosi in mare per essere uccisi e straziati dagli squali o annegare, nella disperata speranza di raggiungere Manhattan a nuoto. La peggiore vergogna era quella del ritorno a casa. Ed Ellis Island in quegli anni diventò l’“Isola delle lacrime”.

Ma gli immigrati italiani, però, come è sempre accaduto nella storia dei flussi migratori, fecero grande anche il New Jersey e gli Usa. La città con più italiani al mondo è oggi San Paolo del Brasile, con circa 6 milioni di persone con almeno 1 ascendente italiano nella loro famiglia.

Altri tempi. Altre storie? Certo, ma sono le stesse storie di oggi. I migranti del nostro tempo rispecchiano quelli che eravamo e come venivamo trattati. Siamo noi quei bambini, quelle mamme e quei papà che sognano la fine di un incubo, che vengono stipati a forza su barconi che sono zattere pronte per affondare, ad essere violentati e a morire esattamente come i nostri bisnonni e nonni di un secolo fa, cercando un appiglio per la vita.

Erasmo D'Angelis

Erasmo D’Angelis, giornalista - Rai Radio3, inviato de il Manifesto e direttore de l’Unità -, divulgatore ambientale e autore di libri, guide e reportage, tra i maggiori esperti di acque, infrastrutture idriche, protezione civile. Già Segretario Generale Autorità di bacino Italia Centrale, coordinatore per i governi Renzi e Gentiloni della Struttura di Missione “italiasicura” contro il dissesto idrogeologico, Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti del governo Letta, Presidente di Publiacqua e per due legislature consigliere regionale in Toscana. È Presidente della Fondazione Earth Water Agenda, tra i promotori di Earth Technology Expo e della candidatura dell’Italia al World Water Forum.