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Ingegneria naturalistica per ridurre il rischio alluvioni: servono interventi a monte

Preti: «Priorità ai cosiddetti interventi “integrati”, nei quali si associa la protezione di ecosistemi e biodiversità alla mitigazione del rischio idrogeologico»
 |  Territorio e smart city

Piove in maniera pericolosa più frequentemente. E ciò avviene su un territorio vulnerabile per l'aumento di consumo di suolo nel fondovalle e l'abbandono dell'entroterra. I corsi d'acqua arginati non reggono e si continua a impermeabilizzare il suolo e esponendo beni e vite umane a subire danni.

Tagliare troppo e male la vegetazione ripariale può addirittura aumentare il rischio a valle. Le frane sono più frequenti nei versanti non più gestiti negli ultimi decenni, rispetto a quelli ancora mantenuti o boscati. Oggi dobbiamo mitigare l'aumento di rischio idrogeologico, compensando gli effetti del consumo di suolo e del cambio climatico con la prevenzione tramite soluzioni basate sulla natura, ovvero realizzando interventi innovativi di Ingegneria naturalistica con investimenti 10 volte inferiori a quelli per la ricostruzione in emergenza post eventi catastrofici, e dando opportunità di lavoro a tecnici, professionisti e giovani disoccupati.

L'Ingegneria naturalistica sviluppata in Italia da oltre 30 anni ha le sue radici nelle sistemazioni idraulico-forestali, patrimonio culturale, tecnico e scientifico italiano (nate a Vallombrosa ben oltre un secolo fa). Con tali tecniche consolidate si attuava la difesa del suolo dei bacini collinari e montani, prioritaria per l'economia del Paese. E oggi anche i massimi esperti di frane e di desertificazione riconoscono il ruolo fondamentale di tali soluzioni.  

La strada oggi è quella di rinaturalizzare il territorio quanto prima (secondo la Nature restoration law e compensando l’abbandono e la mancanza di manutenzione delle aree interne) e pianificare interventi strutturali e non strutturali (anche delocalizzazioni di edifici) a medio e lungo termine (recuperando risorse economiche da altri settori non così prioritari). Un esempio concreto: interventi diffusi a monte.

Il cambiamento di uso del suolo e la minore manutenzione dei nostri bacini idrografici, oltre agli effetti del cambio climatico, hanno portato oggi ad un rischio notevolmente maggiore. Anche con riferimento  all’alluvione appena terminata e a quelle del novembre 2023 in Toscana e alla precedente in Emilia Romagna, è stato di recente confermato  che solo per la perdita di trattenuta e rallentamento nel reticolo idraulico minore e nei terrazzamenti di versante (cassa di espansione-laminazione equivalente diffusa), la pericolosità è aumentata intorno al 20-30%, e considerando anche gli effetti del cambio climatico, fino a oltre il 50% (quindi gli eventi critici ora hanno una frequenza maggiore, ovvero un tempo di ritorno minore). Se poi si considera il consumo di suolo che ha enormemente aumentato la vulnerabilità e l’esposizione di beni e persone al danno, ecco che abbiamo un rischio che è cresciuto in maniera ormai insostenibile.

Da recenti sudi dell'Università di Firenze e Aipin su bacini idrografici colpiti da alluvioni, si è quantificato che il rischio idrogeologico è aumentato di decine di volte a seguito di trasformazioni del territorio ed effetti del cambio climatico, e questo può essere compensato da interventi di Ingegneria naturalistica.

Si consideri anche la spesa per interventi di prevenzione può essere inferiore di 10 volte rispetto a quella per interventi post-catastrofi. Intervenendo “a monte” possiamo avere ulteriori vantaggi (ad es. trattenere e rallentare l’acqua garantisce anche accumulo di riserve per i periodi siccitosi e ravvenamento delle falde).

In realtà i fenomeni di dissesto (erosione, frane, esondazioni, etc.) sono naturali, ma creano danni solo se si costruisce e vive in zone a rischio (se possibile, la soluzione migliore sarebbe non-strutturale: divieto di costruire o delocalizzazione).

Da sempre, con l’Ingegneria naturalistica, si privilegia l’opzione zero (non-intervento se non necessario, in caso di processi naturali) oppure la rinaturalizzazione/riqualificazione prima degli interventi strutturali che, qualora inevitabili si realizzeranno con opere “verdi” rispetto a quelle convenzionali “grigie”, tenuto conto dei limiti tecnici e della deontologia professionale. Il tutto rispettando, naturalmente, il principio Do No Significant Harm (DNSH) per cui gli interventi non arrechino alcun danno significativo all'ambiente. Ormai le strategie e programmi europei e nazionali, anche sostenuti dal Recovery plan/Pnrr, vanno in questa direzione. Ad esempio, con l’emanazione del DPCM 27/09/2021 sono stati definiti criteri e metodi per identificare le priorità di finanziamento degli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico in Italia: tra gli interventi proposti si darà priorità ai cosiddetti interventi “integrati”, nei quali si associa la protezione di ecosistemi e biodiversità alla mitigazione del rischio idrogeologico.

L'Ingegneria naturalistica ha, pertanto, certamente un ruolo per la mitigazione del rischio idrogeologico e la riqualificazione del paesaggio, con costi più sostenibili e portando occupazione, compensando anche la mancanza di manutenzione del territorio e aumentandone la resilienza agli effetti del cambio climatico e del consumo di suolo. Le casse di espansione attuali hanno volumi (decine di metri cubi a ettaro) e laminano i picchi di piena di circa il 10% corrispondenti alla laminazione diffusa che avevamo prima a monte. 

Oggi ci servirebbero 3 miliardi all'anno da spendere per mitigare il rischio in Italia, a fronte di circa il triplo speso ogni anno per ricostruire dopo le catastrofi.

di Federico Preti, presidente nazionale dell’Associazione Italiana per l’Ingegneria naturalistica (Aipin) e docente di Idraulica dell’Università di Firenze

Redazione Greenreport

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