Terremoti, all’Italia servirebbero 219 miliardi di euro ma il Governo Meloni stanzia lo 0,1%
In occasione della VII Giornata nazionale della prevenzione sismica, organizzata da fondazione Inarcassa insieme al Consiglio nazionale degli ingegneri e a quello degli architetti, il ministro della Protezione civile – Nello Musumeci – ha svelato il nuovo impegno del Governo Meloni sul fronte nella lotta ai terremoti.
«Per poter avviare un percorso virtuoso oggi annunciamo il Piano nazionale per la prevenzione sismica, un programma – spiega il ministro – che parte con la dotazione di 250 milioni di euro, destinato a durare almeno 10 anni, con l’obiettivo di replicare questa cifra ogni anno. Privilegiamo le zone particolarmente a rischio e naturalmente le infrastrutture pubbliche, perché dobbiamo cominciare dalle scuole, dagli edifici ospedalieri, dalle strutture particolarmente strategiche soprattutto in caso di calamità. E per gli edifici privati, chiediamo l’intervento dell’Ue».
Un «intervento» che dovrebbe essere però molto ingente, in quanto i fondi annunciati da Musumeci sono solo una minima frazione di quanto sarebbe necessario. Secondo i dati presentati oggi, dal 1968 – anno del terremoto della Valle del Belice – il nostro Paese ha stanziato oltre 135 miliardi di euro, di cui 20 andranno spesi da qui al 2047, per far fronte ai danni provocati dagli 8 terremoti distruttivi che hanno colpito la penisola negli ultimi 60 anni. Sarebbe stato molto più conveniente investirli in prevenzione: oggi in Italia sono circa 18 milioni gli immobili a uso residenziale a rischio sismico e che necessiterebbero di interventi immediati, una grande opera di manutenzione straordinaria che richiederebbe una spesa di 219 miliardi di euro, tenendo conto delle diverse aliquote a seconda del rischio sismico e delle agevolazioni del Sismabonus. Servirebbero, quindi, poco più di 7 miliardi di euro all’anno per 30 anni per mettere in sicurezza il nostro patrimonio immobiliare e per mitigare il rischio.
A fronte di queste cifre, lo stanziamento del Governo Meloni pari a 250 milioni di euro rappresenta lo 0,1% del necessario. Venisse mantenuta dunque la promessa di replicarlo per un decennio, si arriverebbe appena all’1%.
«L’ammontare delle spese sostenute dallo Stato dal 1968 ad oggi per gli interventi in emergenza e per la ricostruzione è molto consistente – osserva nel merito il presidente del Cni, Angelo Domenico Perrini – Da tempo sosteniamo che sarebbe molto più utile intervenire in modo capillare e ben calibrato, a seconda delle caratteristiche e livelli di rischio dei singoli territori del Paese, con opere per la mitigazione del rischio sismico e la messa in sicurezza degli edifici. Qualcosa è stato fatto col sismabonus ordinario e il Supersismabonus. Tuttavia, questi interventi non sono mai ricaduti in un quadro organico o in una sorta di Piano chiaramente definito nei costi, nelle modalità di finanziamento, nelle modalità di intervento nei singoli territori e nei tempi di realizzazione delle opere».
Di fatto secondo la classificazione sismica dei comuni italiani della Protezione civile, elaborata da Cresme-Isi, il 44% del territorio nazionale (133mila kmq) è in area ad elevato rischio (zona sismica 1 e zona sismica 2). Allargando il quadro d’osservazione troviamo che 48 milioni di italiani vivono in 11 milioni di edifici e 17 milioni di abitazioni nelle aree di pericolosità sismica 1,2,3. Nella prima zona sono possibili “fortissimi terremoti”, nella zona 2 “Forti terremoti”, ma anche nella zona 3 possono verificarsi seppur raramente, forti terremoti.
Più nel dettaglio, secondo i dati presentati oggi, 12 milioni di edifici utilizzati per uso residenziale sono stati costruiti prima del 1971, il 57% del totale, e meno del 3% di tutti gli immobili censiti è stato costruito a partire dal 2008, momento in cui le norme tecniche per le costruzioni hanno iniziato a focalizzarsi considerevolmente sulla prevenzione sismica. Se poi andiamo a guardare lo stato di salute di questi edifici, complessivamente solo il 32% dell’intero costruito a scopo abitativo si trova in ottime condizioni (percentuale che scende intorno al 20% se si considerano solo gli immobili costruiti prima del 1960).
«Affrontando il problema del rischio sismico, secondo una logica di prevenzione sismica programmata – argomenta Andrea De Maio, presidente di fondazione Inarcassa –, lo si potrebbe trasformare in un’opportunità, consentendo non solo il risparmio di tutti i costi diretti ed indiretti connessi ad un terremoto, ma anche attivando una leva importante per favorire la crescita e lo sviluppo socioeconomico dei territori».
Una testimonianza diretta arriva dal tragico terremoto che si è abbattuto nel 1976 sul Friuli Venezia Giulia: passata l’emergenza, l’effetto di ammodernamento della ricostruzione, il cosiddetto “building back better”, consentì il passaggio da un’economia agricola a un’economia industriale con un conseguente aumento del Pil del 20%. Ma senza investimenti adeguati, a partire da quelli pubblici, il “miracolo” non può compiersi di nuovo.