Siamo fatti per la foresta, non per l’asfalto
Lo stress cronico non è soltanto una conseguenza del ritmo frenetico della vita moderna, ma il risultato di un profondo disallineamento tra la nostra biologia e l’ambiente in cui viviamo. È quanto sostiene Colin Shaw, antropologo evoluzionista e responsabile dell’Human Evolutionary Ecophysiology Group (HEEP) dell’Università di Zurigo, che con un team interdisciplinare sta cercando di capire come le trasformazioni dell’Antropocene stiano incidendo sulla fisiologia e sul benessere umano.
La ricerca parte da un’ipotesi chiara: i nostri corpi e i nostri cervelli sono il prodotto di centinaia di migliaia di anni di adattamento a condizioni tipiche dei cacciatori-raccoglitori. Le città industrializzate e iperstimolanti, nate in appena tre secoli, rappresentano per il nostro sistema nervoso un ambiente radicalmente nuovo e spesso ostile.
La scorsa estate, Shaw e il suo gruppo hanno condotto un esperimento su 160 persone. I partecipanti hanno trascorso tre ore in tre ambienti diversi: la foresta di conifere del Sihlwald, la foresta di latifoglie del Mont Tendre e la zona urbana di Hardbrücke, a Zurigo.
«Nella foresta», racconta Shaw divertito, «abbiamo fatto sì che le persone si sporcassero, abbracciassero gli alberi e giocassero con il microbioma del suolo e tutto il resto».
Prima e dopo l’esperimento, i ricercatori hanno raccolto biomarcatori in sangue e saliva, oltre a valutazioni psicologiche e cognitive.
I risultati hanno confermato quanto già suggerito da studi di forest bathing e medicina ambientale: nelle foreste la pressione sanguigna si abbassa, la risposta immunitaria migliora e lo stato psicologico risulta più stabile. Al contrario, l’esposizione urbana ha generato un aumento dei livelli di stress sia fisiologico che mentale.
Il nucleo teorico alla base dello studio arriva da un recente lavoro scientifico firmato da Shaw insieme al collega Daniel Longman, della Loughborough University. I due ricercatori sostengono che, dall’inizio della Rivoluzione Industriale, i profondi cambiamenti dell’ambiente umano abbiano inciso negativamente sull’idoneità evolutiva della nostra specie, riducendo fertilità, aumentando infiammazioni croniche e indebolendo le funzioni cognitive.
Secondo Shaw, il problema è che i nostri sistemi neuroendocrini rispondono allo stress quotidiano come se fossimo ancora nella savana a scampare ai predatori. «Nel nostro stato ancestrale, eravamo ben adattati ad affrontare lo stress acuto per sfuggire o affrontare i predatori. Combattere o fuggire. Il leone si avvicinava di tanto in tanto, e bisognava essere pronti a difendersi, o a scappare. La chiave è che il leone se ne va di nuovo. Uno sforzo così estremo garantiva la sopravvivenza, ma era molto costoso e richiedeva un lungo recupero».
Oggi, invece, viviamo un’esposizione costante a micro-stress: traffico, rumore, lavoro, notifiche, conflitti sociali. «Il nostro corpo reagisce come se tutti questi fattori di stress fossero leoni. Che si tratti di una discussione difficile con il partner o il capo, o del rumore del traffico, il nostro sistema di risposta allo stress è praticamente lo stesso che si avrebbe se si dovesse affrontare un leone dopo l'altro». Ma la differenza sostanziale è che non c’è mai recupero.
Camminando verso la città, Shaw evidenzia il paradosso moderno: «Da un lato, negli ultimi trecento anni abbiamo creato questa enorme ricchezza, comfort e assistenza sanitaria per molte persone sul pianeta. Ma dall'altro lato, alcune di queste conquiste industriali stanno avendo effetti piuttosto dannosi sulle nostre funzioni immunitarie, cognitive, fisiche e riproduttive. Ad esempio, dagli anni '50 il numero e la motilità degli spermatozoi sono diminuiti drasticamente negli uomini, il che è legato ai pesticidi e agli erbicidi presenti negli alimenti, ma anche alle microplastiche».
Anche città relativamente vivibili come Zurigo mostrano effetti fisiologici misurabili, l’esposizione urbana aumenta stress e compromette la funzione immunitaria, come indica la ricerca HEEP.
Nonostante la rapidità dell’innovazione tecnologica, la nostra fisiologia resta ancorata ai tempi dell’evoluzione, l’adattamento genetico richiede decine o centinaia di migliaia di anni. «Da una prospettiva evolutiva, se le persone muoiono a causa di stress cronico o di malattie correlate allo stress, si potrebbe dire che si tratta di selezione naturale». Ma è ovvio che questa non è una soluzione eticamente accettabile né realistica.
Se non possiamo adattarci biologicamente ai ritmi dell’Antropocene, dobbiamo quindi ripensare radicalmente il nostro rapporto con la natura, trattandola come un fattore chiave per la salute: rigenerare e proteggere gli spazi naturali, riconoscendoli come parte integrante della salute pubblica e progettare città che rispettino la nostra fisiologia, riducendo stimoli nocivi e introducendo elementi naturali.
Lo studio di Shaw mostra che proteggere gli ecosistemi e ripensare le città in chiave più naturale non è un lusso, ma una necessità sanitaria. Per ridurre lo stress cronico e ricostruire benessere, dobbiamo riportare la natura dentro la vita quotidiana – non come accessorio, ma come parte fondamentale della nostra sopravvivenza.